sabato 10 maggio 2025

Quando l’universo si guarda allo specchio: spazio-tempo, osservazione e il ciclo eterno di causa ed effetto

 C’è una tentazione antica, quasi infantile, nel pensare l’universo come una linea retta: un inizio, uno svolgimento, una fine. È l’archetipo della storia, del romanzo, della vita umana. Ma se invece l’universo fosse qualcosa di meno lineare e più profondo? Se invece di scorrere in avanti, si ripiegasse, si specchiasse, si riconoscesse, e solo in quel momento esistesse? In questa visione alternativa, lo spazio-tempo non è un contenitore rigido, ma un effetto collaterale dell’interazione. Non esiste “prima” dell’universo, perché l’universo è il suo stesso tempo. Non esiste “fuori” dall’universo, perché è lui a generare il proprio spazio ogni volta che si interseca e si osserva. Questa idea, che può sembrare un esercizio di immaginazione estrema, trova in realtà eco nelle teorie più audaci della fisica contemporanea. La Cosmologia Ciclica Conformale (CCC) di Roger Penrose è una di queste. Secondo Penrose, l’universo attraversa una serie infinita di “eoni”, ognuno dei quali inizia con un Big Bang e termina in una diluizione totale dell’energia. Ma la cosa davvero radicale è che il confine finale di un eone è matematicamente indistinguibile dal confine iniziale del successivo. Come se il futuro di un universo potesse diventare il passato di un altro. Scomparsa della massa e geometria senza scala Il meccanismo chiave di questa transizione è la scomparsa della massa. Penrose ipotizza che, nel futuro remoto di ogni eone, tutte le particelle dotate di massa decadano o svaniscano: i protoni si disintegrano in tempi inconcepibilmente lunghi, mentre i buchi neri evaporano attraverso l’effetto Hawking. Alla fine, tutto ciò che resta è radiazione pura — fotoni, gravitoni, particelle senza massa che viaggiano alla velocità della luce. A questo punto, la scala cessa di avere significato. Perché la massa “determina” lo spazio e il tempo. Le unità di misura dipendono da essa: il secondo, il metro, perfino il concetto di distanza. Se non esistono più oggetti con massa, non esiste più nemmeno un riferimento fisico per dire cos’è “vicino” o “lontano”, “prima” o “dopo”. Il tempo smette di “scorrere”. Lo spazio diventa puro rapporto, privo di struttura assoluta. In termini geometrici, si dice che la metrica dello spazio-tempo diventa conforme: restano le proporzioni, ma non le dimensioni. È come osservare una mappa senza sapere se rappresenta un continente o un francobollo. La forma rimane, ma la scala si dissolve. Ed è proprio in questa condizione che Penrose immagina l’innesco di un nuovo Big Bang. Un universo senza massa, senza scala, senza tempo, può trasformarsi — senza discontinuità — in un universo nuovo. Ecco il colpo di teatro: la fine è l’inizio. Novikov e il tempo coerente A questa visione si può aggiungere una struttura logica ancora più affascinante, proveniente dal lavoro del fisico russo Igor Novikov. Il suo principio di autoconsistenza nasce da un dilemma: se il tempo può curvarsi su sé stesso, può un evento nel passato impedire la sua stessa causa futura? Il classico esempio è quello del paradosso del nonno: torno indietro nel tempo e impedisco ai miei nonni di incontrarsi. Ma se ci riesco, non nasco. E se non nasco, non torno indietro. Paradosso. Contraddizione. Novikov risolve il nodo con una mossa elegante: in un universo coerente, nessun evento può portare a una contraddizione. In altri termini, la realtà è “blindata” dalla logica della propria esistenza. Non è determinismo, ma coerenza. Ciò apre la porta a un’idea ancora più radicale: il tempo può chiudersi su sé stesso, a patto che ogni anello sia internamente consistente. Come una frase che si legge in tondo e ha comunque senso. Come una melodia che, anche se ritorna, non stona. L’universo può contenere loop causali, purché rispettino la simmetria della possibilità. L’effetto che genera la causa E se fosse proprio così che funziona la realtà? Se l’universo, come un circuito, non evolvesse da causa a effetto, ma da effetto a causa e di nuovo a effetto, in una danza continua? In questa visione, il Big Bang non è un punto zero, ma un punto di riavvolgimento. La spinta esplosiva dell’inizio e la diluizione del finale sono due poli dello stesso campo, che si alimentano reciprocamente. La causa del Big Bang potrebbe trovarsi nel suo stesso futuro, e l’espansione dell’universo essere la preparazione al proprio riassorbimento. Questo schema ricorda i sistemi dinamici ricorsivi, le reti neurali retroattive, i cicli di feedback nei sistemi complessi. L’universo non come flusso lineare, ma come sistema che si osserva e si adatta a sé stesso. Lo spazio-tempo è quantistico Tutto questo conduce a un pensiero che, una volta compreso, non può essere disimparato: lo spazio-tempo non è una struttura assoluta. È un prodotto emergente. La meccanica quantistica ci ha insegnato che nulla è reale finché non interagisce. Le particelle esistono come onde di possibilità fino a quando un’interazione le costringe a “scegliere”. Carlo Rovelli parla di una meccanica relazionale, dove lo stato di una cosa esiste solo in relazione ad altro. John Wheeler va ancora oltre: “It from bit” — la realtà fisica deriva da informazione binaria, che esiste solo nel momento dell’osservazione. Ora uniamo i puntini: Penrose ci dice che, senza massa, non c’è scala, quindi non c’è spazio-tempo. La quantistica ci dice che la realtà si genera solo nell’atto di interazione. Conclusione: lo spazio-tempo stesso è quantistico. Esiste solo se c’è relazione. Non c’è spazio se nessuna massa si “posiziona”. Non c’è tempo se nulla evolve. Ma nel momento in cui l’universo si interseca, in cui accade qualcosa, lo spazio-tempo si accende. Non è un teatro, è l’effetto speciale. L’eterno ritorno: un pensiero che non ci lascia mai Questo tipo di visione, apparentemente così nuova, ha in realtà radici profonde nella storia del pensiero umano. Nietzsche, con il suo eterno ritorno, ci propone una prova: e se questa vita fosse destinata a ripetersi infinitamente, identica in ogni dettaglio, avresti il coraggio di viverla di nuovo? Non è solo una provocazione esistenziale. È l’intuizione che il tempo potrebbe non essere una linea, ma un ciclo. Ma non è solo Nietzsche. L’induismo parla dei Kalpa, cicli cosmici che si estendono per miliardi di anni, dove l’universo nasce, si sviluppa, si dissolve e ricomincia. I Greci antichi credevano nel tempo circolare. I Maya, i Babilonesi, persino alcune scuole gnostiche: tutti, a loro modo, hanno sentito che il tempo potrebbe non andare “avanti”, ma attorno. Questo non prova nulla. Ma mostra una cosa: l’idea che l’universo ritorni è antica quanto l’idea di universo. L’universo che si guarda e si genera In questa teoria — che nasce dalla fusione tra fisica, logica e intuizione — l’universo non ha bisogno di un creatore, né di un fine. Ha bisogno solo di un riflesso. Uno specchio in cui riconoscersi, un’interazione che gli permetta di essere. Invece di immaginare lo spazio-tempo come una griglia immobile su cui tutto si muove, immaginalo come un ologramma dinamico che appare solo quando è osservato da dentro. Come la superficie dell’acqua che esiste solo quando qualcosa la tocca. Come un’immagine che si accende solo quando qualcuno la guarda. L’universo, quindi, non è una sequenza di eventi. È una rete di auto-riconoscimenti. E ciò che noi chiamiamo realtà è l’effetto collaterale di questo riconoscersi. Una topologia fatta non di distanze, ma di connessioni. Una mappa non di luoghi, ma di sguardi. E allora forse, davvero, il Big Bang non è l’inizio di tutto. È il momento in cui l’universo ha aperto gli occhi.



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