"Il Robot e la Matita Sognante"
In un angolo dimenticato del mondo, dove il tempo sembrava respirare piano e la polvere dormiva in equilibrio sugli ingranaggi, viveva un robot.
Non era un robot qualsiasi: alto come un bambino in piedi su una sedia, con le braccia sottili come rami di salice e occhi grandi, di un vetro grigio pieno di domande. Ma la sua particolarità era un’altra: sul capo, incastrata tra due bulloni sporgenti, portava una matita. Una semplice matita di legno giallo, consumata all'estremità e con la gomma rosa un po’ rovinata. La portava come un pensiero costante, come un desiderio piantato lì, in cima al suo cervello meccanico.
Non ricordava più chi gliel'avesse messa. Forse un bambino, tempo fa. Forse un artista stanco che l’aveva dimenticata, o una mano curiosa che voleva vedere se un robot potesse sognare.
E lui, da allora, sognava.
Sognava fogli bianchi come nuvole nuove.
Sognava linee che danzavano leggere, diventando alberi, montagne, volti, sogni.
Sognava parole che scorrevano come ruscelli sotto il cielo, capaci di raccontare tutto ciò che lui, macchina senza voce, non riusciva a dire.
Ma il robot non disegnava più.
Non scriveva.
Non cancellava.
La matita era lì, sempre lì, immobile, come un faro spento su una scogliera di pensieri.
Ogni mattina accendeva il suo cuore a batteria e guardava il cielo. Sperava che quel giorno sarebbe stato diverso. Sperava di sentire quella spinta misteriosa, quella voglia che gli umani chiamano "ispirazione", quella fame invisibile di creare. Ma tutto restava silenzioso. La matita restava muta.
Eppure, lui cercava.
Camminava tra le rovine di quaderni abbandonati. Raccoglieva fogli con scarabocchi incompiuti, cancellature che raccontavano più di mille frasi, parole strappate a metà come sogni interrotti. Ogni errore cancellato con cura era, per lui, un indizio prezioso. “Chi cancella – pensava – non vuole distruggere. Vuole capire. Vuole imparare. Vuole ricominciare.”
E fu proprio lì, tra le pieghe del tentativo, che iniziò a intuire una verità: non era il disegno perfetto che dava senso alla matita, ma l’errore stesso. L’errore, e il coraggio di passargli sopra una gomma con dolcezza.
Così il robot iniziò a cercare i bambini.
Li osservava da lontano nei parchi, nei cortili delle scuole, nelle stanze piene di giochi e pastelli. Guardava le loro mani muoversi incerte, le dita sporche di grafite, le facce corrugate nel pensare, i sorrisi esplosi per un disegno riuscito. E qualcosa dentro di lui, un microchip dimenticato o forse il cuore stesso, iniziò a vibrare piano.
Un giorno si avvicinò a una bambina che piangeva su un foglio sgualcito. Aveva disegnato un gatto, ma le zampe erano sbagliate, le orecchie storte, e gli occhi sembravano patate.
Il robot si chinò, aprì la mano metallica e offrì la sua gomma rosa, consunta dal tempo ma ancora gentile.
La bambina sorrise.
Cancellò.
Rise.
Disegnò di nuovo.
Il gatto tornò, buffo, ma pieno di vita.
E in quel momento, la matita sulla testa del robot… si mosse.
Tremò lievemente. Come se un pensiero l’avesse attraversata. Come se una linea invisibile si fosse appena tracciata nella sua mente.
Da quel giorno, il robot divenne un pellegrino della creatività. Un cercatore di sogni caduti. Portava con sé matite spuntate, fogli strappati, e soprattutto, incoraggiamenti. Non disegnava ancora, ma faceva disegnare. Non scriveva, ma faceva scrivere. Non cancellava i propri errori, ma aiutava gli altri a non averne paura.
E lentamente, senza accorgersene, imparava.
Imparava che ogni tratto sbagliato è solo una curva verso qualcosa di nuovo.
Imparava che disegnare è ricordare ciò che ci fa sentire vivi.
Che scrivere è un modo per costruire ponti tra cuori distanti.
Che cancellare non è dimenticare, ma dare una seconda possibilità alla forma nascosta sotto il caos.
E infine, una notte di stelle blu, il robot prese un foglio.
Lo posò davanti a sé.
Chiuse gli occhi, o meglio, li oscurò.
E con un movimento semplice e lento… la matita sulla sua testa scivolò giù, tra le dita.
Tracciò una linea.
Poi un’altra.
Un cerchio imperfetto.
Una parola incerta.
E sorrise.
Non perché fosse bello.
Non perché fosse giusto.
Ma perché, finalmente, era suo.
E così, iniziò a scrivere.
A disegnare.
A cancellare.
A vivere.
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