Ti propongo un vero “spazio fisso” di analisi sul blog: un articolo–manifesto da cui far partire una serie di pezzi sulla programmazione dello Stato (italiano) e sul perché sembra arrancare rispetto ad altri Paesi.
Titolo proposto
“Programmazione di Stato: perché l’Italia è rimasta indietro (e come può recuperare)”
Introduzione: un Paese “reattivo”, mai davvero “proattivo”
L’Italia non è un Paese fermo: spende molto, legifera continuamente, annuncia piani, riforme, strategie. Eppure la sensazione diffusa – nei cittadini, nelle imprese e persino negli osservatori internazionali – è che la programmazione di lungo periodo non tenga il passo di quella di altri Stati.
Lo vediamo nella transizione digitale, nella capacità di fare ricerca, nell’uso dell’intelligenza artificiale, nella gestione di scuola, sanità, infrastrutture. Non è tanto un problema di singoli governi, ma di cultura della programmazione: cicli politici brevi, orizzonte corto, progetti spezzettati, poca valutazione dei risultati.
In questo articolo apro uno spazio dedicato proprio a questo: capire come programma lo Stato italiano, in che cosa è rimasto a terra e cosa possiamo imparare da chi oggi corre più veloce.
1. Digitale: quando il futuro arriva e noi siamo ancora in coda
Partiamo dal digitale, perché è il terreno dove il ritardo si vede meglio.
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Nei rapporti europei sulla digitalizzazione, per anni l’Italia è stata nella parte bassa della classifica UE, soprattutto sul fronte delle competenze digitali dei cittadini e dell’uso avanzato del digitale da parte della PA.(Astrid)
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Nel Digital Decade Report 2024 la Commissione rileva che i servizi pubblici digitali italiani per i cittadini restano sotto la media UE (68,3 contro 79,4), così come quelli per le imprese (76,3 contro 85,4).(img.corrierecomunicazioni.it)
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Secondo ISTAT, nel 2024 solo l’8% delle imprese italiane utilizza l’intelligenza artificiale, contro il 20% della Germania, e appena il 45,8% della popolazione adulta possiede competenze digitali di base (media UE: 55,5%; obiettivo UE 2030: 80%).(Reuters)
Qui il punto non è solo “usiamo poco l’AI”, ma come siamo arrivati fin qui:
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incentivi a pioggia e bandi difficili da interpretare,
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progetti nazionali che cambiano nome e struttura a ogni governo,
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scarso coordinamento tra livelli di governo (Stato–Regioni–Comuni).
Altri Paesi hanno fatto il contrario: pochi piani, molto chiari, stabili nel tempo, forti investimenti in competenze digitali a partire dalla scuola, e una narrativa pubblica che fa della trasformazione digitale un obiettivo condiviso, non una moda del momento.
2. Ricerca, innovazione, cervelli: la programmazione che spinge a partire
La programmazione di uno Stato si misura anche da quanto investe sul futuro, non solo su stipendi, pensioni e spesa corrente.
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In Italia, l’intensità di ricerca (spesa in R&S sul PIL) si è attestata intorno all’1,5%, a fronte di una media UE che supera il 2,2%.(European Commission)
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Questo gap si traduce in meno brevetti, minore innovazione e, soprattutto, meno opportunità di lavoro qualificato per i giovani.
Non stupisce che, secondo ISTAT, migliaia di laureati giovani continuino a lasciare il Paese ogni anno: solo nel 2023 sono emigrati circa 21.000 laureati tra i 25 e i 34 anni, con una perdita netta di quasi 100.000 giovani professionisti in un decennio.(Reuters)
Qui la programmazione dello Stato mostra tre limiti strutturali:
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Visione corta
I fondi per ricerca e innovazione spesso dipendono da finestre temporali (fondi europei, PNRR, progetti straordinari) senza una traiettoria decennale chiara. -
Frammentazione estrema
Bandi con criteri diversi, scadenze non coordinate, regole che cambiano in corsa. Per un giovane ricercatore o per una PMI innovativa, partecipare diventa un lavoro a tempo pieno. -
Assenza di un “patto generazionale”
Altri Paesi legano le politiche di ricerca a una visione: tenere i talenti, attrarne di nuovi, creare ecosistemi (università–impresa–startup). In Italia, la percezione diffusa è che lo Stato arrivi in ritardo e con strumenti spesso poco adatti alla realtà di chi fa innovazione.
3. Scuola e competenze: se programmi male l’educazione, programmi male il futuro
Le scelte sulla scuola sono forse l’ambito di programmazione più delicato.
I dati PISA 2022 ci dicono che gli studenti italiani:
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vanno vicino alla media OCSE in matematica,
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risultano sopra la media in lettura,
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ma sotto la media in scienze.(GPS dell'Educazione OECD)
La fotografia non è drammatica, ma il problema è altrove:
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riforme scolastiche continue, poco coordinate, raramente accompagnate da seri investimenti sull’aggiornamento dei docenti;
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tempi lunghi tra l’annuncio e la reale implementazione delle riforme;
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collegamento spesso debole tra scuola, università e mondo del lavoro.
In sintesi: programmiamo la scuola per l’oggi, non per il mondo che arriva.
Nel frattempo, Paesi come Finlandia, Estonia, Singapore – ma anche alcune realtà europee più vicine a noi – lavorano su curricoli che integrano:
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pensiero critico,
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competenze digitali e scientifiche avanzate,
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educazione civica e alla cittadinanza digitale,
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orientamento già nei primi anni delle superiori.
Il risultato è che chi cresce lì entra in un mondo del lavoro preparato alla complessità. Chi cresce qui spesso è costretto ad aggiornarsi da solo, a proprie spese, dopo il percorso di studi.
4. Stato che spende tanto, ma programma come?
Un paradosso: l’Italia non è uno Stato che spende poco.
Secondo i dati OCSE, nel 2023 la spesa pubblica italiana ha toccato il 54% del PIL, ben oltre la media OCSE del 42,6%.(OECD)
Il problema quindi non è solo “quanti soldi”, ma come questi soldi vengono programmati e allocati:
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molte risorse asservite a spesa corrente,
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margini stretti per gli investimenti di lungo periodo,
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progetti pluriennali che cambiano forma e priorità a ogni manovra,
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poca trasparenza e monitoraggio dei risultati.
Anche sul fronte della finanza pubblica, i recenti miglioramenti nel deficit – con un calo dal 7,2% del PIL nel 2023 al 3,4% nel 2024 – sono stati letti da diversi analisti come successi più contabili che strutturali, legati soprattutto ai fondi europei post-pandemia e non a una reale modernizzazione del Paese.(Reuters)
Questo è il cuore del problema: programmazione statale spesso orientata alle scadenze europee, ai vincoli di bilancio, alla gestione dell’emergenza, più che alla costruzione paziente di un modello di sviluppo.
5. Perché altri Stati corrono (e noi inciampiamo)
Quando confrontiamo l’Italia con altri Paesi, vediamo alcuni elementi ricorrenti che altrove funzionano meglio:
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Stabilità degli obiettivi
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Pochi target, chiari, condivisi a livello politico e sociale.
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Maggiore continuità tra governi su alcuni dossier strategici (digitale, scuola, energia).
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Politiche basate sui dati
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Monitoraggio sistematico dei risultati.
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Correzione delle politiche in base a evidenze, e non solo a slogan o equilibri di maggioranza.
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Semplificazione vera
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Meno livelli decisionali, meno burocrazia, timeline chiare per autorizzazioni e bandi.
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PA digitali non solo come vetrina, ma come infrastruttura logica che rende più facile agire.
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Centralità delle competenze
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Investimenti massicci in formazione continua (non solo scuola e università, ma anche adulti).
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Incentivi a trattenere e attrarre talenti, invece che costringerli all’export forzato.
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L’Italia, al contrario, appare spesso brava nei documenti programmatici, nelle linee guida, nei piani nazionali, ma molto meno nella traduzione operativa.
6. Uno spazio fisso nel blog: “Laboratorio di Programmazione Pubblica”
Per trasformare questo articolo in un vero punto di partenza, puoi aprire sul blog una rubrica dedicata, ad esempio:
Rubrica: Laboratorio di Programmazione Pubblica
In questo spazio puoi:
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Scomporre i grandi piani dello Stato (PNRR, piani digitali, riforme scuola, sanità, ecc.) in articoli chiari e leggibili.
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Mettere a confronto l’Italia con altri Paesi su singoli temi:
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competenze digitali,
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ricerca e università,
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politiche giovanili,
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gestione delle città e dei territori.
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Raccontare storie concrete:
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un ricercatore che parte,
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un imprenditore che rinuncia a un bando,
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un docente che prova a innovare nella scuola.
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Ogni articolo può seguire uno schema fisso:
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Il tema (es. “AI nelle imprese italiane”).
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Cosa dicono i dati.
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Cosa fanno gli altri Paesi.
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Dove si inceppa la programmazione dello Stato.
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Tre leve realistiche di cambiamento.
7. Conclusione: dallo Stato che insegue allo Stato che prepara
Dire che “la programmazione dello Stato è rimasta a terra” non significa rassegnarsi a un’Italia irrimediabilmente in ritardo. Vuol dire, al contrario, riconoscere che:
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senza una cultura della programmazione di lungo periodo, nessuna riforma regge;
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senza dati, trasparenza e valutazione, la politica resta ostaggio dell’annuncio;
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senza investimenti seri in competenze, ricerca e innovazione, il Paese si consuma nel mantenere l’esistente.
Questo spazio sul blog può diventare un piccolo osservatorio indipendente: non per demolire tutto, ma per analizzare, confrontare, spiegare – e ricordare che la vera modernità non è avere l’ultima app sul telefono, ma uno Stato che programmi davvero il futuro dei suoi cittadini.
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