Marte e Terra: Il Paradosso del Progresso
Immaginate una scena spaziale: il pianeta Terra, perfettamente blu e vibrante, galleggia accanto a Marte, il gigante rosso e spoglio. Due mondi, uno rigoglioso e l’altro arido. Eppure oggi, il sogno collettivo dell’umanità sembra non essere più proteggere la bellezza della Terra, ma colonizzare l’austera superficie marziana.
Com’è possibile? Com’è accaduto che un pianeta perfetto come la Terra sia oggi in bilico tra collasso ecologico, squilibri sociali e guerre per risorse che essa stessa ha sempre offerto in abbondanza?
La risposta, per quanto dura, è semplice: abbiamo sacrificato la Terra al dio denaro.
Abbiamo permesso che il valore delle cose fosse dettato non dalla loro bellezza, dalla loro utilità o dalla loro delicatezza, ma solo dal loro prezzo nel mercato globale. La macchina dei soldi ha divorato foreste, ghiacciai, oceani. Ha trasformato la biodiversità in una cifra di profitto, l’equilibrio climatico in una voce di spesa, la cultura in marketing.
E ora, quando la Terra mostra segni di stanchezza, invece di curarla, la vogliamo sostituire.
Marte è diventato il nuovo sogno industriale: colonizzare, terraformare, costruire. Un mondo che non ci ha chiesto nulla, ma sul quale proiettiamo il nostro desiderio di fuga e di ricominciare. Come se fosse possibile resettare il gioco della civiltà, ignorando il fallimento del primo round.
Ma c’è una stranezza profonda in tutto questo: chi distrugge un mondo perfetto come la Terra in nome del denaro, come potrà costruirne uno migliore in un deserto rosso e spietato?
Per ogni problema creato da questa macchina che consuma e si autoalimenta, si trova una soluzione rapida: un’app, una legge, una conferenza. Ma ogni toppa applicata su una falla genera nuove crepe altrove. Il ciclo è perverso: creare problemi per risolverli non è progresso, è logica da incendio controllato. E non si può vivere perennemente in un mondo che brucia.
L’umanità sta giocando a fare il demiurgo, ma si dimentica che la creazione non è solo potere, è anche responsabilità. Ogni volta che costruiamo una nuova città, una nuova tecnologia, una nuova narrazione, ci illudiamo di essere in controllo. E invece, ogni aggiustamento rischia di rompere qualcos’altro: un equilibrio ecologico, un tessuto sociale, un valore etico.
Dovremmo fermarci. Osservare. E ricordare che il vero pianeta da colonizzare era, ed è ancora, la Terra stessa.
Non nelle sue terre vergini o nei suoi deserti esotici, ma nei nostri modi di viverla. Nella qualità delle nostre relazioni, nella profondità delle nostre scelte, nella lentezza dei nostri gesti.
Marte può attendere.
La Terra, invece, non può più farlo.
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