mercoledì 12 novembre 2025

Quando si Giocava con Mani e Gambe — Il Tempo in cui Bastava un Cortile per Essere Felici

 Titolo: Quando si Giocava con Mani e Gambe — Il Tempo in cui Bastava un Cortile per Essere Felici

C’erano giorni in cui la parola “gioco” non aveva bisogno di batterie, schermi o connessioni. Bastavano due mani, due gambe e un po’ di fantasia. I bambini uscivano in strada, nei cortili, nei campi, e il mondo diventava subito un grande campo da gioco senza limiti né istruzioni. Ogni pietra era un tesoro, ogni corda una frontiera, ogni tocco una regola inventata sul momento.
Era l’epoca dei giochi che nascevano dal corpo, dal ritmo e dal respiro.


Le mani che parlavano

Le mani avevano una lingua segreta.
Con un battito di palmi, uno schiocco di dita o un intreccio di dita si costruivano universi.
C’erano “Patty Cake”, “Batti le mani”, “Regina reginella” e mille altre varianti locali.
Ogni colpo di mano seguiva una melodia, un piccolo rituale tra amicizia e competizione. Era un modo per dirsi: “Io ci sono, tu ci sei, giochiamo insieme.”
Le mani diventavano tamburi, strumenti, e anche piccoli strumenti di magia: con esse si disegnavano confini invisibili, si contavano punti, si sfidava il destino di una risata.

E poi c’erano i giochi con la corda, in cui le mani roteavano il filo mentre le gambe saltavano a ritmo perfetto. Un movimento che univa coordinazione e musica. Si cantavano filastrocche antiche, tramandate di bocca in bocca, con parole che nessuno sapeva davvero da dove venissero, ma che suonavano come formule incantate: “Ambarabà ciccì coccò…”, “Giro giro tondo…”, “Campana campanella…”


Le gambe che correvano, saltavano, danzavano

Le gambe erano ali.
Ci si rincorreva fino a perdere il fiato: acchiapparella, nascondino, uno due tre stella, bandiera, campana.
Ogni corsa era una piccola sfida con se stessi e con il vento.
I muscoli imparavano la gioia della fatica, e il cuore batteva forte — non per l’ansia, ma per la vita che traboccava.

Nel gioco della campana, bastava un gessetto e un sasso per tracciare la mappa di un regno personale. Ogni salto era un passo verso l’equilibrio, un piccolo atto di concentrazione che allenava corpo e mente.
Nel salto alla corda o nei salti a elastico, si imparava la grazia del movimento: non serviva essere atleti, ma sapersi muovere al ritmo della terra.

E poi c’erano le sfide d’agilità come lo “strega comanda color” o “un due tre stella”, dove la velocità si mescolava alla prontezza mentale. Si imparava a osservare, a capire i tempi, a improvvisare.


Il corpo come linguaggio

Nei giochi antichi, il corpo non era solo uno strumento, era un linguaggio.
Si comunicava correndo, si rideva rotolandosi sull’erba, si imparava la forza attraverso le cadute.
Ogni ginocchio sbucciato era una medaglia.
Ogni graffio raccontava una giornata piena di vita.

C’era qualcosa di profondamente educativo in quei giochi: un’educazione naturale all’equilibrio, al coraggio, al rispetto delle regole (e alla loro continua invenzione). Si imparava che il corpo non era un limite, ma una possibilità.


La fantasia come tecnologia

Oggi si parla di realtà aumentata, ma allora bastava chiudere gli occhi e immaginare.
Un bastone diventava una spada, una scatola un castello, una pozzanghera un oceano.
Le mani e le gambe erano i primi joystick dell’infanzia, mossi da pura immaginazione.
Non servivano filtri, solo sguardi.
La mente si allenava a creare, il corpo a seguire il ritmo dell’invenzione.


Giocare oggi come allora

Recuperare quei giochi non significa tornare indietro, ma riconnettersi al ritmo naturale dell’essere umano.
Nel movimento libero c’è libertà mentale.
Nel gioco collettivo c’è socialità vera, fatta di sguardi, contatti e risate reali.
E nel gesto semplice delle mani che si incontrano, c’è ancora tutto il senso antico del “noi”.

Portare quei giochi nelle scuole, nei parchi, nei laboratori creativi è un atto poetico e terapeutico.
È ricordare che il corpo pensa, parla e sogna, e che ogni movimento può essere un dialogo con la vita.


Conclusione:
I giochi di una volta non erano solo passatempo, erano filosofia quotidiana.
Ci insegnavano la resilienza, la solidarietà, la leggerezza.
E forse, se chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il suono delle nostre mani che battono ancora una volta insieme, potremo risentire il ritmo autentico dell’infanzia: quello in cui ogni passo, ogni corsa, ogni caduta era un piccolo atto d’amore verso la vita.




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