lunedì 15 settembre 2025

Quando la sofferenza dissolve l’illusione dell’io, ciò che resta non è un vuoto, ma la quiete indivisa che da sempre ci abita.

 

La porta aperta dal dolore: un viaggio nella quiete che rimane

«La sofferenza aprì il cancello. Il silenzio mi ha guidato. Quello che cercavo si è sgretolato. Che io sono rimasto. L'io a cui mi aggrappavo svanì. Ciò che è rimasto non può essere nominato. Nessuna luce lampeggiava, solo il cadere di ciò che non era mai stato vero. E in quella quiete, non sono mai stato separato.»

Questa breve sequenza di versi è una mappa — austera e luminosa — che conduce dall'urto violento della sofferenza fino a un orizzonte dove le categorie abituali (io, ricerca, verità) si dissolvono e qualcosa di impalpabile prende la parola. In questo articolo approfondisco, passo dopo passo, i motivi tematici, le immagini e le possibilità interpretative racchiuse nel testo, proponendo anche spunti pratici per chi vuole usare questa esperienza come leva di crescita interiore o riflessione creativa.


1. Primo impatto: la sofferenza come soglia

«La sofferenza aprì il cancello.»
La frase iniziale capovolge un luogo comune: non è la gioia che spalanca porte, ma la sofferenza. Qui il dolore non è solo evento negativo: è evento trasformativo, porta, discontinuità. L'immagine del cancello suggerisce una soglia — qualcosa che separa due territori: prima e dopo. Non si tratta di una distruzione fine a se stessa, ma di un passaggio obbligato.

Dal punto di vista narrativo, la sofferenza è qui motore e innesco. Psicologicamente, apre spazi che l'abitudine e il confort chiudevano; spiritualmente, crea vuoto, condizione necessaria per incontrare il silenzio che seguirà.


2. Il silenzio che guida

«Il silenzio mi ha guidato.»
Invece di percepire il silenzio come assenza, il testo lo presenta come presenza attiva, guida. Questo ribalta la gerarchia: non più parola, concetto o azione che conducono, ma il tacere che dirige. È un silenzio che non è semplice quiete esterna, ma una qualità interiore — disciplina, vuoto ricettivo, ascolto.

È qui che l’esperienza smette di essere solamente psicologica e diventa fenomenologica: la coscienza cambia modalità operativa, da ricerca di oggetti a ricezione.


3. La dissoluzione della ricerca e dell’io

«Quello che cercavo si è sgretolato. Che io sono rimasto. L'io a cui mi aggrappavo svanì.»
Questa è la parte più destabilizzante e al contempo liberatoria del testo. C'è una dissoluzione progressiva: ciò che era oggetto di ricerca — forse un senso, un amore, una verità — crolla. Ciò che resiste non è il vecchio io, ma una presenza minima, spogliata di aggrappamenti.

Qui si distingue tra due "io": l’io narcisistico, costruito su desideri e immagini, e l'io più semplice che resta quando le maschere cadono. Non è un'estinzione patologica, ma un depotenziamento delle identificazioni.


4. L'indicibile che resta

«Ciò che è rimasto non può essere nominato.»
Il linguaggio mostra i suoi limiti. Quando qualcosa non può essere nominato, non significa che non esista, ma che è al di là della categoria concettuale. È un'indicibilità che è anche presenza piena: un ponte tra esperienza e mistero.

Questa indicibilità è fertile: invita a pratiche non verbali (meditazione, arte, ascolto profondo) e dice che l'esperienza ultima non è un concetto da afferrare ma una qualità da abitare.


5. La verità che cade e l'unità riconosciuta

«Nessuna luce lampeggiava, solo il cadere di ciò che non era mai stato vero. E in quella quiete, non sono mai stato separato.»
La luce che lampeggia potrebbe rappresentare rivelazioni effimere, intuizioni che accecano ma non durano. Al contrario il “cadere di ciò che non era mai stato vero” è uno sgretolamento profondo delle illusioni. Il risultato non è il vuoto angosciante, ma una quiete in cui la separazione — tra io e mondo, tra soggetto e oggetto — si rivela come una costruzione.

La parola finale — unità implicita: «non sono mai stato separato» — è un colpo d’ala che trasforma il dolore in riconoscimento: la sofferenza ha rimosso i veli e ha mostrato ciò che era sempre presente, nascosto dietro le piccole illusioni della separazione.


6. Linguaggio e ritmo: come il testo crea esperienza

Il linguaggio è scarno, privo di orpelli. Le frasi brevi e sequenziali hanno l'effetto di procedere per immagini nette: apertura, guida, sgretolamento, resa, indicibilità. Non si cercano spiegazioni, si documenta un fluire.

Lo stile è vicino a testi mistici o a versi prosiatici: assenza di metafore ipercomplesse, uso dell’enunciazione come rito. Il ritmo graduale accompagna il lettore verso la stessa quiete, quasi inducendolo a sperimentare il processo descritto.


7. Riferimenti tematici: dove ci porta il testo (senza citarli esplicitamente)

Il nucleo esperienziale richiama tradizioni filosofico-spirituali che vedono la sofferenza come insegnante (non per ragioni punitive ma trasformative), l'indicibilità come segno di profondità e l'unità come realtà ultima. Anche fuori da qualunque scuola, il testo fa pensare a quelle esperienze intime in cui un trauma, un lutto o una crisi svuota l'orizzonte delle certezze e produce una nuova configurazione del sé.


8. Per il lettore: come lavorare con questo testo (pratiche e spunti)

Se vuoi usare questi versi come pratica o punto di partenza per una riflessione personale, prova le seguenti proposte:

  1. Lettura lenta e ripetuta — leggi il testo ad alta voce tre volte, e poi in silenzio. Nota cosa si muove dentro: immagini, sensazioni fisiche, respiro.

  2. Scrittura di accompagnamento — dopo la lettura, scrivi per dieci minuti tutto ciò che emerge: ricordi, paure, immagini. Non correggere.

  3. Meditazione sul “cadere” — siediti in modo comodo, concentra l’attenzione sul respiro. Quando pensieri o immagini sorgono, immagina che cadano come foglie; osserva senza attaccamento.

  4. Dialogo creativo — prendi una frase e trasformala in una piccola scena: chi o cosa è quel cancello? Che forma ha la sofferenza che lo apre? Questo stimola la dimensione immaginativa.

  5. Condivisione — se ti senti pronto, leggi il testo a qualcuno e ascolta la sua reazione: la parola altrui può farti vedere altre aperture.


9. Per chi scrive: suggerimenti per trasformare il materiale in contenuto (post, poesia, performance)

  • Mantieni la semplicità: il potere del testo sta nella sua essenzialità. Evita spiegazioni troppe ricche.

  • Usa il bianco: spazi bianchi tra le frasi, pause lunghe, silenzi nella performance.

  • Sperimenta con audio: una registrazione in cui la voce rallenta progressivamente può rendere la transizione dalla sofferenza alla quiete.

  • Integra immagini minimaliste (una porta socchiusa, foglie che cadono, una stanza vuota) per accompagnare la lettura senza spiegare.


10. Conclusione: una mappa per ritrovare quello che non si può nominare

Il testo che hai proposto è breve ma denso: prende il lettore per mano e lo conduce attraverso tre fasi — frattura, dissoluzione, riscoperta di un fondamento non duale. Non pretende di spiegare; mostra. In questo mostrare sta il suo valore: invita a varcare il cancello che la sofferenza apre e ad abitare la quiete che resta, dove la parola si esaurisce e una non separazione comincia a farsi sentire.



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