lunedì 17 novembre 2025

Dentro lo smartphone: i liquidi nascosti e il loro impatto sulla specie umana



Titolo (proposta)

Dentro lo smartphone: i liquidi nascosti e il loro impatto sulla specie umana


Introduzione

Lo smartphone è diventato una prolunga della nostra mano: lo teniamo in tasca, sul comodino, perfino accanto al cuscino. Sembra un oggetto “solido”, inerte. Eppure, al suo interno si nasconde un piccolo laboratorio chimico: elettroliti liquidi, cristalli liquidi, adesivi, colle, solventi, micro-tracce di metalli e composti organici.

Nella vita quotidiana non ce ne accorgiamo, ma quando questi materiali fuoriescono, bruciano o vengono smaltiti male, iniziano i problemi. Non solo per il singolo utente, ma per intere comunità e, su scala più ampia, per la salute collettiva della specie umana.

In questo articolo vediamo:

  • quali “liquidi” ci sono davvero dentro uno smartphone;

  • cosa succede quando qualcosa si rompe o prende fuoco;

  • l’effetto a catena sulla nostra salute e sull’ambiente;

  • come possiamo, concretamente, ridurre i danni.


1. Quali liquidi ci sono (davvero) dentro lo smartphone?

1.1. L’elettrolita liquido della batteria al litio

Il cuore chimico dello smartphone è la batteria agli ioni di litio.
Al suo interno non c’è acqua, ma un elettrolita liquido: una miscela di solventi organici (spesso carbonati organici come etilene carbonato, dimetil carbonato, ecc.) e sali di litio (come LiPF₆), che permette il movimento delle cariche tra anodo e catodo.

Caratteristiche principali:

  • facilmente infiammabile;

  • può rilasciare composti tossici se surriscaldato o se la batteria viene perforata o schiacciata;

  • in caso di incendio, possono formarsi gas irritanti per occhi e vie respiratorie.

1.2. I cristalli liquidi del display (LCD)

Molti schermi (anche se oggi c’è molto OLED, che è diverso) usano ancora la tecnologia LCD – Liquid Crystal Display.
I cristalli liquidi sono sostanze che hanno proprietà intermedie tra liquido e solido, organizzate in strati sottilissimi tra due vetri.

  • Sono contenuti in spessori minimi (micron), non “colano fuori” come un liquido normale.

  • Alcuni cristalli liquidi possono essere irritanti o dannosi se ingeriti o a contatto prolungato con la pelle, ma il rischio per l’utente medio è praticamente nullo finché lo schermo resta integro.

1.3. Colle, adesivi, resine e micro-fluidi industriali

All’interno dello smartphone ci sono anche:

  • Adesivi e colle per fissare schermo, batteria e componenti;

  • resine epossidiche per proteggere circuiti integrati;

  • tracce di solventi provenienti dai processi industriali.

Questi non sono “liquidi liberi” nel telefono finito, ma derivano da fasi di lavorazione che possono impattare sugli operai e, successivamente, su aria, acqua e suolo quando il rifiuto elettronico finisce in discariche non controllate o viene bruciato.


2. Sono pericolosi per chi usa lo smartphone ogni giorno?

Qui va fatta una distinzione importante.

2.1. Uso normale: rischio quasi nullo

Nell’uso quotidiano:

  • gli elettroliti della batteria sono sigillati;

  • i cristalli liquidi sono intrappolati dentro il display;

  • colle e resine sono già polimerizzate e “ferme”.

Se il dispositivo è integro, il contatto diretto con questi liquidi è praticamente impossibile. Il problema nasce quando:

  • lo smartphone si gonfia (batteria danneggiata o degradata);

  • la batteria viene forata, piegata o schiacciata;

  • il telefono prende fuoco o esplode;

  • viene smontato male o distrutto in modo artigianale per recuperare materiali.

2.2. Rottura, incendio, esplosione: cosa succede al corpo umano?

In caso di batteria che perde o prende fuoco, possono verificarsi:

  • Ustioni chimiche sulla pelle in contatto con l’elettrolita;

  • Irritazione delle vie respiratorie in caso di fumi inalati (bruciando, l’elettrolita rilascia composti irritanti e, in alcuni casi, tossici);

  • Rischio di incendio domestico, soprattutto se il telefono viene caricato sotto il cuscino, su superfici infiammabili o con caricabatterie non certificati.

Il singolo episodio può coinvolgere pochi individui, ma la diffusione di miliardi di dispositivi nel mondo significa che questi incidenti, seppur rari, sono statisticamente inevitabili.


3. Il vero problema: cosa succede ai liquidi dello smartphone quando diventa rifiuto

Se guardiamo alla “razza umana” nel suo complesso, la domanda chiave è:
che fine fanno questi liquidi e sostanze quando buttiamo via il telefono?

3.1. Discariche illegali e riciclo informale

In molte aree del pianeta, i rifiuti elettronici finiscono in:

  • discariche a cielo aperto;

  • centri di riciclo informali, dove vengono bruciati o smontati senza protezioni;

  • fiumi, terreni agricoli, zone abitate.

Qui accade di tutto:

  • le batterie al litio vengono schiacciate, bucate, bruciate → rilascio di elettroliti, metalli e fumi;

  • i display vengono spaccati → rilascio di frammenti e, in alcuni casi, microquantità di sostanze chimiche;

  • colle, plastiche e resine → se bruciate, generano miscele complesse di composti organici volatili, alcune potenzialmente cancerogene o comunque irritanti.

3.2. Effetti sulle comunità umane

Gli impatti sulle popolazioni che vivono vicino a queste discariche (spesso in paesi a basso reddito) includono:

  • Aumento di problemi respiratori (asma, bronchiti croniche, irritazioni);

  • maggiore esposizione a metalli pesanti e sostanze tossiche presenti non solo nei liquidi, ma anche nei componenti solidi (piombo, cadmio, nichel, ecc.);

  • contaminazione di falde acquifere e suoli, con effetti a catena su cibo e acqua potabile.

Il paradosso è che i liquidi e i materiali pericolosi non danneggiano tanto chi usa l’ultimo modello di smartphone, quanto chi vive dall’altra parte del mondo e deve sopportare il peso del nostro rifiuto.


4. Impatto sistemico sulla specie umana

Se allarghiamo lo sguardo, il problema non è solo tossicologico, ma filosofico e sistemico.

4.1. La dipendenza da dispositivi chimicamente complessi

La specie umana si è resa dipendente da oggetti:

  • costruiti con materiali e processi che una singola persona non può comprendere del tutto;

  • basati su catene globali che coinvolgono miniere di litio, cobalto, nichel, raffinazione chimica, produzione di solventi, fabbriche di batterie, assemblaggio, logistica, smaltimento.

Il risultato:

  • ogni smartphone è un punto di contatto tra il nostro quotidiano e una rete planetaria di rischi, sfruttamento e inquinamento;

  • i liquidi e le sostanze al suo interno sono solo la punta dell’iceberg di un “oceano” chimico-industriale che ci circonda.

4.2. Salute mentale e dipendenza digitale

Anche se non sono “liquidi”, è interessante collegare:

  • il liquido elettrolitico che scorre nella batteria,

  • con il flusso di dopamina che scorre nel nostro cervello quando usiamo il telefono.

La combinazione di:

  • materiali potenzialmente pericolosi nel dispositivo,

  • design pensato per massimizzare il tempo di utilizzo,
    crea un circolo vizioso: produciamo sempre più smartphone, sempre più frequentemente, alimentando una catena di estrazione, produzione e rifiuti che torna a colpire la salute collettiva.


5. Cosa possiamo fare, concretamente?

5.1. A livello individuale

Come singoli utenti possiamo:

  1. Non forare, aprire o schiacciare le batterie
    Evita il fai-da-te aggressivo. Se la batteria si gonfia o il telefono scalda in modo anomalo, portalo subito in un centro assistenza o in un punto di raccolta.

  2. Usare caricabatterie certificati
    Riduce il rischio di surriscaldamento e incendio.

  3. Non dormire con lo smartphone sotto il cuscino
    Sembra banale, ma molti incendi domestici iniziano così: dispositivo che si surriscalda, batteria che soffoca termicamente, tessuti infiammabili a contatto.

  4. Smaltire sempre in isole ecologiche e centri RAEE
    Mai nel sacco dell’indifferenziata: lì diventa un problema chimico e ambientale.

5.2. A livello sociale e culturale

Qui entra in gioco il potere della comunicazione – perfetto per un blog:

  • Sensibilizzare sul “dietro le quinte” dello smartphone
    Non demonizzare la tecnologia, ma far capire che ogni dispositivo ha un “costo liquido” e chimico che qualcuno, da qualche parte, sta pagando.

  • Promuovere il right to repair e l’allungamento del ciclo di vita
    Meno smartphone prodotti = meno liquidi tossici in circolo, meno rifiuti.

  • Sostenere politiche per il riciclo sicuro
    Appoggiare (anche solo con la scelta di brand) chi investe in filiere di riciclo controllate, evitando che i nostri rifiuti finiscano in discariche clandestine.


6. Conclusione: il paradosso del liquido invisibile

Dentro lo smartphone non c’è un “mare” di liquidi che minaccia immediatamente la nostra salute ogni volta che lo tocchiamo.
Eppure, i liquidi invisibili che lo fanno funzionare – elettroliti, cristalli liquidi, solventi – raccontano una storia molto più ampia:

  • una storia di chimica avanzata al servizio della comunicazione;

  • una storia di rischi concentrati in un ciclo di vita che va dalla miniera alla discarica;

  • una storia di responsabilità collettiva, in cui ogni nostro upgrade annuale genera onde lunghe sulla salute della specie umana.

Il punto, forse, non è avere paura del liquido dentro lo smartphone, ma diventare consapevoli di tutto ciò che scorre intorno a noi per far sì che quel piccolo schermo si accenda: materiali, sostanze, vite umane.

E chiederci, ogni volta che cambiamo telefono:
quanto liquido invisibile stiamo aggiungendo al fiume della storia umana?




domenica 16 novembre 2025

Pensa più forte di quanto il mondo provi a distrarti: è così che si cambia davvero il destino.



Il Baratro Silenzioso: Perché Stiamo Smettendo di Pensare (e Perché È il Nostro Rischio Più Grande)

C’è una convinzione diffusa, sottile, quasi impercettibile: crediamo di lavorare meno, di vivere più leggeri, di essere più “smart”. Sosteniamo con naturalezza che il mondo moderno ci abbia semplificato la vita, automatizzato il superfluo, alleggerito la mente.
Eppure, proprio in questa narrativa si nasconde uno dei paradossi più pericolosi del nostro tempo: stiamo smettendo di pensare davvero, convinti di star guadagnando tempo, quando in realtà stiamo perdendo la nostra arma più potente.

L’illusione del lavoro leggero

Molti ritengono che il progresso tecnologico stia riducendo il peso del lavoro mentale. In un certo senso è vero: delegare è diventato facile, immediato. Ma più deleghiamo, più arretriamo.
Il rischio non è tanto la tecnologia in sé, quanto l’abitudine che si forma: dimenticare come ragionare, come cercare, come riflettere.
E quando la mente non viene esercitata, non diventa più leggera: diventa più fragile.

Una società che corre senza direzione

Il baratro non è fatto di catastrofi spettacolari, ma di passività invisibili.
È composto da:

  • scelte prese senza verificarle,

  • opinioni adottate senza pensarci,

  • emozioni reagite invece che comprese,

  • verità preconfezionate assorbite in silenzio.

È un baratro collettivo, dove tutti si muovono con la sensazione di essere informati, quando in realtà sono solo ben intrattenuti.

Pensare è fatica… ed è esattamente per questo che ci salva

Il pensiero critico è scomodo: mette in discussione ciò che sembra semplice, destabilizza ciò che appare stabile, chiede tempo in un’epoca che vende velocità.
Ma è anche ciò che ci permette di:

  • riconoscere manipolazioni,

  • analizzare problemi complessi,

  • immaginare soluzioni inattese,

  • comprendere le sfumature dell’umano.

La fine del mondo non è necessariamente una scena apocalittica: può essere semplicemente la perdita della nostra capacità di pensare in modo libero, profondo e autonomo.

La vera arma che abbiamo ancora

In un mondo che corre, che automatizza, che semplifica tutto, il pensiero rimane l’unico spazio non replicabile.
Le macchine possono calcolare, sintetizzare, ottimizzare.
Ma solo l’essere umano può interpretare.

Pensare significa rallentare, osservare, mettere a fuoco.
Significa non dare nulla per scontato, essere presenti, non farsi trascinare dall’inerzia.

Un invito necessario

Non serve opporsi al progresso, né abbracciare l’allarmismo. Serve ritrovare il piacere della complessità.
Guardare un fenomeno e chiedersi “Perché?”.
Leggere una notizia e domandarsi “Chi lo dice? E con quale scopo?”.
Sentire un’emozione e chiedersi “Cosa mi sta comunicando?”.

La vera rivoluzione non è tecnologica: è mentale.
E chi saprà mantenere la propria mente attiva, critica, vigile, sarà in grado non solo di evitare il baratro, ma di creare strade completamente nuove.




Un blogger non racconta il mondo: lo attraversa con le parole, aprendo sentieri dove prima c’era solo silenzio.

Blogger

Prefazione

Un viaggio nella vita di chi ha scelto di trasformare le parole in un mestiere, quando i blog erano finestre sul mondo e non semplici contenuti da scorrere. Questo libro racconta la storia di una persona che ha iniziato a scrivere per aprire nuove prospettive, prima per sé, poi per tutti.


Capitolo 1 — Le Origini

Le origini non sono mai semplici date o luoghi: sono vibrazioni, increspature interiori che chiedono spazio. Per il protagonista, tutto cominciò in una stanza piccola, un computer lento e una sensazione che non sapeva nominare: il desiderio di lasciare un segno.

All’epoca il web era una frontiera. Si esplorava senza mappe, senza aspettative, con la stessa meraviglia di chi posa il piede su una terra appena scoperta. Non esisteva ancora l’ossessione per i numeri, né l’idea di "performare": esisteva solo l’urgenza sincera di raccontare.

Ricorda con nitidezza quella prima sera. La lampada accesa, il silenzio attorno, le dita esitanti sulla tastiera. Scrivere significava mostrarsi, ma anche capirsi. Le parole uscivano lente, come se avessero bisogno di prendere confidenza con la luce.

E poi quel gesto, minuscolo e immenso allo stesso tempo: cliccare su “Pubblica”. Era come aprire una finestra verso il mondo, non sapendo se qualcuno avrebbe mai guardato dentro.

Quel primo post—breve, imperfetto, ingenuo—fu il seme di tutto ciò che sarebbe venuto dopo. Fu lì che comprese una cosa fondamentale: un blog non è un contenitore di testo, ma una casa. E lui aveva appena acceso la prima luce.


Capitolo 2 — Il Rito della Scrittura

Con il tempo, la scrittura divenne un rito. Un gesto ripetuto che non perdeva mai la sua sacralità. Ogni mattina, prima che la città si svegliasse, il protagonista si sedeva davanti al monitor con una tazza di caffè e un pensiero ancora informe che aspettava di trovare una forma.

Non era una questione di talento, né di ispirazione improvvisa. Era disciplina, ascolto, dedizione. Le parole si costruivano come argilla tra le mani: morbide all’inizio, poi sempre più definite man mano che venivano scolpite.

Il rumore dei tasti era diventato una compagnia costante. Un battito, un respiro. Era il suono della sua mente che si chiariva, che prendeva decisioni, che si raccontava senza filtri. La scrittura aveva un potere terapeutico: gli permetteva di capire ciò che provava solo dopo averlo letto.

Ogni articolo aveva un tempo preciso, una maturazione lenta. Non si pubblicava per riempire: si pubblicava per condividere qualcosa che valesse davvero. Il lettore non era un visitatore casuale, ma un ospite. E questo richiedeva attenzione, cura, rispetto.

Il protagonista aveva creato un piccolo rituale per prepararsi: chiudeva le notifiche, metteva una musica lieve in sottofondo, respirava. E poi iniziava. In quel momento, il mondo esterno cessava di esistere. Restavano lui, il testo e una promessa: essere sincero.

Questa ritualità lo teneva saldo, gli dava una direzione. Perché, col passare del tempo, comprese che scrivere non significa solo raccontare, ma ritrovare sé stessi ogni volta, parola dopo parola.


Capitolo 3 — La Comunità

La comunità era il cuore pulsante di quei primi anni. Non era un pubblico generico, né un insieme indistinto di profili: era un insieme di volti invisibili ma vivissimi, che tornavano a leggere, commentavano, dialogavano, diventavano parte della storia.

Ogni blog era un’isola, ma le isole erano unite da ponti sottili: link, citazioni, conversazioni notturne nelle sezioni commenti. Era un mondo costruito sulla reciprocità, dove la voce di uno poteva ispirare la voce di un altro, e così via, in un’eco continua.

Il protagonista iniziò a riconoscere i suoi lettori: non per nome, ma per tono. C’era chi scriveva commenti lunghi come piccole lettere, chi lasciava solo una parola, chi passava silenzioso ma con costanza. E ognuno di loro diventava parte del percorso.

In quel tempo la comunità non chiedeva perfezione, chiedeva verità. Non giudicava un refuso, non pretendeva contenuti perfetti, non misurava nulla in metriche. Cercava connessioni, idee, emozioni condivise.

Spesso il protagonista si sorprendeva a leggere i commenti più volte. Non per vanità, ma per riconoscere quanto, grazie al suo blog, si fosse creato un piccolo spazio di umanità digitale. Un’oasi, direbbe oggi.

E poi c’erano gli scambi tra blogger: post risposta, collaborazioni spontanee, discussioni che si estendevano da un blog all’altro come conversazioni tra amici seduti a tavoli diversi dello stesso caffè.

Fu in quegli anni che comprese quanto fosse prezioso tutto questo: la comunità non era solo il suo pubblico, era la sua bussola. Era ciò che gli ricordava ogni giorno perché continuare.


Capitolo 4 — Le Sfide

Con il tempo arrivarono le prime vere prove. Non erano ostacoli esterni, ma fratture interiori: giornate in cui le idee sembravano svanire, in cui la pagina bianca diventava un muro invalicabile. Il protagonista iniziò a comprendere che scrivere con costanza significa anche affrontare il silenzio.

C’erano poi le pressioni invisibili che solo chi crea conosce. Il dubbio: sto dicendo qualcosa che vale la pena leggere? La paura: e se domani non avessi più nulla da dire? E quella sensazione sottile ma persistente di dover superare se stessi a ogni nuovo articolo.

Il mondo cambiava rapidamente. Le piattaforme diventavano più veloci, più rumorose. L’attenzione dei lettori si accorciava, mentre nuove tecnologie chiedevano nuovi linguaggi. Il protagonista sentiva il bisogno di adattarsi, ma senza perdere la sua autenticità.

Ci furono momenti in cui pensò di smettere. Non perché mancasse la passione, ma perché la scrittura gli chiedeva una sincerità radicale, e questo non sempre era facile. Scrivere significava mettersi a nudo, mostrare le proprie crepe.

Eppure, proprio nelle difficoltà, scoprì una forza nuova: la capacità di rinnovarsi. Ogni blocco creativo diventava un invito a esplorare strade diverse, a reinventare il proprio stile, a trovare un ritmo nuovo.

Comprendendo che le sfide non erano il contrario del suo percorso, ma parte essenziale della sua identità da blogger, imparò a camminare accanto a esse. E ogni volta che superava un ostacolo, il blog diventava un po’ più suo.


Capitolo 5 — Aprire Nuove Prospettive

Un giorno si rese conto che il blog non era più soltanto un luogo dove raccogliere pensieri: era diventato un varco. Le sue parole, nate per dare voce ai propri dubbi e intuizioni, cominciavano a trasformarsi in finestre attraverso cui i lettori scoprivano nuovi modi di guardare la vita.

Non era sua intenzione insegnare. Non voleva guidare, né mostrarsi come un esperto. Eppure accadde naturalmente: condividendo esperienze, errori, piccole rivelazioni quotidiane, apriva spiragli che permettevano agli altri di rivedere le proprie certezze.

Molti iniziavano a scrivergli in privato. Alcuni raccontavano che un suo post li aveva aiutati a superare un momento difficile; altri dicevano che una frase aveva acceso un pensiero nuovo. Ogni messaggio era una conferma che la scrittura, quando è autentica, può muovere qualcosa negli altri.

Il protagonista cominciò a riflettere sul potere delle parole: non solo per descrivere il mondo, ma per immaginarlo diverso. Scrivere di tecnologia significava immaginare un futuro più umano; scrivere di emozioni significava creare spazi di comprensione; scrivere di quotidianità significava dare valore all’essenziale.

Così, con naturalezza, il blog divenne un laboratorio di prospettive. Un luogo dove osservare, mettere in discussione, ricostruire. Ogni articolo era un invito a guardare da un’angolazione nuova.

E forse fu proprio in quel momento che comprese il senso più profondo del suo lavoro: non produrre contenuti, ma provocare visioni.


Capitolo 6 — Il Nuovo Mondo

Gli anni scorrevano e il panorama digitale cambiava con una rapidità vertiginosa. Le piattaforme crescevano, si moltiplicavano, diventavano più immediate, più visive, più veloci. I social network prendevano il posto dei blog nelle abitudini quotidiane delle persone.

Molti abbandonarono le loro pagine personali, attratti dalla tempestività di like e notifiche. La conversazione si trasformò: da lenta e riflessiva, diventò rapida, spesso impulsiva. Il rumore aumentò, e trovare un punto di quiete diventava sempre più raro.

Il protagonista osservava tutto questo con un misto di curiosità e nostalgia. Non era contrario al cambiamento—sapeva che ogni epoca ha i propri strumenti—ma avvertiva una perdita sottile: quella profondità che solo la scrittura lunga e meditata riusciva a custodire.

Eppure non si lasciò scoraggiare. Continuò a scrivere, mantenendo il suo spazio come una bottega artigiana in un mondo di prodotti industriali. Mentre molti producevano contenuti rapidi, lui custodiva la lentezza. Mentre tutto diventava effimero, lui cercava il duraturo.

Paradossalmente, proprio in quel caos digitale, il suo blog divenne un rifugio. Un luogo dove rallentare, dove ritrovare la sincerità delle parole. I lettori che restavano lo facevano per fame di autenticità, di storie, di significato.

Il protagonista comprese allora che il "nuovo mondo" non era necessariamente un nemico, ma un terreno da abitare con consapevolezza. E che la sua voce, se rimaneva fedele a sé stessa, avrebbe continuato a trovare ascolto.

La tecnologia cambiava. Le mode cambiavano. Ma l’essenza del narrare—quella, no. E questo lo teneva saldo, come un faro in mezzo alle correnti.


Capitolo 7 — L’Eredità

Con il passare degli anni, il protagonista si accorse che il suo blog aveva lasciato un segno che andava oltre le pagine scritte. Non era un’eredità fatta di numeri o riconoscimenti, ma di tracce sottili, lasciate nella vita di chi aveva incrociato le sue parole.

C’erano lettori che lo seguivano da un decennio. Alcuni avevano iniziato a scrivere grazie a lui. Altri avevano trovato conforto nelle sue riflessioni nei momenti più fragili. E molti gli raccontavano che, anche quando i social offrivano distrazioni rapide, tornavano periodicamente al suo blog come si torna a una casa d’infanzia.

Il protagonista iniziò a rileggerlo tutto, dalla prima pagina all’ultima. Era come osservare la propria vita attraverso una lunga serie di fotografie: cambiava il tono, cambiava lo stile, cambiava lui. Eppure, in ogni parola riconosceva un filo conduttore: il desiderio di verità.

Si rese conto allora che il vero lascito di un blogger non è ciò che scrive, ma ciò che riesce ad aprire negli altri. Una domanda, un’emozione, una riflessione, un coraggio inatteso. L’eredità è uno spazio mentale che resta accessibile a chi lo ha attraversato.

Decise quindi di lasciare un messaggio ai futuri lettori, nascosto tra le righe di un ultimo post: un invito a cercare la propria voce, a non farsi inghiottire dalla fretta, a dare valore al tempo della profondità.

Perché nella scrittura—come nella vita—non conta la velocità. Conta la presenza.


Conclusione

Scrivere è ancora un atto rivoluzionario. Raccontare è ancora un modo per cambiare il mondo. E questo libro ne è la prova: un omaggio all’arte del blogging e a chi, con coraggio, continua a scegliere le parole come bussola. 



L’uncinetto è un’arte fatta di pazienza e precisione, dove ogni punto richiede attenzione ma ripaga con la magia di trasformare un semplice filo in qualcosa di unico.


L’arte dell’uncinetto: perché è così difficile… e così irresistibile

L’uncinetto è un universo di fili intrecciati, gesti ripetuti e pazienza che si trasforma in bellezza. Chiunque abbia provato almeno una volta a impugnare un gomitolo e un’asta di metallo lo sa bene: non è solo un hobby creativo, è un vero linguaggio fatto di movimenti precisi e sensibilità nelle dita. Ma perché, nonostante il suo fascino, l’uncinetto è spesso percepito come difficile?

Un’arte che chiede ritmo, non fretta

La prima barriera è il ritmo. L’uncinetto richiede un equilibrio tra concentrazione e fluidità. All’inizio i gesti appaiono rigidi, la tensione del filo cambia in continuazione, e ogni maglia sembra diversa dalla precedente. È naturale: come in tutte le arti manuali, il corpo deve memorizzare una sequenza di movimenti, trasformandola poco a poco in una danza.

La tensione del filo: il vero banco di prova

Chi si avvicina all’uncinetto spesso sottovaluta la complessità della tensione. Troppo teso, e il lavoro si arriccia; troppo morbido, e le maglie scappano. Questo controllo è un’abilità che si costruisce con l’esperienza, come l’intonazione per un cantante o il tratto per un illustratore. Serve ascolto: del filo, delle mani, del proprio respiro.

La geometria nascosta dietro ogni creazione

L’uncinetto è molto più matematico di quanto sembri. Aumenti, diminuzioni, forme tridimensionali: tutto segue regole precise. Comprenderle richiede un po’ di studio e un pizzico di immaginazione spaziale. Ma è proprio qui che l’arte prende vita: da un filo nasce una struttura che ha volume, equilibrio, armonia.

La bellezza dell’errore

Partiamo da una certezza: sbagliare è inevitabile. La buona notizia? È anche il modo migliore per imparare. Ogni errore aiuta a capire cosa non funziona, a riconoscere il momento in cui la mano si è distratta, a sviluppare un rapporto più naturale con lo strumento. È un processo di crescita continuo che rende l’uncinetto profondamente umano.

Un’arte antica che parla al presente

Oggi l’uncinetto vive una nuova primavera. Non è solo tradizione: è meditazione attiva, è lentezza scelta, è terapia creativa. In un mondo che corre, fermarsi per intrecciare maglie è una dichiarazione d’intenti. È il piacere di creare qualcosa che non nasce da un clic, ma da un gesto ripetuto che dà forma alle idee.

La soddisfazione che ripaga ogni difficoltà

Sì, l’uncinetto può essere difficile. Ma è una difficoltà che insegna, rilassa, arricchisce. Ogni progetto finito porta con sé la storia di tutte le sue maglie, del tempo dedicato, della cura messa in ogni passaggio. E quando finalmente si osserva il risultato — un cappello, un centrino, una coperta, un amigurumi — la complessità lascia spazio a un orgoglio semplice e autentico.




“Un politico che spende milioni per farsi ascoltare, ma non un’ora per camminare tra la sua gente, ha già perso la voce prima ancora del voto.”



La Politica che Cammina: perché miliardi in propaganda non valgono una passeggiata tra la gente

Ogni stagione elettorale si ripete lo stesso copione: fiumi di denaro scorrono nei canali della propaganda. Manifesti, spot televisivi, campagne social, influencer ingaggiati per un post o una storia. Le cifre fanno girare la testa — miliardi di euro investiti per convincere, sedurre, manipolare l’attenzione. Eppure, in questo vortice di slogan e promesse preconfezionate, resta dimenticato l’elemento più semplice e potente della comunicazione politica: camminare accanto al cittadino.

La distanza tra chi parla e chi ascolta

La politica contemporanea ha smarrito il passo. I leader parlano “dall’alto” dei palchi o “attraverso” uno schermo, ma raramente “con” le persone.
Ogni campagna è una guerra di immagini, una corsa al consenso istantaneo misurato in click e in visualizzazioni, non in sguardi e conversazioni.
Eppure, la vera comunicazione — quella che crea fiducia e radici — nasce dal movimento lento, dal confronto diretto, da una stretta di mano vera, da una chiacchierata per strada.

La propaganda compra l’attenzione, ma non la fiducia

Con i miliardi spesi in pubblicità, i partiti cercano di “comprare” il tempo degli elettori. Ma il tempo comprato non è mai tempo donato.
I cittadini non vogliono essere spettatori passivi di spot elettorali. Vogliono essere ascoltati, partecipare, raccontare i propri disagi e le proprie speranze.
La vera democrazia non si costruisce con le campagne media, ma camminando nei mercati, nei parchi, nei quartieri dimenticati, ascoltando la voce di chi non appare mai in TV.

Camminare come atto politico

Camminare è il gesto più umano e più rivoluzionario che esista.
Quando un politico sceglie di camminare, di guardare negli occhi, di farsi attraversare dai problemi quotidiani della gente, sta già comunicando in modo autentico.
La politica che cammina non ha bisogno di slogan: parla con il ritmo dei passi, con la presenza reale, con la lentezza che permette di capire davvero.

Ripartire dal passo, non dallo spot

Forse è arrivato il momento di una nuova forma di comunicazione politica — la comunicazione a piedi.
Un modello dove la parola non è lanciata da uno schermo, ma condivisa in cammino, tra la polvere delle strade e i respiri della città.
Perché la fiducia non si conquista con un jingle, ma con la coerenza quotidiana.
E le elezioni, alla fine, non si vincono con i soldi, ma con la verità del contatto umano.



sabato 15 novembre 2025

La noia è l’attimo in cui l’anima smette di cercare stimoli e comincia a desiderare verità — è lì che nasce la luce silenziosa dell’illuminazione.

 Titolo: Quando la Noia Diventa una Porta: L’Illuminazione come Fine della Ricerca di Eccitazione

C’è un momento nella vita in cui tutto sembra perdere sapore. Le esperienze, le relazioni, i progetti — persino i sogni — appaiono come repliche di qualcosa che abbiamo già vissuto. Si chiama noia, ma non è sempre un segno di vuoto. A volte è un segno di fame spirituale: il richiamo dell’anima verso una profondità che il mondo delle distrazioni non può più offrire.

La Noia come Fame di Verità

La noia non è pigrizia o disinteresse. È la tensione silenziosa tra ciò che siamo e ciò che ancora fingiamo di essere. Quando tutto perde senso, non è la vita che si svuota — è il vecchio sé che si sgretola. La mente, abituata a cercare stimoli, si ribella al silenzio. Ma proprio in quel vuoto nasce il varco. La noia diventa allora una soglia sacra: un invito a smettere di cercare fuori e a tornare dentro.

L’Illuminazione non è un Fuoco d’Artificio

Chi crede che l’illuminazione spirituale porti euforia o meraviglie sovrannaturali, resta deluso. L’illuminazione non aggiunge nulla: toglie. Togli l’attesa, la corsa, l’inquietudine di dover sentire di più. È la resa del cercatore al momento presente, dove l’ordinario smette di essere banale.
Quando il velo cade, il semplice atto di respirare diventa un universo intero. Il rumore della pioggia non è più sfondo: è il centro. La luce sul muro non è più insignificante: è la vita stessa che si manifesta, nuda, senza bisogno di applausi.

Nulla Cambia, eppure Tutto è Vivo

L’illuminazione non trasforma il mondo esterno, ma il modo in cui lo percepiamo. Il lavoro resta lavoro, le giornate scorrono uguali, ma l’occhio che guarda è diverso. Dove prima c’era abitudine, ora c’è presenza. Dove prima c’era fuga, ora c’è quiete.
Non si tratta di aggiungere intensità, ma di riconoscere che ogni istante è già pieno. La noia non ha più spazio, perché la mente non ha più bisogno di fuggire da sé stessa.

Conclusione

Essere annoiati può sembrare un punto morto, ma è spesso il preludio di una nascita. La noia è l’anima che chiede verità, non intrattenimento.
L’illuminazione non la colma con eccitazione, ma la dissolve nella consapevolezza che tutto è già qui.
E allora anche un gesto semplice — una tazza di tè, un passo nel silenzio — diventa preghiera.

Quando smetti di cercare l’eccezionale, l’ordinario ti rivela la sua meraviglia.

 



giovedì 13 novembre 2025

Bambini nati negli anni ’90 e problematiche sociali

 

Bambini nati negli anni ’90 e problematiche sociali

Introduzione

Nel decennio 1990–1999 sono nati oltre un miliardo di bambini nel mondo. In Italia questa generazione è spesso identificata con la Generazione Z. Diverse ricerche e documenti pubblicati negli anni ’90 e 2000 hanno analizzato le condizioni sociali dei bambini nati in quel periodo. I principali temi emersi riguardano la trasformazione della famiglia, la diffusione di povertà e precarietà, le difficoltà educative, l’impatto delle nuove tecnologie e la salute mentale. Di seguito si presentano le evidenze più significative, con riferimento a documenti prodotti negli anni ’90 o poco dopo e ad analisi successive che richiamano i dati di quel decennio.

1. Trasformazione della famiglia e mono‑genitorialità

Aumento dei divorzi e dei genitori non sposati

  • Aumento delle famiglie monoparentali – Uno studio del Demographic Research rilevò che oltre metà dei bambini nati negli Stati Uniti negli anni ’90 avrebbe trascorso parte della propria infanzia con un solo genitore. Tra il 1997 e il 2001 il 71 % dei figli di madri non sposate viveva in famiglie a basso reddito, contro il 27 % dei figli di genitori coniugatidemographic-research.org.

  • Dati sul divorzio – Un articolo del 1999 dell’Università del New Hampshire osservava che, a causa dell’aumento dei divorzi, circa la metà dei bambini nati negli anni ’90 sarebbe cresciuta per almeno cinque anni in una famiglia monoparentaleunhmagazine.unh.edu. La situazione era accentuata da madri lavoratrici e dalla scarsità di servizi di qualità per la cura dei figli.

  • Persone a rischio di divorzio – Una dispensa universitaria (Buffalo State College, 2009) riportava che oltre il 50 % dei bambini nati negli anni ’90 sperimentava la separazione dei genitori; i bambini afroamericani erano i più esposti e oltre il 50 % dei figli di divorziati poteva avere un patrigno entro quattro annifaculty.buffalostate.edu.

  • Studi su famiglie single – Un articolo di YouthWorker osservava che fino al 60 % dei bambini nati negli anni ’90 negli Stati Uniti avrebbero vissuto in famiglie monoparentali per parte della loro infanziayouthworker.com. Un’analisi dell’Encyclopedia.com sottolineava che metà dei bambini nati nei decenni successivi avrebbe trascorso almeno una parte della crescita con un solo genitoreencyclopedia.com.

Effetti sull’infanzia

La National Center for Education Statistics (NCES) negli Stati Uniti evidenziava che i bambini nati negli anni ’90 erano più vulnerabili perché aumentavano i casi di famiglie giovani a guida femminile, condizioni di povertà o famiglie in cui l’inglese non era la prima lingua. Tutto ciò riduceva il capitale economico e sociale disponibile per i bambini e aumentava il rischio di insuccesso scolasticonces.ed.gov. Le ricerche mettevano in evidenza il legame tra mono‑genitorialità e precarietà economica: una famiglia con un solo reddito aveva maggiori difficoltà a sostenere spese educative e di cura dei figli.

2. Povertà e disuguaglianze economiche

Incidenza della povertà infantile negli anni ’90

  • Povertà persistente – Un rapporto dell’Urban Institute (2012) analizzando i dati degli anni ’70‑’90 rilevava che circa il 16 % dei bambini americani era nato in famiglie povere. La percentuale era molto più alta per i bambini afroamericani (40 %) rispetto ai bianchi (10 %). I bambini nati da famiglie povere presentavano maggiori probabilità di restare poveri e avevano tassi più bassi di completamento della scuola superioreurban.org.

  • Effetti a lungo termine della povertà – Un’analisi del 2023 di CLASP riassumeva studi longitudinali: circa il 35 % dei bambini nati tra gli anni ’70 e ’90 sperimentò povertà in qualche fase della vita. Un quarto dei bambini neri trascorse più di tre quarti dell’infanzia in povertà, contro il 3 % dei bianchi. I bambini esposti a 8‑14 anni di povertà erano cinque volte più propensi a essere poveri a 35 anni rispetto a quelli con meno esposizioneclasp.org.

Situazione in Italia

  • Secondo il rapporto di Save the Children “25 anni dopo la Convenzione ONU” (2014), il 13,8 % dei minori italiani viveva in povertà assoluta e il tasso di abbandono scolastico era del 17 %. Lo studio sottolineava che la popolazione minorile rappresentava solo il 16,7 % del totale, ma includeva sempre più bambini con genitori stranieri (dal 1,2 % dei nati nel 1993 al 15 % nel 2012)savethechildren.itsavethechildren.it. L’aumento della povertà infantile era collegato a famiglie numerose, monogenitoriali, con genitori operai o disoccupati, e alla carenza di servizi pubblici per l’infanziasavethechildren.it.

  • Un articolo di Openpolis (2024) spiegava che il concetto di povertà educativa è emerso negli anni ’90 e descrive la privazione di opportunità culturali, sociali e formative necessarie allo sviluppo dei minori. L’articolo evidenziava che povertà economica e povertà educativa si alimentano a vicenda; nel 2023 il 13,8 % dei minori italiani era in povertà assoluta, con maggior rischio per famiglie monoparentali, famiglie con almeno tre figli e quelle con capofamiglia operaio o disoccupatoopenpolis.it.

3. Difficoltà educative e servizi per l’infanzia

  • Accesso limitato all’educazione prescolare – Il NCES negli Stati Uniti segnalò che i bambini nati negli anni ’90 erano più propensi a provenire da famiglie con risorse economiche e sociali ridotte e quindi meno esposti a programmi prescolari di qualitànces.ed.gov. L’assenza di educazione precoce di qualità può compromettere le competenze cognitive e sociali.

  • Scarso sostegno pubblico in Italia – Save the Children nel 2014 lamentava la mancanza di nidi e servizi per l’infanzia in Italia, sottolineando che i genitori faticavano a conciliare lavoro e cura dei figlisavethechildren.it. La riduzione della spesa pubblica per i servizi sociali ha contribuito a limitare l’accesso a attività educative e ricreative.

  • Emergere della povertà educativa – L’articolo di Openpolis indicava che negli anni ’90 la letteratura iniziò a utilizzare il termine povertà educativa per descrivere la negazione di opportunità formative e culturali ai minori, concetto poi ripreso da organizzazioni non profit e istituzioni pubblicheopenpolis.it.

4. Precarietà lavorativa per i giovani nati negli anni ’90

  • Un articolo di Aggiornamenti Sociali (2018) descriveva i giovani italiani nati negli anni ’90 come la “generazione della precarietà”. A causa delle riforme del mercato del lavoro e della crisi economica, questi giovani hanno vissuto un ingresso nel mondo del lavoro segnato da contratti a termine e lavori flessibili. Molti accettano orari irregolari o condizioni incerte per mantenere l’occupazione; coloro che emigrano all’estero percepiscono maggiori opportunità e autostima rispetto a chi resta in Italiaaggiornamentisociali.it. L’articolo osservava che la precarietà non è più vista come un passaggio temporaneo ma come normalitàaggiornamentisociali.it.

5. Salute mentale, isolamento e pandemia

  • Un approfondimento di Adolescenza InForma (2021) evidenziava che la “generazione Z” in Europa, formata da giovani nati negli anni ’90, fatica a replicare il successo lavorativo dei genitori a causa dell’instabilità economica. La pandemia di COVID‑19 ha aggravato il senso di insicurezza: molti giovani, nonostante una laurea, non trovano lavoro stabile e soffrono di depressione e isolamentoadolescenzainforma.it. Questo contesto ha esacerbato problematiche di salute mentale.

6. Impatto delle tecnologie digitali

  • Diffusione delle tecnologie – La tecnologia touch screen è apparsa negli anni ’90 ma ha conosciuto un boom dopo il 2010 con la diffusione di smartphone e tablet, che sono entrati in quasi tutte le famiglieilcircodellafarfalla.it. I bambini nati negli anni ’90 sono stati tra i primi a crescere immersi nella cultura digitale.

  • Rischi psicosociali – Un articolo di Il Circo della Farfalla (2020) avvertiva che l’uso precoce e intensivo di dispositivi digitali può portare a consumo passivo di contenuti, riducendo l’interazione sociale e rallentando lo sviluppo emotivo. Gli autori invitano a un uso equilibrato e alla mediazione degli adultiilcircodellafarfalla.it.

7. Altre problematiche emergenti

  • Migrazioni e multiculturalismo – Il rapporto di Save the Children (2014) indicava che la percentuale di bambini nati in Italia da genitori stranieri è passata dall’1,2 % nel 1993 al 15 % nel 2012savethechildren.it. Questa trasformazione ha reso le scuole più multiculturali, ma i figli di immigrati affrontano barriere linguistiche e discriminazioni, con maggior rischio di abbandono scolastico.

  • Disuguaglianze territoriali – In Italia le opportunità educative e lavorative variano molto tra nord e sud. La carenza di asili nido e l’alto tasso di NEET (giovani che non studiano né lavorano) sono più marcati nel Mezzogiorno.

Conclusioni

I bambini nati negli anni ’90 si sono trovati a crescere in un contesto caratterizzato da trasformazioni familiari (divorzi, convivenze e famiglie monoparentali), maggiore rischio di povertà, scarsità di servizi per l’infanzia e nuove sfide legate alle tecnologie digitali. Le evidenze mostrano che:

  1. La mono‑genitorialità è diventata comune, con oltre metà dei bambini nati negli anni ’90 destinata a vivere con un solo genitore; questa situazione è associata a maggiori livelli di povertà e a un rischio più elevato di insuccesso scolasticounhmagazine.unh.edudemographic-research.org.

  2. La povertà infantile persiste, colpendo soprattutto i bambini di origine afroamericana o immigrata e quelli di famiglie numerose o disoccupateurban.orgsavethechildren.it. L’esposizione prolungata alla povertà riduce drasticamente le chance di riscattoclasp.org.

  3. Le opportunità educative sono diseguali. Nei primi anni ’90 emerse il concetto di povertà educativa per descrivere la privazione di esperienze formative e culturaliopenpolis.it. La scarsità di nidi e servizi per l’infanzia limita la crescita dei bambini provenienti da famiglie svantaggiatesavethechildren.it.

  4. I giovani nati negli anni ’90 affrontano precarietà lavorativa e hanno difficoltà a raggiungere l’indipendenza economica; molti emigrano per cercare migliori opportunitàaggiornamentisociali.it.

  5. La salute mentale e l’isolamento sono aggravati dalla precarietà e dalla pandemia, aumentando i casi di depressione tra i giovaniadolescenzainforma.it.

  6. Le tecnologie digitali hanno trasformato l’infanzia e l’adolescenza, ma l’uso eccessivo può ridurre le interazioni sociali e lo sviluppo emotivoilcircodellafarfalla.it.

Comprendere queste problematiche è fondamentale per elaborare politiche e interventi mirati che sostengano le famiglie, potenzino i servizi educativi, riducano la povertà e tutelino il benessere mentale dei giovani nati negli anni ’90.

Nel decennio 1990-1999, le trasformazioni sociali hanno avuto un impatto significativo sulla generazione dei bambini nati allora. Diversi studi mostrano che oltre metà di questi bambini ha trascorso parte dell’infanzia in famiglie monoparentali; la diffusione di divorzi e di genitori non sposati ha aumentato l’instabilità familiareunhmagazine.unh.edudemographic-research.org. Questo fenomeno si è accompagnato a una crescita della povertà infantile, soprattutto tra i figli di immigrati o minoranze, con effetti a lungo termine sulla possibilità di riscattourban.org. Il concetto di “povertà educativa” nasce proprio negli anni ’90 per descrivere la mancanza di opportunità culturali e formative per i minoriopenpolis.it. In Italia si registra una carenza di servizi per l’infanzia, come gli asili nido, che aggrava il problemasavethechildren.it.

Un altro aspetto cruciale riguarda la precarietà lavorativa affrontata da questa generazione: i giovani nati negli anni ’90 sperimentano contratti temporanei e spesso emigrano per cercare condizioni miglioriaggiornamentisociali.it. Alla precarietà economica si sommano difficoltà di salute mentale, accentuate dalla pandemia, che limitano l’accesso a un futuro stabileadolescenzainforma.it. Infine, la diffusione delle tecnologie digitali, iniziata negli anni ’90, ha trasformato l’infanzia di questi ragazzi; se da un lato facilita l’accesso all’informazione, dall’altro la fruizione passiva può ostacolare lo sviluppo emotivo e socialeilcircodellafarfalla.it.




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