martedì 18 novembre 2025

«Stato, ti presenti alla nostra porta con lo sfratto dopo trent’anni, ma la verità è che l’abbandono lo hai firmato tu: hai lasciato interi quartieri senza lavoro, servizi e diritti, e ora chiedi a chi non hai mai guardato in faccia di pagare il conto di una società che non hai mai costruito davvero.»

 Quando lo Stato ti bussa alla porta dopo trent’anni non è solo uno sfratto: è come se ti dicesse

“tu qui non sei mai davvero esistito”.

Ti propongo di guardare questa cosa su tre livelli: struttura (come funziona il sistema casa), corpo (cosa succede alla famiglia dopo 30 anni in un alloggio popolare), sguardo (il problema di una società che non ti ha mai visto e adesso ti chiede di “integrarti”).


1. Il contesto: Napoli, le case popolari e l’emergenza permanente

In Italia solo circa il 2,5% delle abitazioni è edilizia residenziale pubblica (ERP), mentre quasi il 30% delle case di proprietà resta sfitto. Intanto si registrano in media oltre 130 sfratti eseguiti al giorno. (Vita.it)

Napoli è dentro questa frattura in modo ancora più duro:

  • nelle graduatorie per le case popolari, per anni ci sono state circa 17.000 famiglie in attesa, con liste praticamente ferme dalla fine degli anni ’90; in più di vent’anni, meno di 2.000 assegnazioni. (UniURB Open Journals)

  • a livello nazionale si parla di oltre 3 milioni di persone in emergenza abitativa, mentre nel Paese ci sono più di 7 milioni di case vuote. (Usb Pubblico Impiego)

Il Comune di Napoli, negli ultimi anni, sta pubblicando avvisi per reperire alloggi da destinare all’emergenza abitativa e contributi straordinari per chi è senza casa. (www.comune.napoli.it)
Questo però dimostra una cosa: non esiste un piano strutturale, solo bandi “tappabuchi” di fronte a un problema storico.

In mezzo ci sono le famiglie che vivono da decenni nelle case comunali, spesso in situazioni grigie:
assegnazioni vecchie, subentri mai regolarizzati, occupazioni “tollerate” che per anni hanno fatto comodo a tutti – finché qualcuno decide che il regolamento, all’improvviso, va applicato alla lettera.


2. Cosa significa essere sfrattati dopo 30 anni

Prova a immaginare una famiglia che vive da tre decenni in una casa popolare:

  • lì sono cresciuti i figli, lì hai curato i genitori anziani, lì conosci ogni voce del pianerottolo

  • la casa non è solo “un tetto”, è memoria, rete sociale, punti di riferimento (la scuola, il medico, il bar, la fermata dell’autobus)

  • spesso non hai mai potuto permetterti di “scegliere”: non è che confrontavi annunci immobiliari, quello era l’unico posto dove vivere

Quando arriva lo sfratto, non è solo:

“Devi lasciare l’alloggio”

ma è, sotto traccia:

  • “non sei in regola”

  • “sei un abusivo”

  • “sei tu il problema”

Questo dopo che, per anni, lo stesso sistema ti ha usato come tampone sociale: invece di creare nuove politiche abitative, si è limitato a lasciarti lì, senza però riconoscerti pienamente.

Dal punto di vista psicologico succede spesso:

  • senso di colpa (“forse abbiamo sbagliato qualcosa noi”)

  • umiliazione pubblica (i carabinieri, l’ufficiale giudiziario, i vicini che guardano)

  • paura del dopo (dove vado? chi mi affitta una casa se ho poco reddito, un lavoro precario e magari figli piccoli?)

E poi c’è un’altra ferita: dopo 30 anni lo Stato ti tratta come se fossi arrivato ieri.


3. “Vita nuova in una società che non è mai esistita”

Quando ti dicono:
“Adesso dovete ricominciare da capo, integrarvi, cercare un’altra casa, un altro quartiere, un’altra vita”
ti stanno chiedendo di entrare in una “società” che, nei fatti, non ha mai fatto spazio per te.

Per molte famiglie delle case popolari di Napoli la realtà è stata:

  • quartieri stigmatizzati come “ghetti”

  • scuole dove mancano risorse, attività, continuità

  • lavoro quasi sempre precario, in nero, intermittente

  • servizi sociali presenti a intermittenza, spesso solo quando c’è emergenza (sgombero, minori a rischio, conflitti)

Lo Stato e le istituzioni li hanno visti quasi sempre come problema, raramente come cittadini con diritti pieni:

  • quando serve il consenso: promesse di sanatorie, graduatorie, piani casa

  • quando serve “ordine”: sfratti, sgomberi, controlli

Nel mezzo, nessuna costruzione di legami sociali veri: nessun investimento serio su:

  • doposcuola, centri di quartiere, biblioteche di prossimità

  • percorsi di lavoro stabile legati alla rigenerazione urbana

  • servizi di salute mentale di comunità (importantissimi dove c’è stress abitativo cronico)

Chiedere a una famiglia sfrattata di “rifarsi una vita” è facile.
Il difficile sarebbe costruire, intorno, una società che la voglia davvero quella famiglia, non solo che la tolleri.


4. Il paradosso: tra case vuote, canoni, ISEE e sanatorie mancate

Negli ultimi anni la Regione Campania e i Comuni hanno modificato regole e canoni ERP, legandoli ancora di più all’ISEE e chiedendo documentazione puntuale: chi non presenta i documenti rischia aumenti spropositati, morosità e quindi sfratto. (Uniat Campania APS)

Allo stesso tempo:

  • ci sono alloggi popolari vuoti o inutilizzati, in attesa di manutenzione o di riassegnazione

  • ci sono state sanatorie parziali per alcune occupazioni storiche, che hanno regolarizzato qualcuno lasciando fuori altri per pochi giorni o cavilli burocratici (Open Migration)

Quindi:

  • chi ha vissuto per anni nel grigio tra legalità e necessità

  • oggi viene giudicato solo sul piano burocratico,

  • senza tenere conto che è stato proprio il sistema pubblico a produrre quell’area grigia.

È come se lo Stato dicesse:
“Per trent’anni non ti ho dato risposte, ma oggi ti chiedo di essere perfettamente in regola. Se non lo sei, fuori.”


5. Cosa servirebbe davvero per “uscire” dopo 30 anni

Se parliamo seriamente di famiglie che devono lasciare una casa popolare dopo decenni, non basta:

  • un contributo una tantum

  • un posto letto in un residence o in una struttura temporanea

Una vita nuova richiederebbe almeno:

  1. Soluzioni abitative reali, non parcheggi

    • alloggi a canone sociale nello stesso territorio, per non spezzare le reti di cura

    • progetti di cohousing popolare, dove casa e servizi di quartiere vadano insieme

  2. Accompagnamento sociale lungo, non solo il giorno dello sfratto

    • mediatori, educatori, psicologi di comunità

    • percorsi personalizzati per anziani, persone con disabilità, famiglie monoreddito

  3. Lavoro e reddito, non solo assistenza

    • impiegare le persone nei progetti di riqualificazione degli stessi quartieri popolari (manutenzione, verde, servizi)

    • formazione mirata legata ai bisogni reali della città (cura, turismo, artigianato, digitale)

  4. Uno sguardo diverso

    • smettere di raccontare chi vive nelle case popolari solo come “abusivo” o “problema di ordine pubblico”

    • riconoscere che per anni queste famiglie hanno tenuto insieme pezzi di città che altrimenti sarebbero crollati socialmente


Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare tutto questo in:

  • un pezzo narrativo con la storia di una famiglia-tipo che dopo 30 anni si ritrova con lo sfratto in mano

  • oppure in una inchiesta-blog strutturata (dati, testimonianze, analisi) su cosa significa, a Napoli, essere sfrattati dallo Stato dopo una vita passata nelle sue case popolari.



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