venerdì 21 novembre 2025

1. **“Se il crimine diventa autonomo e muto, non spariscono i colpevoli: si addormenta la società.”** 2. **“Quando le macchine del crimine agiscono da sole, il vero bersaglio siamo noi che facciamo finta di niente.”** 3. **“Se il mezzo è autonomo e nessuno è da arrestare, allora è la nostra coscienza che è sotto processo.”**

 Il crimine sta usando l’intelligenza artificiale in un modo incredibile.

E purtroppo… molto concreto.

Non è solo questione di testi scritti da ChatGPT o di immagini generate. Il salto vero è che l’IA è uscita dallo schermo: comanda droni, sommergibili, infrastrutture digitali, botnet che si muovono e agiscono da sole.

Ed è qui il punto che nessuno sta spiegando davvero:

se il mezzo è autonomo, non c’è nessuno da arrestare, nessuno da interrogare, nessuno che tradisce.
È un vettore muto.

Questo cambia tutto: investigazioni, responsabilità penale, persino il concetto stesso di “criminale”.

In questo articolo vediamo come ci siamo arrivati, cosa sta già succedendo nel mondo fisico e digitale e perché la nostra idea di sicurezza è rimasta ferma a un mondo che non esiste più.


Dal digitale al fisico: l’IA esce di casa

Per anni abbiamo pensato all’IA come a qualcosa di astratto: algoritmi che classificano immagini, chatbot che rispondono, sistemi che suggeriscono video.

Nel frattempo, fuori dai riflettori:

  • i cartelli della droga hanno iniziato a usare droni per trasportare carichi oltre i confini, in voli notturni a bassa quota difficili da individuare.(ResearchGate)

  • in vari Paesi, droni telecomandati consegnano droga e oggetti di contrabbando direttamente dentro le carceri, sfruttando coordinate GPS e app di geolocalizzazione.(The Times)

  • al largo della Colombia è stato intercettato un narco-sommergibile semisommergibile autonomo, senza equipaggio, dotato di antenne, modem satellitare e telecamere, probabilmente in fase di test per trasportare fino a una tonnellata e mezza di cocaina in modo completamente uncrewed.(The Guardian)

Questo è già il presente. Ma è solo il livello “beta”.

Organizzazioni internazionali e centri di ricerca stanno documentando come i gruppi criminali stiano integrando l’IA per automatizzare intere fasi delle loro operazioni: logistica, riciclaggio, comunicazioni, persino la scelta dei bersagli.(Reuters)

Il risultato è un ecosistema in cui il “lavoro sporco” viene spostato su mezzi autonomi, mentre gli esseri umani si nascondono sempre più lontano.


Il concetto chiave: il “vettore muto”

Chi fa investigazione è abituato a partire dal vettore:
la macchina, il telefono, il furgone, il corriere, il bonifico.

Dietro un mezzo c’è sempre un autore: un autista, un intestatario, un proprietario, un contatto. Qualcuno da fermare e interrogare.

Con l’IA e l’automazione spinta, il vettore può diventare muto:

  • un drone programmato per decollare, sganciare un pacco e rientrare;

  • un sommergibile autonomo che segue una rotta predefinita, controllato da remoto via satellite;

  • un software che muove denaro in modo frammentato, passando da wallet a wallet, scegliendo automaticamente i percorsi meno tracciabili;

  • una botnet che scansiona vulnerabilità, sceglie gli obiettivi e lancia attacchi senza nessun “hacker” collegato in tempo reale.(UNODC)

Se intercetti il mezzo, intercetti solo il mezzo.
Nessun guidatore, nessun passeggero, nessuno “sotto pressione” che in interrogatorio inizi a parlare.

È questo il cuore del problema: l’IA non è solo uno strumento “più potente”, è un cuscinetto di distanza tra il crimine e chi lo compie.


Tre tipi di mezzi autonomi che il crimine sta già usando (o testando)

1. Veicoli e droni nel mondo reale

Qui parliamo di hardware: qualcosa che occupa spazio, vola, naviga o si muove su ruote.

Esempi concreti:

  • Droni da contrabbando
    Usati per trasportare droga e merci illegali sopra confini terrestri o barriere fisiche. Volano di notte, a bassa quota, sganciano il carico e tornano indietro.(ResearchGate)

  • Droni nelle carceri
    In Regno Unito sono stati segnalati droni che consegnano cannabis, cocaina, ketamina, ma anche farmaci, steroidi e altri prodotti direttamente dietro le mura dei penitenziari, con un livello di organizzazione degno di una logistica e-commerce.(The Times)

  • Sommergibili autonomi (narco-sub)
    La Marina colombiana ha intercettato un semisommergibile senza equipaggio, probabilmente progettato per viaggiare in modo autonomo con carichi enormi di droga. Antenne, modem satellitare, telecamere: un laboratorio galleggiante di autonomia criminale.(The Guardian)

  • Self-driving car come “muli” della droga (scenario realistico)
    Analisti e studiosi hanno già descritto il rischio che i futuri veicoli autonomi diventino “narco car” prive di guidatore: l’auto parte, consegna, torna, e se viene beccata… dentro non c’è nessuno.(Forbes)

In tutti questi casi, il vettore trasporta rischio e valore, ma non trasporta persone.


2. Botnet e agenti software autonomi

Nel mondo digitale, il concetto di mezzo autonomo è ancora più radicale.

I nuovi botnet abilitati dall’IA sono in grado di:

  • trovare da soli le vulnerabilità più profittevoli;

  • scegliere il tipo di attacco (ransomware, phishing mirato, furto di dati);

  • adattarsi alle difese in tempo reale, senza intervento umano costante.(UNODC)

Nel frattempo, l’IA viene usata per:

  • generare malware sempre più sofisticato;

  • creare deepfake vocali e video credibili per truffe, estorsioni e manipolazioni politiche;(Europol)

  • orchestrare campagne di disinformazione e attacchi informatici in collaborazione con attori statali ostili.(Financial Times)

Qui il “vettore muto” è un agente software: instabile, replicabile, diffuso ovunque. Se lo spegni in un server, può riapparire altrove.


3. L’impresa criminale-as-a-service

Un’altra trasformazione, meno visibile ma devastante, è la nascita del crime-as-a-service potenziato dall’IA:

  • generatori di phishing in qualunque lingua, ottimizzati per il tasso di risposta;(Europol)

  • strumenti automatizzati per la creazione di deepfake, usati per frodi finanziarie, ricatti, campagne di odio;(Europol)

  • servizi che vendono modelli e tool pre-allenati per attacchi informatici o campagne di truffa mirata.(trmlabs.com)

In pratica, una parte del crimine organizzato sta diventando una piattaforma tecnologica: non serve più essere hacker o trafficante esperto, basta pagare per usare strumenti automatizzati.


La legge rincorre: responsabilità senza corpo

Qui arriviamo allo scontro frontale tra diritto penale analogico e crimine autonomo digitale/fisico.

I problemi principali:

  1. Chi è penalmente responsabile del vettore muto?

    • Chi progetta l’algoritmo?

    • Chi lo addestra?

    • Chi lo lancia?

    • Chi ne trae profitto?

    Studi recenti sottolineano come l’IA permetta a reti criminali di operare “faceless, bodiless”, senza gerarchie visibili e con autori difficilmente individuabili.(capacity4dev.europa.eu)

  2. Distanza geografica e giurisdizione
    Un cartello in un Paese può:

    • far partire un drone da un secondo Stato,

    • farlo volare sopra un terzo,

    • consegnare droga in un quarto.

    A chi compete? Dove si configura il reato principale?

  3. Prova e attribuzione
    Anche quando intercetti il sommergibile o il drone:

    • la catena di controllo può passare da VPN, server compromessi, botnet;

    • i log possono essere manipolati o cifrati;

    • l’IA può aver preso decisioni “intermedie” non direttamente riconducibili a singole persone.

  4. Norme pensate per chi impugna un’arma, non per chi la automatizza
    Molte norme penali si basano sull’idea di un soggetto che “porta”, “conduce”, “impugna” o “aziona” un mezzo.
    Ma se il mezzo:

    • è stato programmato mesi prima,

    • non richiede più controllo umano,

    • agisce in modo adattivo…

    allora su quale azione concreta si costruisce il reato?


Scenari che potrebbero arrivare prima di quanto pensiamo

Guardando i trend attuali, organizzazioni come Europol e think tank internazionali ipotizzano scenari di reti criminali quasi interamente automatizzate, dove l’IA pianifica e coordina attività con intervento umano minimo.(Reuters)

Alcuni esempi realistici:

  1. Filiera logistica del narcotraffico quasi autonoma

    • modelli predittivi che individuano le rotte meno rischiose via mare, aria e terra;

    • droni, sommergibili e mezzi autonomi che eseguono il trasporto;

    • algoritmi che riprogettano in tempo reale la rotta in base alle intercettazioni e ai controlli.

  2. Attacchi coordinati a infrastrutture critiche

    • agenti software che attaccano reti elettriche, ospedali, porti;

    • campagne di disinformazione e panico coordinate da bot;

    • richiesta di riscatti in criptovalute, con riciclaggio automatizzato.(AP News)

  3. Mercati neri “self-running”

    • piattaforme nel dark web gestite da agenti IA che verificano identità, calcolano reputazione, gestiscono escrow, tracciano consegne, tutto senza uno staff umano evidente.

In tutti questi scenari, torniamo al punto iniziale: si colpisce il vettore, non il soggetto. E il vettore è muto.


Possibili contromisure: cosa può fare la società (non solo la polizia)

Non siamo condannati a subire passivamente. Ma le risposte devono essere sistemiche, non cosmetiche.

1. Usare l’IA contro l’IA

Le stesse tecniche che potenziano il crimine possono:

  • aiutare a rilevare schemi di riciclaggio e frodi in tempo reale;(Arva)

  • identificare comportamenti anomali di droni e mezzi autonomi in certe aree;

  • analizzare enormi quantità di dati (finanziari, logistici, comunicativi) per scovare reti nascoste.(Europol)

Qui la vera sfida è di governance: chi accede ai dati, con quali limiti, quali garanzie di diritti fondamentali?


2. Ripensare la responsabilità legale

Il diritto dovrà fare un salto concettuale:

  • introdurre forme di responsabilità estesa per chi progetta, distribuisce e utilizza sistemi autonomi a rischio elevato, soprattutto nel contesto dell’AI Act europeo;(Europol)

  • prevedere reati specifici legati all’uso criminale di sistemi autonomi (non solo “uso di arma” o “traffico di droga”, ma anche “impiego di mezzo autonomo per attività illecita”);

  • armonizzare norme tra Stati, perché questi vettori sono, per definizione, transnazionali.


3. Regolare infrastrutture e hardware

  • droni con identità digitale obbligatoria oltre determinate dimensioni/pesi;

  • geofencing in aree sensibili (porti, carceri, centrali, confini);

  • obblighi di log non manipolabili per certi tipi di mezzi autonomi (come le “scatole nere” sugli aerei).

Queste misure non bloccano il crimine (chi vuole violare la legge lo farà comunque), ma alzano il costo dell’anonimato.


4. Cultura digitale per chiunque

La parte più sottovalutata è la società civile:

  • capire che una voce al telefono può essere clonata;

  • sapere che un video può essere deepfake;

  • riconoscere segnali tipici di truffe “assistite dall’IA” (urgenza emotiva, richieste di pagamenti non tracciabili, incoerenze nei dettagli).(AP News)

Educazione digitale non è più un “optional tecnico”, ma una forma di igiene sociale.


Conclusione: quando non c’è più nessuno al volante

La vera frattura non è tra “IA buona” e “IA cattiva”, ma tra sistemi con un umano al centro e sistemi in cui l’umano scompare dietro strati di automazione.

Nel momento in cui il mezzo diventa autonomo:

  • la polizia trova mezzi, non persone;

  • i giudici devono decidere responsabilità in assenza di “mani sporche” dirette;

  • i cittadini si confrontano con fenomeni difficili persino da immaginare, figuriamoci da riconoscere e denunciare.

Il crimine l’ha capito in fretta:
più il vettore è muto, più la filiera criminale resta intoccabile.

La domanda, ora, è se Stati, istituzioni e società civile riusciranno a muoversi con la stessa velocità. Non per fermare la tecnologia – impossibile – ma per evitare che l’autonomia diventi il nuovo rifugio sicuro dell’illegalità.



martedì 18 novembre 2025

«Stato, ti presenti alla nostra porta con lo sfratto dopo trent’anni, ma la verità è che l’abbandono lo hai firmato tu: hai lasciato interi quartieri senza lavoro, servizi e diritti, e ora chiedi a chi non hai mai guardato in faccia di pagare il conto di una società che non hai mai costruito davvero.»

 Quando lo Stato ti bussa alla porta dopo trent’anni non è solo uno sfratto: è come se ti dicesse

“tu qui non sei mai davvero esistito”.

Ti propongo di guardare questa cosa su tre livelli: struttura (come funziona il sistema casa), corpo (cosa succede alla famiglia dopo 30 anni in un alloggio popolare), sguardo (il problema di una società che non ti ha mai visto e adesso ti chiede di “integrarti”).


1. Il contesto: Napoli, le case popolari e l’emergenza permanente

In Italia solo circa il 2,5% delle abitazioni è edilizia residenziale pubblica (ERP), mentre quasi il 30% delle case di proprietà resta sfitto. Intanto si registrano in media oltre 130 sfratti eseguiti al giorno. (Vita.it)

Napoli è dentro questa frattura in modo ancora più duro:

  • nelle graduatorie per le case popolari, per anni ci sono state circa 17.000 famiglie in attesa, con liste praticamente ferme dalla fine degli anni ’90; in più di vent’anni, meno di 2.000 assegnazioni. (UniURB Open Journals)

  • a livello nazionale si parla di oltre 3 milioni di persone in emergenza abitativa, mentre nel Paese ci sono più di 7 milioni di case vuote. (Usb Pubblico Impiego)

Il Comune di Napoli, negli ultimi anni, sta pubblicando avvisi per reperire alloggi da destinare all’emergenza abitativa e contributi straordinari per chi è senza casa. (www.comune.napoli.it)
Questo però dimostra una cosa: non esiste un piano strutturale, solo bandi “tappabuchi” di fronte a un problema storico.

In mezzo ci sono le famiglie che vivono da decenni nelle case comunali, spesso in situazioni grigie:
assegnazioni vecchie, subentri mai regolarizzati, occupazioni “tollerate” che per anni hanno fatto comodo a tutti – finché qualcuno decide che il regolamento, all’improvviso, va applicato alla lettera.


2. Cosa significa essere sfrattati dopo 30 anni

Prova a immaginare una famiglia che vive da tre decenni in una casa popolare:

  • lì sono cresciuti i figli, lì hai curato i genitori anziani, lì conosci ogni voce del pianerottolo

  • la casa non è solo “un tetto”, è memoria, rete sociale, punti di riferimento (la scuola, il medico, il bar, la fermata dell’autobus)

  • spesso non hai mai potuto permetterti di “scegliere”: non è che confrontavi annunci immobiliari, quello era l’unico posto dove vivere

Quando arriva lo sfratto, non è solo:

“Devi lasciare l’alloggio”

ma è, sotto traccia:

  • “non sei in regola”

  • “sei un abusivo”

  • “sei tu il problema”

Questo dopo che, per anni, lo stesso sistema ti ha usato come tampone sociale: invece di creare nuove politiche abitative, si è limitato a lasciarti lì, senza però riconoscerti pienamente.

Dal punto di vista psicologico succede spesso:

  • senso di colpa (“forse abbiamo sbagliato qualcosa noi”)

  • umiliazione pubblica (i carabinieri, l’ufficiale giudiziario, i vicini che guardano)

  • paura del dopo (dove vado? chi mi affitta una casa se ho poco reddito, un lavoro precario e magari figli piccoli?)

E poi c’è un’altra ferita: dopo 30 anni lo Stato ti tratta come se fossi arrivato ieri.


3. “Vita nuova in una società che non è mai esistita”

Quando ti dicono:
“Adesso dovete ricominciare da capo, integrarvi, cercare un’altra casa, un altro quartiere, un’altra vita”
ti stanno chiedendo di entrare in una “società” che, nei fatti, non ha mai fatto spazio per te.

Per molte famiglie delle case popolari di Napoli la realtà è stata:

  • quartieri stigmatizzati come “ghetti”

  • scuole dove mancano risorse, attività, continuità

  • lavoro quasi sempre precario, in nero, intermittente

  • servizi sociali presenti a intermittenza, spesso solo quando c’è emergenza (sgombero, minori a rischio, conflitti)

Lo Stato e le istituzioni li hanno visti quasi sempre come problema, raramente come cittadini con diritti pieni:

  • quando serve il consenso: promesse di sanatorie, graduatorie, piani casa

  • quando serve “ordine”: sfratti, sgomberi, controlli

Nel mezzo, nessuna costruzione di legami sociali veri: nessun investimento serio su:

  • doposcuola, centri di quartiere, biblioteche di prossimità

  • percorsi di lavoro stabile legati alla rigenerazione urbana

  • servizi di salute mentale di comunità (importantissimi dove c’è stress abitativo cronico)

Chiedere a una famiglia sfrattata di “rifarsi una vita” è facile.
Il difficile sarebbe costruire, intorno, una società che la voglia davvero quella famiglia, non solo che la tolleri.


4. Il paradosso: tra case vuote, canoni, ISEE e sanatorie mancate

Negli ultimi anni la Regione Campania e i Comuni hanno modificato regole e canoni ERP, legandoli ancora di più all’ISEE e chiedendo documentazione puntuale: chi non presenta i documenti rischia aumenti spropositati, morosità e quindi sfratto. (Uniat Campania APS)

Allo stesso tempo:

  • ci sono alloggi popolari vuoti o inutilizzati, in attesa di manutenzione o di riassegnazione

  • ci sono state sanatorie parziali per alcune occupazioni storiche, che hanno regolarizzato qualcuno lasciando fuori altri per pochi giorni o cavilli burocratici (Open Migration)

Quindi:

  • chi ha vissuto per anni nel grigio tra legalità e necessità

  • oggi viene giudicato solo sul piano burocratico,

  • senza tenere conto che è stato proprio il sistema pubblico a produrre quell’area grigia.

È come se lo Stato dicesse:
“Per trent’anni non ti ho dato risposte, ma oggi ti chiedo di essere perfettamente in regola. Se non lo sei, fuori.”


5. Cosa servirebbe davvero per “uscire” dopo 30 anni

Se parliamo seriamente di famiglie che devono lasciare una casa popolare dopo decenni, non basta:

  • un contributo una tantum

  • un posto letto in un residence o in una struttura temporanea

Una vita nuova richiederebbe almeno:

  1. Soluzioni abitative reali, non parcheggi

    • alloggi a canone sociale nello stesso territorio, per non spezzare le reti di cura

    • progetti di cohousing popolare, dove casa e servizi di quartiere vadano insieme

  2. Accompagnamento sociale lungo, non solo il giorno dello sfratto

    • mediatori, educatori, psicologi di comunità

    • percorsi personalizzati per anziani, persone con disabilità, famiglie monoreddito

  3. Lavoro e reddito, non solo assistenza

    • impiegare le persone nei progetti di riqualificazione degli stessi quartieri popolari (manutenzione, verde, servizi)

    • formazione mirata legata ai bisogni reali della città (cura, turismo, artigianato, digitale)

  4. Uno sguardo diverso

    • smettere di raccontare chi vive nelle case popolari solo come “abusivo” o “problema di ordine pubblico”

    • riconoscere che per anni queste famiglie hanno tenuto insieme pezzi di città che altrimenti sarebbero crollati socialmente


Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare tutto questo in:

  • un pezzo narrativo con la storia di una famiglia-tipo che dopo 30 anni si ritrova con lo sfratto in mano

  • oppure in una inchiesta-blog strutturata (dati, testimonianze, analisi) su cosa significa, a Napoli, essere sfrattati dallo Stato dopo una vita passata nelle sue case popolari.



lunedì 17 novembre 2025

L’intimità è quel luogo silenzioso in cui ti senti visto, ascoltato e accolto, anche quando i corpi stanno fermi e a parlare sono solo i cuori.

 L’intimità: la forza silenziosa che va oltre il sesso


Quando parliamo di “intimità”, quasi tutti pensano subito al sesso.
Ma l’intimità è un universo molto più vasto: è la qualità di come ci incontriamo, non solo cosa facciamo insieme.

In questo articolo proviamo a ribaltare una convinzione diffusa: non è il sesso a creare intimità, è l’intimità che può rendere il sesso (quando c’è) profondamente trasformativo. E può esistere anche dove il sesso non c’è affatto.


1. Perché confondiamo intimità e sesso

Ci sono almeno tre motivi principali:

  1. Cultura e media
    Film, serie e pubblicità ci mostrano corpi nudi molto più spesso di cuori aperti. La nudità viene venduta come “intimità”, ma spesso è solo esposizione fisica, non incontro autentico.

  2. Velocità delle relazioni
    Viviamo relazioni veloci: ci si conosce, ci si “piace”, si passa subito al letto. Il corpo diventa il canale più immediato, mentre la confidenza emotiva richiede tempo, ascolto, delicatezza.

  3. Paura di mostrare davvero chi siamo
    È paradossale, ma per molte persone è più facile spogliarsi fisicamente che emotivamente. Fare sesso può sembrare meno rischioso che dire:
    “Ho paura di perderti”,
    “Mi sento insicuro”,
    “Ho bisogno di essere rassicurato”.

Il risultato? Sesso presente, intimità assente. E quella sensazione di vuoto che arriva “dopo”, anche quando “sulla carta” è andato tutto bene.


2. Che cos’è davvero l’intimità

L’intimità non è un gesto, non è una posizione, non è una performance.
L’intimità è qualità di presenza.

Possiamo riassumerla così:

  • Essere visti davvero, non solo guardati.

  • Sentirsi al sicuro, non perfetti.

  • Potersi mostrare fragili, senza paura di essere giudicati o abbandonati.

È quel momento in cui puoi dire una verità scomoda su di te e l’altra persona resta lì. Non scappa, non minimizza, non ride di te. Ti accoglie.

L’intimità è fatta di:

  • silenzi che non mettono a disagio

  • piccoli gesti di cura non richiesti

  • sguardi che ascoltano

  • domande autentiche, senza curiosità morbosa

È vicinanza, non invasione.


3. Il sesso senza intimità: cosa lascia davvero

Il sesso, di per sé, è un linguaggio del corpo. Può essere:

  • gioco,

  • sfogo,

  • esplorazione,

  • anestetico emotivo.

Quando manca l’intimità, spesso:

  • il corpo c’è, il cuore no;

  • il piacere c’è, ma è come un picco isolato, non inserito in un paesaggio più ampio di fiducia e connessione;

  • dopo, torna un silenzio freddo, non un silenzio pieno.

Quante volte dopo il sesso ci si sente:

  • usati,

  • non compresi,

  • emotivamente soli?

Non perché il sesso sia “sbagliato”, ma perché è stato usato come sostituto dell’intimità, non come espressione di una vicinanza già presente.


4. L’intimità che include (o meno) il sesso

L’intimità può:

  • Esistere senza sesso
    In un’amicizia profonda, tra fratelli, genitori e figli, colleghi che vivono un percorso intenso insieme. Ci si può sentire intimi senza mai sfiorare la dimensione erotica.

  • Rendere il sesso un atto sacro (anche nel quotidiano)
    In una relazione di coppia, l’intimità emotiva fa sì che il sesso non sia solo una “cosa da fare”, ma un momento in cui:

    • mi sento scelto e non solo desiderato;

    • posso dire cosa mi piace e cosa no;

    • posso fermarmi se qualcosa mi mette a disagio, sapendo che verrò ascoltato.

La forza dell’intimità sta proprio qui:
dà profondità sia alla vicinanza corporea, sia a quella relazionale dove il corpo non è protagonista.


5. I diversi livelli dell’intimità

Per capire quanto sia potente, possiamo immaginare l’intimità come fatta di livelli che si intrecciano.

5.1 Intimità verbale

È la capacità di dire cose vere.
Non solo parlare del meteo o del lavoro, ma aprire finestre su:

  • paure,

  • desideri,

  • dubbi,

  • ferite.

Frasi come:

  • “Mi sento geloso e non vorrei”

  • “Questa tua reazione mi fa male”

  • “Ho bisogno di più rassicurazioni da parte tua”

sono atti di intimità molto più di un corpo nudo.

5.2 Intimità emotiva

Qui non si tratta solo di raccontare, ma di sentire insieme.

  • L’altro non cerca di aggiustarti a tutti i costi.

  • Non ti dà consigli su tutto.

  • Sta con te in ciò che provi. Ti fa spazio.

Quando qualcuno sostiene il peso delle tue emozioni senza ritrarsi, l’intimità si radica.

5.3 Intimità corporea (che non è solo sesso)

Intimità corporea non significa soltanto rapporto sessuale. È fatta di:

  • abbracci lunghi,

  • mani intrecciate,

  • appoggiare la testa sulla spalla di qualcuno,

  • stare vicini sul divano senza dover parlare.

La pelle, in questi casi, diventa un luogo di sicurezza, non solo di eccitazione.

5.4 Intimità di visione

È forse il livello più profondo: condividere una direzione.

  • Sogni,

  • progetti,

  • valori,

  • cosa voglio imparare, cosa voglio lasciare nel mondo.

Quando due persone sentono di guardare, se non nella stessa direzione, almeno nello stesso orizzonte, l’intimità assume una dimensione quasi “spirituale”.


6. Dove il sesso si ferma e l’intimità continua

Il sesso ha dei limiti strutturali: dura un tempo, ha un inizio e una fine.
L’intimità, invece, può attraversare:

  • malattia,

  • distanza,

  • cambiamento,

  • invecchiamento,

  • periodi in cui il desiderio cala o è assente.

La forza vera dell’intimità è proprio questa:
sopravvive dove il sesso non può arrivare.

Quando una coppia attraversa un periodo di difficoltà sessuale ma riesce a restare intima:

  • parlando senza distruggersi,

  • sostenendosi a vicenda,

  • cercando magari aiuto insieme,

dimostra che il legame non è fondato solo sulla prestazione, ma su qualcosa di molto più robusto.


7. Perché l’intimità fa più paura del sesso

Molte persone temono più l’intimità del sesso, anche se non lo dicono apertamente.

L’intimità spaventa perché:

  • Ti rende visibile
    Se mi mostro davvero, posso essere rifiutato per chi sono, non solo per cosa faccio. È un rischio enorme.

  • Ti rende “dipendente”
    Quando sento di potermi appoggiare all’altro, temo: “E se un giorno non ci sarà più?”.
    L’intimità apre alla vera perdita, non solo alla rottura di un’abitudine.

  • Ti costringe a guardarti dentro
    Per essere intimo con qualcuno, devo fare i conti con ciò che provo, con le mie reazioni, con la mia storia.
    Non posso usare l’altro solo per distrarmi da me stesso.

Il sesso può essere usato per:

  • anestetizzare la solitudine,

  • gonfiare l’ego,

  • confermare di “valere qualcosa”.

L’intimità, invece, ti mette davanti una domanda molto più radicale:
“Hai il coraggio di farti conoscere?”


8. Come coltivare la vera intimità (anche se ti hanno insegnato solo il sesso)

Qualche spunto pratico:

  1. Rallenta
    Non correre subito alla dimensione fisica. Dai tempo alle conversazioni di scendere più in profondità. Non è moralismo, è ecologia emotiva.

  2. Fai domande vere
    Non solo: “Che lavoro fai?”.
    Ma anche:

    • “Cosa ti ha insegnato il tuo ultimo fallimento?”

    • “Cosa ti fa sentire davvero al sicuro con una persona?”

    • “Cosa temi di più in una relazione?”

  3. Impara a dire “mi dispiace” e “ho sbagliato”
    Non c’è intimità senza la possibilità di riparare. Il chiedere scusa sincero crea più intimità di mille notti perfette.

  4. Stai anche quando è scomodo
    La vera intimità si misura quando emergono:

    • conflitti,

    • fraintendimenti,

    • giornate storte.

    Restare in ascolto, invece di chiudersi o attaccare, costruisce un legame resistente.

  5. Dai valore ai piccoli rituali

    • Un messaggio la mattina,

    • un momento fisso alla settimana per parlare davvero,

    • un gesto di cura ripetuto nel tempo.

    Questi dettagli creano un tessuto di intimità molto più forte dei soli momenti “speciali”.


9. L’intimità come forza rivoluzionaria

In una società che premia:

  • la performance,

  • l’immagine,

  • la velocità,

l’intimità è un atto quasi rivoluzionario.

È dire:

  • “Scelgo di vederti oltre il tuo profilo”.

  • “Scelgo di farmi vedere oltre la mia maschera”.

  • “Scelgo una qualità di relazione che non si misura in like, ma in respiri condivisi”.

Il sesso può unire due corpi per qualche ora.
L’intimità può unire due universi interiori per un pezzo di vita, che sia lungo o breve.


In sintesi

  • Il sesso è un linguaggio potente, ma non è l’unico, né il più profondo.

  • L’intimità è la vera forza: quella che resiste, che cura, che trasforma.

  • Quando il sesso nasce dall’intimità, non è solo “fare l’amore”: è diventare, per un momento, casa l’uno per l’altro.

  • E anche dove non c’è sesso, l’intimità può comunque cambiare il modo in cui ci sentiamo al mondo: meno soli, più veri, più vivi.



Dentro lo smartphone: i liquidi nascosti e il loro impatto sulla specie umana



Titolo (proposta)

Dentro lo smartphone: i liquidi nascosti e il loro impatto sulla specie umana


Introduzione

Lo smartphone è diventato una prolunga della nostra mano: lo teniamo in tasca, sul comodino, perfino accanto al cuscino. Sembra un oggetto “solido”, inerte. Eppure, al suo interno si nasconde un piccolo laboratorio chimico: elettroliti liquidi, cristalli liquidi, adesivi, colle, solventi, micro-tracce di metalli e composti organici.

Nella vita quotidiana non ce ne accorgiamo, ma quando questi materiali fuoriescono, bruciano o vengono smaltiti male, iniziano i problemi. Non solo per il singolo utente, ma per intere comunità e, su scala più ampia, per la salute collettiva della specie umana.

In questo articolo vediamo:

  • quali “liquidi” ci sono davvero dentro uno smartphone;

  • cosa succede quando qualcosa si rompe o prende fuoco;

  • l’effetto a catena sulla nostra salute e sull’ambiente;

  • come possiamo, concretamente, ridurre i danni.


1. Quali liquidi ci sono (davvero) dentro lo smartphone?

1.1. L’elettrolita liquido della batteria al litio

Il cuore chimico dello smartphone è la batteria agli ioni di litio.
Al suo interno non c’è acqua, ma un elettrolita liquido: una miscela di solventi organici (spesso carbonati organici come etilene carbonato, dimetil carbonato, ecc.) e sali di litio (come LiPF₆), che permette il movimento delle cariche tra anodo e catodo.

Caratteristiche principali:

  • facilmente infiammabile;

  • può rilasciare composti tossici se surriscaldato o se la batteria viene perforata o schiacciata;

  • in caso di incendio, possono formarsi gas irritanti per occhi e vie respiratorie.

1.2. I cristalli liquidi del display (LCD)

Molti schermi (anche se oggi c’è molto OLED, che è diverso) usano ancora la tecnologia LCD – Liquid Crystal Display.
I cristalli liquidi sono sostanze che hanno proprietà intermedie tra liquido e solido, organizzate in strati sottilissimi tra due vetri.

  • Sono contenuti in spessori minimi (micron), non “colano fuori” come un liquido normale.

  • Alcuni cristalli liquidi possono essere irritanti o dannosi se ingeriti o a contatto prolungato con la pelle, ma il rischio per l’utente medio è praticamente nullo finché lo schermo resta integro.

1.3. Colle, adesivi, resine e micro-fluidi industriali

All’interno dello smartphone ci sono anche:

  • Adesivi e colle per fissare schermo, batteria e componenti;

  • resine epossidiche per proteggere circuiti integrati;

  • tracce di solventi provenienti dai processi industriali.

Questi non sono “liquidi liberi” nel telefono finito, ma derivano da fasi di lavorazione che possono impattare sugli operai e, successivamente, su aria, acqua e suolo quando il rifiuto elettronico finisce in discariche non controllate o viene bruciato.


2. Sono pericolosi per chi usa lo smartphone ogni giorno?

Qui va fatta una distinzione importante.

2.1. Uso normale: rischio quasi nullo

Nell’uso quotidiano:

  • gli elettroliti della batteria sono sigillati;

  • i cristalli liquidi sono intrappolati dentro il display;

  • colle e resine sono già polimerizzate e “ferme”.

Se il dispositivo è integro, il contatto diretto con questi liquidi è praticamente impossibile. Il problema nasce quando:

  • lo smartphone si gonfia (batteria danneggiata o degradata);

  • la batteria viene forata, piegata o schiacciata;

  • il telefono prende fuoco o esplode;

  • viene smontato male o distrutto in modo artigianale per recuperare materiali.

2.2. Rottura, incendio, esplosione: cosa succede al corpo umano?

In caso di batteria che perde o prende fuoco, possono verificarsi:

  • Ustioni chimiche sulla pelle in contatto con l’elettrolita;

  • Irritazione delle vie respiratorie in caso di fumi inalati (bruciando, l’elettrolita rilascia composti irritanti e, in alcuni casi, tossici);

  • Rischio di incendio domestico, soprattutto se il telefono viene caricato sotto il cuscino, su superfici infiammabili o con caricabatterie non certificati.

Il singolo episodio può coinvolgere pochi individui, ma la diffusione di miliardi di dispositivi nel mondo significa che questi incidenti, seppur rari, sono statisticamente inevitabili.


3. Il vero problema: cosa succede ai liquidi dello smartphone quando diventa rifiuto

Se guardiamo alla “razza umana” nel suo complesso, la domanda chiave è:
che fine fanno questi liquidi e sostanze quando buttiamo via il telefono?

3.1. Discariche illegali e riciclo informale

In molte aree del pianeta, i rifiuti elettronici finiscono in:

  • discariche a cielo aperto;

  • centri di riciclo informali, dove vengono bruciati o smontati senza protezioni;

  • fiumi, terreni agricoli, zone abitate.

Qui accade di tutto:

  • le batterie al litio vengono schiacciate, bucate, bruciate → rilascio di elettroliti, metalli e fumi;

  • i display vengono spaccati → rilascio di frammenti e, in alcuni casi, microquantità di sostanze chimiche;

  • colle, plastiche e resine → se bruciate, generano miscele complesse di composti organici volatili, alcune potenzialmente cancerogene o comunque irritanti.

3.2. Effetti sulle comunità umane

Gli impatti sulle popolazioni che vivono vicino a queste discariche (spesso in paesi a basso reddito) includono:

  • Aumento di problemi respiratori (asma, bronchiti croniche, irritazioni);

  • maggiore esposizione a metalli pesanti e sostanze tossiche presenti non solo nei liquidi, ma anche nei componenti solidi (piombo, cadmio, nichel, ecc.);

  • contaminazione di falde acquifere e suoli, con effetti a catena su cibo e acqua potabile.

Il paradosso è che i liquidi e i materiali pericolosi non danneggiano tanto chi usa l’ultimo modello di smartphone, quanto chi vive dall’altra parte del mondo e deve sopportare il peso del nostro rifiuto.


4. Impatto sistemico sulla specie umana

Se allarghiamo lo sguardo, il problema non è solo tossicologico, ma filosofico e sistemico.

4.1. La dipendenza da dispositivi chimicamente complessi

La specie umana si è resa dipendente da oggetti:

  • costruiti con materiali e processi che una singola persona non può comprendere del tutto;

  • basati su catene globali che coinvolgono miniere di litio, cobalto, nichel, raffinazione chimica, produzione di solventi, fabbriche di batterie, assemblaggio, logistica, smaltimento.

Il risultato:

  • ogni smartphone è un punto di contatto tra il nostro quotidiano e una rete planetaria di rischi, sfruttamento e inquinamento;

  • i liquidi e le sostanze al suo interno sono solo la punta dell’iceberg di un “oceano” chimico-industriale che ci circonda.

4.2. Salute mentale e dipendenza digitale

Anche se non sono “liquidi”, è interessante collegare:

  • il liquido elettrolitico che scorre nella batteria,

  • con il flusso di dopamina che scorre nel nostro cervello quando usiamo il telefono.

La combinazione di:

  • materiali potenzialmente pericolosi nel dispositivo,

  • design pensato per massimizzare il tempo di utilizzo,
    crea un circolo vizioso: produciamo sempre più smartphone, sempre più frequentemente, alimentando una catena di estrazione, produzione e rifiuti che torna a colpire la salute collettiva.


5. Cosa possiamo fare, concretamente?

5.1. A livello individuale

Come singoli utenti possiamo:

  1. Non forare, aprire o schiacciare le batterie
    Evita il fai-da-te aggressivo. Se la batteria si gonfia o il telefono scalda in modo anomalo, portalo subito in un centro assistenza o in un punto di raccolta.

  2. Usare caricabatterie certificati
    Riduce il rischio di surriscaldamento e incendio.

  3. Non dormire con lo smartphone sotto il cuscino
    Sembra banale, ma molti incendi domestici iniziano così: dispositivo che si surriscalda, batteria che soffoca termicamente, tessuti infiammabili a contatto.

  4. Smaltire sempre in isole ecologiche e centri RAEE
    Mai nel sacco dell’indifferenziata: lì diventa un problema chimico e ambientale.

5.2. A livello sociale e culturale

Qui entra in gioco il potere della comunicazione – perfetto per un blog:

  • Sensibilizzare sul “dietro le quinte” dello smartphone
    Non demonizzare la tecnologia, ma far capire che ogni dispositivo ha un “costo liquido” e chimico che qualcuno, da qualche parte, sta pagando.

  • Promuovere il right to repair e l’allungamento del ciclo di vita
    Meno smartphone prodotti = meno liquidi tossici in circolo, meno rifiuti.

  • Sostenere politiche per il riciclo sicuro
    Appoggiare (anche solo con la scelta di brand) chi investe in filiere di riciclo controllate, evitando che i nostri rifiuti finiscano in discariche clandestine.


6. Conclusione: il paradosso del liquido invisibile

Dentro lo smartphone non c’è un “mare” di liquidi che minaccia immediatamente la nostra salute ogni volta che lo tocchiamo.
Eppure, i liquidi invisibili che lo fanno funzionare – elettroliti, cristalli liquidi, solventi – raccontano una storia molto più ampia:

  • una storia di chimica avanzata al servizio della comunicazione;

  • una storia di rischi concentrati in un ciclo di vita che va dalla miniera alla discarica;

  • una storia di responsabilità collettiva, in cui ogni nostro upgrade annuale genera onde lunghe sulla salute della specie umana.

Il punto, forse, non è avere paura del liquido dentro lo smartphone, ma diventare consapevoli di tutto ciò che scorre intorno a noi per far sì che quel piccolo schermo si accenda: materiali, sostanze, vite umane.

E chiederci, ogni volta che cambiamo telefono:
quanto liquido invisibile stiamo aggiungendo al fiume della storia umana?




domenica 16 novembre 2025

Pensa più forte di quanto il mondo provi a distrarti: è così che si cambia davvero il destino.



Il Baratro Silenzioso: Perché Stiamo Smettendo di Pensare (e Perché È il Nostro Rischio Più Grande)

C’è una convinzione diffusa, sottile, quasi impercettibile: crediamo di lavorare meno, di vivere più leggeri, di essere più “smart”. Sosteniamo con naturalezza che il mondo moderno ci abbia semplificato la vita, automatizzato il superfluo, alleggerito la mente.
Eppure, proprio in questa narrativa si nasconde uno dei paradossi più pericolosi del nostro tempo: stiamo smettendo di pensare davvero, convinti di star guadagnando tempo, quando in realtà stiamo perdendo la nostra arma più potente.

L’illusione del lavoro leggero

Molti ritengono che il progresso tecnologico stia riducendo il peso del lavoro mentale. In un certo senso è vero: delegare è diventato facile, immediato. Ma più deleghiamo, più arretriamo.
Il rischio non è tanto la tecnologia in sé, quanto l’abitudine che si forma: dimenticare come ragionare, come cercare, come riflettere.
E quando la mente non viene esercitata, non diventa più leggera: diventa più fragile.

Una società che corre senza direzione

Il baratro non è fatto di catastrofi spettacolari, ma di passività invisibili.
È composto da:

  • scelte prese senza verificarle,

  • opinioni adottate senza pensarci,

  • emozioni reagite invece che comprese,

  • verità preconfezionate assorbite in silenzio.

È un baratro collettivo, dove tutti si muovono con la sensazione di essere informati, quando in realtà sono solo ben intrattenuti.

Pensare è fatica… ed è esattamente per questo che ci salva

Il pensiero critico è scomodo: mette in discussione ciò che sembra semplice, destabilizza ciò che appare stabile, chiede tempo in un’epoca che vende velocità.
Ma è anche ciò che ci permette di:

  • riconoscere manipolazioni,

  • analizzare problemi complessi,

  • immaginare soluzioni inattese,

  • comprendere le sfumature dell’umano.

La fine del mondo non è necessariamente una scena apocalittica: può essere semplicemente la perdita della nostra capacità di pensare in modo libero, profondo e autonomo.

La vera arma che abbiamo ancora

In un mondo che corre, che automatizza, che semplifica tutto, il pensiero rimane l’unico spazio non replicabile.
Le macchine possono calcolare, sintetizzare, ottimizzare.
Ma solo l’essere umano può interpretare.

Pensare significa rallentare, osservare, mettere a fuoco.
Significa non dare nulla per scontato, essere presenti, non farsi trascinare dall’inerzia.

Un invito necessario

Non serve opporsi al progresso, né abbracciare l’allarmismo. Serve ritrovare il piacere della complessità.
Guardare un fenomeno e chiedersi “Perché?”.
Leggere una notizia e domandarsi “Chi lo dice? E con quale scopo?”.
Sentire un’emozione e chiedersi “Cosa mi sta comunicando?”.

La vera rivoluzione non è tecnologica: è mentale.
E chi saprà mantenere la propria mente attiva, critica, vigile, sarà in grado non solo di evitare il baratro, ma di creare strade completamente nuove.




Un blogger non racconta il mondo: lo attraversa con le parole, aprendo sentieri dove prima c’era solo silenzio.

Blogger

Prefazione

Un viaggio nella vita di chi ha scelto di trasformare le parole in un mestiere, quando i blog erano finestre sul mondo e non semplici contenuti da scorrere. Questo libro racconta la storia di una persona che ha iniziato a scrivere per aprire nuove prospettive, prima per sé, poi per tutti.


Capitolo 1 — Le Origini

Le origini non sono mai semplici date o luoghi: sono vibrazioni, increspature interiori che chiedono spazio. Per il protagonista, tutto cominciò in una stanza piccola, un computer lento e una sensazione che non sapeva nominare: il desiderio di lasciare un segno.

All’epoca il web era una frontiera. Si esplorava senza mappe, senza aspettative, con la stessa meraviglia di chi posa il piede su una terra appena scoperta. Non esisteva ancora l’ossessione per i numeri, né l’idea di "performare": esisteva solo l’urgenza sincera di raccontare.

Ricorda con nitidezza quella prima sera. La lampada accesa, il silenzio attorno, le dita esitanti sulla tastiera. Scrivere significava mostrarsi, ma anche capirsi. Le parole uscivano lente, come se avessero bisogno di prendere confidenza con la luce.

E poi quel gesto, minuscolo e immenso allo stesso tempo: cliccare su “Pubblica”. Era come aprire una finestra verso il mondo, non sapendo se qualcuno avrebbe mai guardato dentro.

Quel primo post—breve, imperfetto, ingenuo—fu il seme di tutto ciò che sarebbe venuto dopo. Fu lì che comprese una cosa fondamentale: un blog non è un contenitore di testo, ma una casa. E lui aveva appena acceso la prima luce.


Capitolo 2 — Il Rito della Scrittura

Con il tempo, la scrittura divenne un rito. Un gesto ripetuto che non perdeva mai la sua sacralità. Ogni mattina, prima che la città si svegliasse, il protagonista si sedeva davanti al monitor con una tazza di caffè e un pensiero ancora informe che aspettava di trovare una forma.

Non era una questione di talento, né di ispirazione improvvisa. Era disciplina, ascolto, dedizione. Le parole si costruivano come argilla tra le mani: morbide all’inizio, poi sempre più definite man mano che venivano scolpite.

Il rumore dei tasti era diventato una compagnia costante. Un battito, un respiro. Era il suono della sua mente che si chiariva, che prendeva decisioni, che si raccontava senza filtri. La scrittura aveva un potere terapeutico: gli permetteva di capire ciò che provava solo dopo averlo letto.

Ogni articolo aveva un tempo preciso, una maturazione lenta. Non si pubblicava per riempire: si pubblicava per condividere qualcosa che valesse davvero. Il lettore non era un visitatore casuale, ma un ospite. E questo richiedeva attenzione, cura, rispetto.

Il protagonista aveva creato un piccolo rituale per prepararsi: chiudeva le notifiche, metteva una musica lieve in sottofondo, respirava. E poi iniziava. In quel momento, il mondo esterno cessava di esistere. Restavano lui, il testo e una promessa: essere sincero.

Questa ritualità lo teneva saldo, gli dava una direzione. Perché, col passare del tempo, comprese che scrivere non significa solo raccontare, ma ritrovare sé stessi ogni volta, parola dopo parola.


Capitolo 3 — La Comunità

La comunità era il cuore pulsante di quei primi anni. Non era un pubblico generico, né un insieme indistinto di profili: era un insieme di volti invisibili ma vivissimi, che tornavano a leggere, commentavano, dialogavano, diventavano parte della storia.

Ogni blog era un’isola, ma le isole erano unite da ponti sottili: link, citazioni, conversazioni notturne nelle sezioni commenti. Era un mondo costruito sulla reciprocità, dove la voce di uno poteva ispirare la voce di un altro, e così via, in un’eco continua.

Il protagonista iniziò a riconoscere i suoi lettori: non per nome, ma per tono. C’era chi scriveva commenti lunghi come piccole lettere, chi lasciava solo una parola, chi passava silenzioso ma con costanza. E ognuno di loro diventava parte del percorso.

In quel tempo la comunità non chiedeva perfezione, chiedeva verità. Non giudicava un refuso, non pretendeva contenuti perfetti, non misurava nulla in metriche. Cercava connessioni, idee, emozioni condivise.

Spesso il protagonista si sorprendeva a leggere i commenti più volte. Non per vanità, ma per riconoscere quanto, grazie al suo blog, si fosse creato un piccolo spazio di umanità digitale. Un’oasi, direbbe oggi.

E poi c’erano gli scambi tra blogger: post risposta, collaborazioni spontanee, discussioni che si estendevano da un blog all’altro come conversazioni tra amici seduti a tavoli diversi dello stesso caffè.

Fu in quegli anni che comprese quanto fosse prezioso tutto questo: la comunità non era solo il suo pubblico, era la sua bussola. Era ciò che gli ricordava ogni giorno perché continuare.


Capitolo 4 — Le Sfide

Con il tempo arrivarono le prime vere prove. Non erano ostacoli esterni, ma fratture interiori: giornate in cui le idee sembravano svanire, in cui la pagina bianca diventava un muro invalicabile. Il protagonista iniziò a comprendere che scrivere con costanza significa anche affrontare il silenzio.

C’erano poi le pressioni invisibili che solo chi crea conosce. Il dubbio: sto dicendo qualcosa che vale la pena leggere? La paura: e se domani non avessi più nulla da dire? E quella sensazione sottile ma persistente di dover superare se stessi a ogni nuovo articolo.

Il mondo cambiava rapidamente. Le piattaforme diventavano più veloci, più rumorose. L’attenzione dei lettori si accorciava, mentre nuove tecnologie chiedevano nuovi linguaggi. Il protagonista sentiva il bisogno di adattarsi, ma senza perdere la sua autenticità.

Ci furono momenti in cui pensò di smettere. Non perché mancasse la passione, ma perché la scrittura gli chiedeva una sincerità radicale, e questo non sempre era facile. Scrivere significava mettersi a nudo, mostrare le proprie crepe.

Eppure, proprio nelle difficoltà, scoprì una forza nuova: la capacità di rinnovarsi. Ogni blocco creativo diventava un invito a esplorare strade diverse, a reinventare il proprio stile, a trovare un ritmo nuovo.

Comprendendo che le sfide non erano il contrario del suo percorso, ma parte essenziale della sua identità da blogger, imparò a camminare accanto a esse. E ogni volta che superava un ostacolo, il blog diventava un po’ più suo.


Capitolo 5 — Aprire Nuove Prospettive

Un giorno si rese conto che il blog non era più soltanto un luogo dove raccogliere pensieri: era diventato un varco. Le sue parole, nate per dare voce ai propri dubbi e intuizioni, cominciavano a trasformarsi in finestre attraverso cui i lettori scoprivano nuovi modi di guardare la vita.

Non era sua intenzione insegnare. Non voleva guidare, né mostrarsi come un esperto. Eppure accadde naturalmente: condividendo esperienze, errori, piccole rivelazioni quotidiane, apriva spiragli che permettevano agli altri di rivedere le proprie certezze.

Molti iniziavano a scrivergli in privato. Alcuni raccontavano che un suo post li aveva aiutati a superare un momento difficile; altri dicevano che una frase aveva acceso un pensiero nuovo. Ogni messaggio era una conferma che la scrittura, quando è autentica, può muovere qualcosa negli altri.

Il protagonista cominciò a riflettere sul potere delle parole: non solo per descrivere il mondo, ma per immaginarlo diverso. Scrivere di tecnologia significava immaginare un futuro più umano; scrivere di emozioni significava creare spazi di comprensione; scrivere di quotidianità significava dare valore all’essenziale.

Così, con naturalezza, il blog divenne un laboratorio di prospettive. Un luogo dove osservare, mettere in discussione, ricostruire. Ogni articolo era un invito a guardare da un’angolazione nuova.

E forse fu proprio in quel momento che comprese il senso più profondo del suo lavoro: non produrre contenuti, ma provocare visioni.


Capitolo 6 — Il Nuovo Mondo

Gli anni scorrevano e il panorama digitale cambiava con una rapidità vertiginosa. Le piattaforme crescevano, si moltiplicavano, diventavano più immediate, più visive, più veloci. I social network prendevano il posto dei blog nelle abitudini quotidiane delle persone.

Molti abbandonarono le loro pagine personali, attratti dalla tempestività di like e notifiche. La conversazione si trasformò: da lenta e riflessiva, diventò rapida, spesso impulsiva. Il rumore aumentò, e trovare un punto di quiete diventava sempre più raro.

Il protagonista osservava tutto questo con un misto di curiosità e nostalgia. Non era contrario al cambiamento—sapeva che ogni epoca ha i propri strumenti—ma avvertiva una perdita sottile: quella profondità che solo la scrittura lunga e meditata riusciva a custodire.

Eppure non si lasciò scoraggiare. Continuò a scrivere, mantenendo il suo spazio come una bottega artigiana in un mondo di prodotti industriali. Mentre molti producevano contenuti rapidi, lui custodiva la lentezza. Mentre tutto diventava effimero, lui cercava il duraturo.

Paradossalmente, proprio in quel caos digitale, il suo blog divenne un rifugio. Un luogo dove rallentare, dove ritrovare la sincerità delle parole. I lettori che restavano lo facevano per fame di autenticità, di storie, di significato.

Il protagonista comprese allora che il "nuovo mondo" non era necessariamente un nemico, ma un terreno da abitare con consapevolezza. E che la sua voce, se rimaneva fedele a sé stessa, avrebbe continuato a trovare ascolto.

La tecnologia cambiava. Le mode cambiavano. Ma l’essenza del narrare—quella, no. E questo lo teneva saldo, come un faro in mezzo alle correnti.


Capitolo 7 — L’Eredità

Con il passare degli anni, il protagonista si accorse che il suo blog aveva lasciato un segno che andava oltre le pagine scritte. Non era un’eredità fatta di numeri o riconoscimenti, ma di tracce sottili, lasciate nella vita di chi aveva incrociato le sue parole.

C’erano lettori che lo seguivano da un decennio. Alcuni avevano iniziato a scrivere grazie a lui. Altri avevano trovato conforto nelle sue riflessioni nei momenti più fragili. E molti gli raccontavano che, anche quando i social offrivano distrazioni rapide, tornavano periodicamente al suo blog come si torna a una casa d’infanzia.

Il protagonista iniziò a rileggerlo tutto, dalla prima pagina all’ultima. Era come osservare la propria vita attraverso una lunga serie di fotografie: cambiava il tono, cambiava lo stile, cambiava lui. Eppure, in ogni parola riconosceva un filo conduttore: il desiderio di verità.

Si rese conto allora che il vero lascito di un blogger non è ciò che scrive, ma ciò che riesce ad aprire negli altri. Una domanda, un’emozione, una riflessione, un coraggio inatteso. L’eredità è uno spazio mentale che resta accessibile a chi lo ha attraversato.

Decise quindi di lasciare un messaggio ai futuri lettori, nascosto tra le righe di un ultimo post: un invito a cercare la propria voce, a non farsi inghiottire dalla fretta, a dare valore al tempo della profondità.

Perché nella scrittura—come nella vita—non conta la velocità. Conta la presenza.


Conclusione

Scrivere è ancora un atto rivoluzionario. Raccontare è ancora un modo per cambiare il mondo. E questo libro ne è la prova: un omaggio all’arte del blogging e a chi, con coraggio, continua a scegliere le parole come bussola. 



L’uncinetto è un’arte fatta di pazienza e precisione, dove ogni punto richiede attenzione ma ripaga con la magia di trasformare un semplice filo in qualcosa di unico.


L’arte dell’uncinetto: perché è così difficile… e così irresistibile

L’uncinetto è un universo di fili intrecciati, gesti ripetuti e pazienza che si trasforma in bellezza. Chiunque abbia provato almeno una volta a impugnare un gomitolo e un’asta di metallo lo sa bene: non è solo un hobby creativo, è un vero linguaggio fatto di movimenti precisi e sensibilità nelle dita. Ma perché, nonostante il suo fascino, l’uncinetto è spesso percepito come difficile?

Un’arte che chiede ritmo, non fretta

La prima barriera è il ritmo. L’uncinetto richiede un equilibrio tra concentrazione e fluidità. All’inizio i gesti appaiono rigidi, la tensione del filo cambia in continuazione, e ogni maglia sembra diversa dalla precedente. È naturale: come in tutte le arti manuali, il corpo deve memorizzare una sequenza di movimenti, trasformandola poco a poco in una danza.

La tensione del filo: il vero banco di prova

Chi si avvicina all’uncinetto spesso sottovaluta la complessità della tensione. Troppo teso, e il lavoro si arriccia; troppo morbido, e le maglie scappano. Questo controllo è un’abilità che si costruisce con l’esperienza, come l’intonazione per un cantante o il tratto per un illustratore. Serve ascolto: del filo, delle mani, del proprio respiro.

La geometria nascosta dietro ogni creazione

L’uncinetto è molto più matematico di quanto sembri. Aumenti, diminuzioni, forme tridimensionali: tutto segue regole precise. Comprenderle richiede un po’ di studio e un pizzico di immaginazione spaziale. Ma è proprio qui che l’arte prende vita: da un filo nasce una struttura che ha volume, equilibrio, armonia.

La bellezza dell’errore

Partiamo da una certezza: sbagliare è inevitabile. La buona notizia? È anche il modo migliore per imparare. Ogni errore aiuta a capire cosa non funziona, a riconoscere il momento in cui la mano si è distratta, a sviluppare un rapporto più naturale con lo strumento. È un processo di crescita continuo che rende l’uncinetto profondamente umano.

Un’arte antica che parla al presente

Oggi l’uncinetto vive una nuova primavera. Non è solo tradizione: è meditazione attiva, è lentezza scelta, è terapia creativa. In un mondo che corre, fermarsi per intrecciare maglie è una dichiarazione d’intenti. È il piacere di creare qualcosa che non nasce da un clic, ma da un gesto ripetuto che dà forma alle idee.

La soddisfazione che ripaga ogni difficoltà

Sì, l’uncinetto può essere difficile. Ma è una difficoltà che insegna, rilassa, arricchisce. Ogni progetto finito porta con sé la storia di tutte le sue maglie, del tempo dedicato, della cura messa in ogni passaggio. E quando finalmente si osserva il risultato — un cappello, un centrino, una coperta, un amigurumi — la complessità lascia spazio a un orgoglio semplice e autentico.




Mediaset non è stata solo televisione, ma una leva di potere capace di trasformare la visibilità in fiducia, le aziende in marchi e il lavoro invisibile dietro le quinte in un’influenza che ha segnato un’epoca.

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