🌙 Sila, la bimba che ha dormito nel freddo del mondo
Non è morta solo una bambina.
È morta la nostra capacità di proteggerla.
Sila aveva tre settimane di vita. Nata in un luogo dove il cielo non promette futuro, dove la notte non è solo buia ma piena di vento, di paura, di assenza. È morta di freddo, avvolta in una coperta sottile, dentro una tenda che non ha mai conosciuto calore.
Il freddo non è solo una temperatura.
È una condizione dell’anima collettiva.
È il simbolo di un mondo che si è abituato a contare i morti come se fossero numeri, e non battiti di cuore interrotti.
Sila non è una notizia, è un atto d’accusa silenzioso.
Ha gridato senza voce contro tutte le guerre, contro tutte le giustificazioni, contro il sonno della coscienza che ci fa scorrere le notizie sullo schermo e dire “che orrore”, per poi tornare alla nostra vita calda, sicura, dimentica.
Ci siamo abituati all’atrocità come a un rumore di fondo.
Ma ogni volta che un bambino muore per freddo, la civiltà si spegne un po’ di più.
Sila non aveva un rifugio, ma aveva un nome.
E un nome è già un universo.
Il suo corpo piccolo è diventato il termometro del nostro gelo morale: quello che ci fa discutere di confini mentre i neonati muoiono sotto il vento.
In un mondo che si dice connesso, la connessione più urgente è quella umana.
Quella che scalda, che copre, che tende una mano reale.
Non bastano hashtag o proclami. Servono scelte, compassione pratica, empatia che diventa movimento.
Sila ci lascia una domanda che non possiamo ignorare:
quante tende gelide servono ancora perché il mondo capisca che l’infanzia è sacra, ovunque nasca?
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