Genesi dell’essere umano tra Amore e Distruzione
Introduzione
Fin dall’alba dei tempi l’essere umano è stato nutrito da un doppio battito: quello del cuore e quello del fuoco. Da una parte, la cura originaria – il gesto della madre che avvolge il neonato, la comunità che condivide il pane –, dall’altra la scintilla del dominio, la fiamma che forgia utensili e brucia foreste. Oggi, su quest’ultima spiaggia che separa l’umanità dalla propria estinzione o dal proprio rinnovamento, siamo chiamati a fare i conti con il paradosso che ci definisce: nati nell’affetto, divenuti artefici di distruzione.
1. Amore primordiale e pulsione di potere
Nelle caverne di Lascaux, nei deserti in cui prosperarono le prime civiltà idrauliche, il sostegno reciproco ha garantito la sopravvivenza. Eppure, quello stesso istinto cooperativo ha generato sovrastrutture di potere che, se da un lato hanno tutelato il gruppo, dall’altro hanno codificato gerarchie e sopraffazioni. L’agricoltura organizzata, il surplus e la proprietà privata hanno via via eroso l’equilibrio con la biosfera, trasformando la terra in risorsa da contabilizzare.
2. Cambiamenti climatici: l’impronta del Prometeo moderno
Con la Rivoluzione industriale (1760‑1840) l’umanità ha scoperchiato il vaso di Pandora fossile. In poco più di due secoli la concentrazione atmosferica di CO₂ è passata da 280 a oltre 420 ppm, riscaldando il pianeta di circa 1,3 °C rispetto all’epoca preindustriale. Gli eventi estremi – ondate di calore, siccità, alluvioni – non sono più anomalie ma sintomi cronici. Ogni grado in più spalanca scenari di migrazioni forzate, conflitti per l’acqua, collassi agricoli. La spiaggia si assottiglia, l’onda sale.
3. Cibo modificato e biopolitica dell’alimentazione
L’ingegneria genetica ha promesso di sfamare il mondo. In parte ci è riuscita, aumentando rese e resistenza alle malattie. Ma il prezzo è stato l’omologazione delle sementi, la dipendenza da pesticidi, la perdita di biodiversità agricola. Il cibo – linfa di comunità e culture – è divenuto merce brevettata. Se un tempo «siamo quel che mangiamo» era un aforisma identitario, oggi rischia di tradursi in «possediamo chi mangia ciò che possediamo».
4. La mercificazione del corpo femminile
Nel mercato globale l’immagine della donna è spesso ridotta a asset pubblicitario: corpo scolpito, eterno presente giovanile, valore di scambio che impone canoni irraggiungibili. Dall’iper‑sessualizzazione nei media alla disparità salariale, l’oggettivazione sottrae soggettività e oscura la pluralità di ruoli, storie, desideri. È un sintomo dello stesso paradigma che sfrutta suolo e atmosfera: ciò che è considerato “altro” viene convertito in capitale.
5. Speranza incarnata: restituire all’adulto il bambino che era
Eppure, sotto la coltre di cenere, sopravvive la brace della cura. Ogni volta che un adulto ricorda lo stupore infantile – il silenzio davanti a un tramonto, la fiducia nel mondo – riattiva circuiti neurali di empatia e cooperazione. Le scienze cognitive mostrano che l’empatia si coltiva: bastano pratiche di ascolto, educazione all’alterità, ambienti che premiano la collaborazione invece della competizione spietata. La speranza non è ingenua; è esercizio continuo di immaginare alternative.
6. Verso un nuovo patto con il Pianeta
Rompere il paradigma distruttivo richiede politiche sistemiche – decarbonizzazione rapida, agricoltura rigenerativa, parità di genere reale – ma anche micro‑rivoluzioni quotidiane: ridurre, riusare, restituire. Significa misurare il progresso non in PIL ma in qualità relazionale, salute degli ecosistemi, felicità pubblica. Significa capire che la “natura” non è un giardino esterno, bensì il tessuto stesso della nostra esistenza.
Conclusione: l’ultima spiaggia non è la fine
L’ultima spiaggia non è solo un luogo di resa. È anche frontiera di nascita, limen dove s’innesca la metamorfosi. Possiamo scegliere di varcare quella soglia come custodi, non come predatori. Ritrovare nell’adulto il bambino disarmato dalla meraviglia significa riconoscere l’altro – la donna, l’albero, il migrante, il futuro – come parte di un medesimo respiro.
Se torneremo a chiamare la Terra con il pronome dell’affetto – casa – forse l’onda che avanza diventerà un abbraccio, non un’erosione.
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