domenica 12 ottobre 2025

Erano anni in cui aspettare significava vivere due volte: una nell’attesa, e una nel momento in cui finalmente accadeva.

 

Profondità di pensiero anni ’90: cosa avevamo (e cosa ci manca)

Gli anni ’90 sono spesso liquidati come “pre-Internet”, ma ridurli a questo è un torto. In quel decennio—ponte tra analogico e digitale—si è formata una postura mentale capace di scavare, collegare, metabolizzare. Non era una profondità elitaria: era un’abitudine quotidiana, coltivata da tempi lenti, media diversi e relazioni non sempre immediate. Qui provo a mappare quella profondità, capire perché si è persa e come possiamo ricostruirla oggi.


1) Lentezza strutturale: quando l’attesa pensava al posto tuo

  • Scarcity di stimoli: niente feed infiniti. Le fonti erano finite (giornali, TV, radio, librerie, videoteche). La scarsità spingeva a spremere ogni contenuto fino all’ultimo: riascoltare lo stesso album, rileggere lo stesso articolo, ri-vedere la stessa VHS.

  • Attese produttive: sviluppare un rullino, aspettare il CD al negozio, prenotare un libro. L’attesa diventava incubazione: un tempo neutro in cui le idee sedimentavano.

  • No multitasking spinto: ascoltare un disco significava ascoltarlo. Senza smartphone, l’attenzione era monogama.

Effetto cognitivo: la mente imparava a stare sul pezzo. La profondità non era una virtù morale: era un sottoprodotto dell’infrastruttura.


2) Ecosistemi culturali densi (ma non saturi)

  • Riviste e fanzine: i magazine curavano, filtravano, argomentavano. Le fanzine cucivano micro-scene con editoriali e manifesti: nasceva un pensiero tribale ma articolato.

  • Televisione “a orario”: la programmazione creava rituali collettivi. Pochi appuntamenti, molta discussione prima e dopo. Il commento non era una reazione impulsiva, ma una conversazione.

  • Negozi fisici come hub: dischi, fumetterie, librerie: luoghi dove scambiavi competenze. Il commesso era un algoritmo umano con memoria critica.

Effetto cognitivo: filtro + frizione. Non tutto passava; ciò che passava, veniva masticato.


3) Subculture come palestre di metodo

  • Hip-hop, punk, rave, scena indie, club culture: non solo estetiche, ma metodologie: crate digging, remix, sampling, DIY, collezionismo. Il gesto estetico presupponeva ricerca e genealogie.

  • Forum pre-social (BBS, IRC, primi newsgroup): le conversazioni erano più lente e testuali. La reputazione si costruiva su contributi concreti, non su like.

  • Gaming e LAN party: setting cooperativi/competitivi che richiedevano strategie, non scroll.

Effetto cognitivo: la profondità nasceva dal fare (assemblare mixtape, montare un PC, serigrafare una maglietta), non solo dal consumare.


4) Educazione all’ambiguità

  • Ironia e intertestualità pop: dai videoclip ai fumetti d’autore, tutto era pieno di citazioni. Per capirle serviva memoria culturale e un minimo di scavo.

  • Fine delle grandi narrazioni, micro-storie: dopo la Guerra Fredda l’“orizzonte” sembrava stabile, ma proprio lì si sviluppano pensieri critici su identità, globalizzazione, media. Il disincanto spingeva a problematizzare.

Effetto cognitivo: tolleranza per il non detto e gusto per la lettura tra le righe.


5) Tecnologia con attrito (e quindi con progetto)

  • Connettività intermittente: il modem 56k imponeva sessioni finite. Ti preparavi prima: salvavi link, annotavi domande, organizzavi file.

  • Software limitato, hardware caro: imparavi a spremere strumenti pochi ma buoni. Si sviluppava una mentalità di progetto: fare di più con meno.

  • Archivi personali: CD-R, quaderni, raccoglitori di ritagli: il tuo “algoritmo” eri tu. L’ordine—e la memoria—costavano fatica, quindi erano significativi.

Effetto cognitivo: progettualità e metacognizione (sapere come cerchi, perché tieni, come colleghi).


6) La perdita: cosa è cambiato davvero

  • Saturazione e simultaneità: oggi tutto è disponibile, sempre. Più che informazione, abbiamo rumore.

  • Instant feedback: like e commenti spingono alla reazione breve, non all’elaborazione.

  • Delega totale agli algoritmi: meno archivi personali, meno tracce intenzionali.

  • Frammentazione sociale: le micro-scene esistono, ma vivono spesso in bolle atomizzate e accelerazioniste.

Diagnosi onesta: non è che “pensiamo peggio”. Pensiamo diversamente, con strumenti che penalizzano la profondità e premiano la visibilità.


7) Cosa possiamo recuperare (senza nostalgia sterile)

7.1. Ricreare scarsità e rituali

  • Finestra di consumo: stabilisci orari per informarti (es. 30’ mattina, 30’ sera). Nel resto del tempo, niente notizie.

  • One-screen rule: un dispositivo alla volta; notifiche spente quando leggi/ascolti.

  • Playlist finite e album interi: scegli 3 album/settimana e ascoltali dall’inizio alla fine.

7.2. Curatela umana > feed

  • Bibliografie personali: ogni mese una “lista delle fonti” (articoli, libri, video) con due righe di perché contano.

  • Figure-algoritmo: segui 5 curatori (newsletter, riviste, podcaster) e limita il resto.

7.3. Attrito deliberato

  • Archivi analogico-digitali: taccuino + cartelle tematiche. Regola: non salvi nulla senza tag e nota (una frase).

  • Progetti, non app: definisci output (zine PDF, playlist commentata, longform mensile). La profondità cresce dove c’è una consegna.

7.4. Socialità densa

  • Circoli di lettura/Ascolti condivisi: 5 persone, un testo/album al mese, 60’ di discussione. Niente slide, niente social.

  • Mentorship orizzontale: scambio competenze 1:1 (tu curi musica, l’altro fotografia). L’attraversamento di saperi riaccende la complessità.


8) Toolkit pratico per “pensare anni ’90” nel 2025

  • Metodo “3 passaggi” per un tema complesso

    1. Raccolta: 5 fonti massime (diverse!).

    2. Sintesi: 10 bullet, nessuna citazione.

    3. Argomentazione: un testo di 800–1200 parole con tesi, obiezioni, confutazioni.

  • Log delle idee: un appunto al giorno, titolo + 3 righe. Alla fine del mese, scegli 2 idee e sviluppale.

  • Settimana tematica: ogni settimana un focus (es. “immaginazione urbana”). Tutto ciò che consumi deve dialogare con quel tema.

  • Slow search: niente ricerche “finché non servono”. Prima mappa ciò che già sai, poi cerca per colmare buchi reali.


9) Segnali che stai recuperando profondità

  • Riconosci pattern tra cose lontane.

  • Ricordi dove hai letto/ascoltato qualcosa (e perché ti aveva colpito).

  • Sopporti l’ambiguità senza correre a un hot take.

  • Generi output coerenti (post lunghi, saggi, progetti curati).

  • Ti annoi a volte—and va bene così: l’ozio è il motore del nesso.


Conclusione: non era meglio prima, era più denso

La profondità anni ’90 non era magia: era ecologia dell’attenzione. Pochi canali, tempi lenti, filtri umani, attrito creativo. Oggi possiamo ricostruire quell’ecologia per scelta, usando strumenti moderni contro la loro stessa tendenza centrifuga. Il segreto non è spegnere il presente, ma dare forma al flusso: mettere confini, scegliere curatori, lavorare per progetti, proteggere i rituali.

Se la profondità è un muscolo, gli anni ’90 sono stati una palestra naturale. Oggi la palestra va costruita a mano. Ma la forza che sviluppa—chiarezza, connessioni, misura—vale ancora tutte le attese del mondo.



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