mercoledì 17 settembre 2025

Il silenzio davanti all’ingiustizia non è neutralità: è complicità che prepara nuove ferite.



Il Silenzio che Uccide: dalla Corte dei Kaurava alla Nostra Vita Quotidiana

Nella grande epopea indiana, il Mahabharata, uno degli episodi più drammatici riguarda la disgrazia subita da Draupadi durante il gioco dei dadi. I Pandava, perdendo tutto contro i loro cugini Kaurava, arrivarono a scommettere perfino la loro dignità reale e la loro stessa moglie. Umiliata in piena corte, trascinata per i capelli, Draupadi venne minacciata di essere spogliata davanti a tutti.

In quella sala non c’erano solo Duryodhana e i suoi fratelli. C’erano anche figure di enorme saggezza e autorità: Dhritarashtra, Bhishma, Dronacharya e Kripacharya. Uomini rispettati, guide spirituali, guerrieri e maestri. Tutti avrebbero potuto intervenire, fermare l’ingiustizia con una sola parola.
Ma scelsero il silenzio.

Ed è proprio quel silenzio ad aver spalancato le porte alla guerra più devastante di tutte: Kurukshetra, che non risparmiò nessuno.


Il prezzo del silenzio

Il silenzio non è sempre sinonimo di pace. A volte, è complicità.
Rimanere muti davanti all’ingiustizia significa legittimarla. Nel caso del Mahabharata, quell’omissione fu la scintilla che incendiò un intero regno.

Allo stesso modo, nella nostra vita quotidiana, il silenzio ha conseguenze:

  • Quando accettiamo un matrimonio che non desideriamo, per paura di ferire i genitori o la società, condanniamo noi stessi a una vita che non ci appartiene.

  • Quando restiamo in una relazione tossica senza dire nulla, alimentiamo un ciclo di manipolazioni e dolore.

  • Quando un amico ci tratta con disprezzo e non reagiamo, stiamo insegnando a quella persona che il suo comportamento è accettabile.

  • Quando vediamo genitori litigare o una nuora subire abusi, e restiamo a guardare, diventiamo parte del problema.

Il silenzio può sembrare la via più facile, ma ha un prezzo altissimo: la dignità, la giustizia, la pace interiore.


Perché scegliamo il silenzio?

Spesso non parliamo per:

  • Paura: di perdere affetti, lavoro, sicurezza.

  • Rispetto mal interpretato: pensiamo che contestare significhi mancare di rispetto agli anziani, agli amici o al partner.

  • Convenienza: meglio non esporsi, meglio “lasciar correre”.

  • Illusione di pace: crediamo che tacendo evitiamo conflitti, ma in realtà li stiamo solo rimandando.


Parlare è un atto di responsabilità

Non significa gridare, non significa litigare. Significa dare voce alla verità, con fermezza e rispetto. Un “No” pronunciato con chiarezza può cambiare il corso di una vita.

  • In una relazione: dire “questo non mi fa stare bene” è il primo passo verso la libertà emotiva.

  • In famiglia: dire “non è giusto trattare così” può aprire varchi di consapevolezza.

  • Nella società: denunciare abusi, corruzione o discriminazioni è l’unico modo per spezzare catene che altrimenti restano invisibili.


La lezione del Mahabharata oggi

Il Mahabharata non è solo un racconto mitico. È un manuale di vita.
Ci insegna che non intervenire davanti all’ingiustizia è una colpa tanto quanto commetterla.

Se Bhishma o Dronacharya avessero parlato, se avessero avuto il coraggio di dire “basta”, forse il sangue di Kurukshetra non avrebbe mai bagnato la terra.
Allo stesso modo, se noi oggi scegliamo di rompere il silenzio, possiamo evitare guerre personali e familiari che devastano intere esistenze.


Conclusione: La voce come responsabilità morale

Ogni volta che tacciamo di fronte all’ingiustizia, stiamo scrivendo un piccolo Kurukshetra nella nostra vita.
La verità può essere scomoda, ma è l’unica arma che previene sofferenze più grandi.

Quindi, la prossima volta che il cuore ti dice “questo non è giusto”, non zittirlo.
Parla. Per te, per chi ami, per chi non può difendersi.

Perché il silenzio non salva mai: il silenzio distrugge.




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