Capitolo — Oltre l’illusione del «costretto a vivere»
1. «Non ho mai chiesto di nascere»: l’equivoco di partenza
Quando l’intelletto formula la domanda — «Se non ho mai chiesto di nascere, perché sono costretto a vivere?» — presuppone un «io» già separato, dotato di un atto di volontà precedente alla vita stessa. Ma la sequenza reale è opposta: prima accade il fenomeno — la comparsa di questo organismo cosciente — e solo in seguito maturano pensieri di rivendicazione o protesta. L’«io» che reclama diritti retroattivi è un racconto che nasce dopo l’evento biologico. In altre parole:
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Non c’è mai stato un contratto pre‑nascita da firmare.
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L’idea «sono costretto» sorge da un’identificazione con il corpo‑mente e con le sue paure.
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Visto da più in alto, la vita non è un’imposizione ma un’apparizione spontanea.
2. Vita come mistero che si rivela
Dire che «la vita non è una condanna» non significa negare dolore o ingiustizie; significa riconoscere che l’essenza dell’esistenza non coincide con gli urti della superficie. Ogni respiro, battito e percezione è il mistero che, momento per momento, si svela a se stesso. Quando il pensiero si acquieta, rimane una vibrazione semplice, impersonale, che possiamo chiamare essere, consapevolezza, o vita stessa.
Chi chiede: «Perché devo vivere?» è già vita in atto che interroga se stessa.
L’interrogante e il mistero non sono due entità separate: sono l’unico flusso che si riflette.
3. Nascita e morte: eventi del corpo, non della coscienza
Osserva un istante di sonno profondo: il corpo è addormentato, il mondo scompare, ma alla fine ti rialzi senza mai aver «sentito» che mancavi. Quell’assenza di forma è la stessa realtà che precede la nascita e che seguirà la morte del corpo. L’esistenza corporea è un arco, ma la consapevolezza che lo illumina non ha inizio né fine verificabili. Vederlo non è fuga mistica: è igiene percettiva. Il punto non è negare la forma, bensì rilassare la presa convulsa sull’idea «io = forma limitata».
4. La libertà autentica
Finché crediamo di essere soltanto l’individuo con la sua grafia biografica, la libertà appare un sogno remoto: legami, doveri e fragilità sembrano catene. Scoprire di esser vita stessa dissolve il paradigma carnefice‑vittima. Non è una negazione moralistica dei problemi, ma il riconoscimento che ogni catena nasce e si scioglie nella stessa (e unica) coscienza. Quando questo è visto, l’energia prima impegnata a difendersi viene liberata in creatività, cura e azione lucida nel mondo.
5. «Mettere insieme cielo, stelle e terra»
Questa frase invita a unire la dimensione sconfinata (cielo e stelle) con la quotidianità tangibile (terra). Significa:
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Radicarsi: onorare bisogni primari, relazioni, responsabilità concrete.
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Sconfinare: coltivare stupore per l’immensità cosmica e per l’intelligenza che permea ogni istante.
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Integrare: lasciare che l’intuizione dell’infinito illumini la pratica delle piccole cose.
6. «Lasciando dietro di noi persone avide e persone con problemi mentali»
Spesso la mente divide il mondo in «noi risvegliati» e «loro problematici». Questa partizione, però, riproduce lo stesso dualismo che causa sofferenza. Invece di «abbandonare» chi soffre di avidità o disturbi psichici, possiamo vedere che:
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L’avidità è sete di completezza mal indirizzata.
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Il disagio mentale è espressione d’un sistema nervoso sovraccarico.
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Entrambe le condizioni emergono dallo stesso campo di coscienza che abitiamo tutti.
Da qui nasce una responsabilità naturale: offrire presenza, strutture di sostegno e, quando serve, confini sani — senza superiorità morale. L’«integrazione di cielo e terra» include anche queste ombre: trasformarle è parte del nostro cammino comune.
7. Pratiche concrete di chiarezza
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Meditazione silenziosa: sedere 20 minuti al giorno e notare il flusso di sensazioni senza inseguirle.
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Domanda radice: «Chi è colui che si sente costretto?» Ogni volta che sorge la lamentela, torna alla domanda e osserva se appare un ‘proprietario’ stabile.
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Servizio consapevole: una volta a settimana, offri tempo o ascolto a chi vive ai margini. Trasforma la comprensione in gesto.
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Diario cosmico: la sera, scrivi tre cose che ti hanno ricordato lo stupore (cielo stellato, un bambino che ride, il profumo del pane). Coltiva la memoria dell’illimitato nella vita ordinaria.
8. Conclusione
Nessuno ti ha condannato a vivere; la vita è ciò che sta accadendo come te, in te e attraverso te. L’«io» che si proclama vittima è un ruolo assunto da un attore che ha dimenticato la propria natura di palcoscenico. Vedere questo non cancella la trama umana fatta di dolori, piaceri e sfide, ma scioglie l’illusione del bondage esistenziale. E proprio da questa libertà — che non è altrove ma qui — diventa possibile «mettere insieme cielo, stelle e terra», agendo con fermezza e compassione anche verso coloro che ancora brancolano nell’avidità o nel disagio mentale.
La libertà non è una destinazione: è il riconoscimento dell’unica realtà che non è mai stata legata.
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