Profondità di pensiero anni ’90: cosa avevamo (e cosa ci manca)
Gli anni ’90 sono spesso liquidati come “pre-Internet”, ma ridurli a questo è un torto. In quel decennio—ponte tra analogico e digitale—si è formata una postura mentale capace di scavare, collegare, metabolizzare. Non era una profondità elitaria: era un’abitudine quotidiana, coltivata da tempi lenti, media diversi e relazioni non sempre immediate. Qui provo a mappare quella profondità, capire perché si è persa e come possiamo ricostruirla oggi.
1) Lentezza strutturale: quando l’attesa pensava al posto tuo
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Scarcity di stimoli: niente feed infiniti. Le fonti erano finite (giornali, TV, radio, librerie, videoteche). La scarsità spingeva a spremere ogni contenuto fino all’ultimo: riascoltare lo stesso album, rileggere lo stesso articolo, ri-vedere la stessa VHS.
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Attese produttive: sviluppare un rullino, aspettare il CD al negozio, prenotare un libro. L’attesa diventava incubazione: un tempo neutro in cui le idee sedimentavano.
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No multitasking spinto: ascoltare un disco significava ascoltarlo. Senza smartphone, l’attenzione era monogama.
Effetto cognitivo: la mente imparava a stare sul pezzo. La profondità non era una virtù morale: era un sottoprodotto dell’infrastruttura.
2) Ecosistemi culturali densi (ma non saturi)
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Riviste e fanzine: i magazine curavano, filtravano, argomentavano. Le fanzine cucivano micro-scene con editoriali e manifesti: nasceva un pensiero tribale ma articolato.
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Televisione “a orario”: la programmazione creava rituali collettivi. Pochi appuntamenti, molta discussione prima e dopo. Il commento non era una reazione impulsiva, ma una conversazione.
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Negozi fisici come hub: dischi, fumetterie, librerie: luoghi dove scambiavi competenze. Il commesso era un algoritmo umano con memoria critica.
Effetto cognitivo: filtro + frizione. Non tutto passava; ciò che passava, veniva masticato.
3) Subculture come palestre di metodo
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Hip-hop, punk, rave, scena indie, club culture: non solo estetiche, ma metodologie: crate digging, remix, sampling, DIY, collezionismo. Il gesto estetico presupponeva ricerca e genealogie.
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Forum pre-social (BBS, IRC, primi newsgroup): le conversazioni erano più lente e testuali. La reputazione si costruiva su contributi concreti, non su like.
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Gaming e LAN party: setting cooperativi/competitivi che richiedevano strategie, non scroll.
Effetto cognitivo: la profondità nasceva dal fare (assemblare mixtape, montare un PC, serigrafare una maglietta), non solo dal consumare.
4) Educazione all’ambiguità
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Ironia e intertestualità pop: dai videoclip ai fumetti d’autore, tutto era pieno di citazioni. Per capirle serviva memoria culturale e un minimo di scavo.
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Fine delle grandi narrazioni, micro-storie: dopo la Guerra Fredda l’“orizzonte” sembrava stabile, ma proprio lì si sviluppano pensieri critici su identità, globalizzazione, media. Il disincanto spingeva a problematizzare.
Effetto cognitivo: tolleranza per il non detto e gusto per la lettura tra le righe.
5) Tecnologia con attrito (e quindi con progetto)
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Connettività intermittente: il modem 56k imponeva sessioni finite. Ti preparavi prima: salvavi link, annotavi domande, organizzavi file.
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Software limitato, hardware caro: imparavi a spremere strumenti pochi ma buoni. Si sviluppava una mentalità di progetto: fare di più con meno.
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Archivi personali: CD-R, quaderni, raccoglitori di ritagli: il tuo “algoritmo” eri tu. L’ordine—e la memoria—costavano fatica, quindi erano significativi.
Effetto cognitivo: progettualità e metacognizione (sapere come cerchi, perché tieni, come colleghi).
6) La perdita: cosa è cambiato davvero
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Saturazione e simultaneità: oggi tutto è disponibile, sempre. Più che informazione, abbiamo rumore.
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Instant feedback: like e commenti spingono alla reazione breve, non all’elaborazione.
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Delega totale agli algoritmi: meno archivi personali, meno tracce intenzionali.
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Frammentazione sociale: le micro-scene esistono, ma vivono spesso in bolle atomizzate e accelerazioniste.
Diagnosi onesta: non è che “pensiamo peggio”. Pensiamo diversamente, con strumenti che penalizzano la profondità e premiano la visibilità.
7) Cosa possiamo recuperare (senza nostalgia sterile)
7.1. Ricreare scarsità e rituali
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Finestra di consumo: stabilisci orari per informarti (es. 30’ mattina, 30’ sera). Nel resto del tempo, niente notizie.
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One-screen rule: un dispositivo alla volta; notifiche spente quando leggi/ascolti.
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Playlist finite e album interi: scegli 3 album/settimana e ascoltali dall’inizio alla fine.
7.2. Curatela umana > feed
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Bibliografie personali: ogni mese una “lista delle fonti” (articoli, libri, video) con due righe di perché contano.
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Figure-algoritmo: segui 5 curatori (newsletter, riviste, podcaster) e limita il resto.
7.3. Attrito deliberato
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Archivi analogico-digitali: taccuino + cartelle tematiche. Regola: non salvi nulla senza tag e nota (una frase).
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Progetti, non app: definisci output (zine PDF, playlist commentata, longform mensile). La profondità cresce dove c’è una consegna.
7.4. Socialità densa
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Circoli di lettura/Ascolti condivisi: 5 persone, un testo/album al mese, 60’ di discussione. Niente slide, niente social.
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Mentorship orizzontale: scambio competenze 1:1 (tu curi musica, l’altro fotografia). L’attraversamento di saperi riaccende la complessità.
8) Toolkit pratico per “pensare anni ’90” nel 2025
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Metodo “3 passaggi” per un tema complesso
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Raccolta: 5 fonti massime (diverse!).
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Sintesi: 10 bullet, nessuna citazione.
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Argomentazione: un testo di 800–1200 parole con tesi, obiezioni, confutazioni.
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Log delle idee: un appunto al giorno, titolo + 3 righe. Alla fine del mese, scegli 2 idee e sviluppale.
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Settimana tematica: ogni settimana un focus (es. “immaginazione urbana”). Tutto ciò che consumi deve dialogare con quel tema.
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Slow search: niente ricerche “finché non servono”. Prima mappa ciò che già sai, poi cerca per colmare buchi reali.
9) Segnali che stai recuperando profondità
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Riconosci pattern tra cose lontane.
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Ricordi dove hai letto/ascoltato qualcosa (e perché ti aveva colpito).
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Sopporti l’ambiguità senza correre a un hot take.
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Generi output coerenti (post lunghi, saggi, progetti curati).
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Ti annoi a volte—and va bene così: l’ozio è il motore del nesso.
Conclusione: non era meglio prima, era più denso
La profondità anni ’90 non era magia: era ecologia dell’attenzione. Pochi canali, tempi lenti, filtri umani, attrito creativo. Oggi possiamo ricostruire quell’ecologia per scelta, usando strumenti moderni contro la loro stessa tendenza centrifuga. Il segreto non è spegnere il presente, ma dare forma al flusso: mettere confini, scegliere curatori, lavorare per progetti, proteggere i rituali.
Se la profondità è un muscolo, gli anni ’90 sono stati una palestra naturale. Oggi la palestra va costruita a mano. Ma la forza che sviluppa—chiarezza, connessioni, misura—vale ancora tutte le attese del mondo.
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