lunedì 1 dicembre 2025

«La politica in Italia è crollata nel momento in cui ha smesso di rappresentare il popolo e ha cominciato a inventare poltrone per chi non le meritava.»

 La politica italiana è caduta molto prima dei governi

è caduta quando ha cominciato a creare spazi finti per persone sbagliate.

Non è solo una sensazione: i numeri parlano chiaro. Alle politiche del 2022 ha votato solo il 63,9% degli aventi diritto, il dato più basso della storia repubblicana. Alle Europee del 2024 si è scesi per la prima volta sotto il 50%: ha votato appena il 48,3% degli italiani. (Giulio Cavalli)
Nel frattempo, oltre la metà dei cittadini è convinta che la corruzione politica sia rimasta sostanzialmente invariata dai tempi di Tangentopoli. (La Stampa)

In questo articolo ti porto dentro un’idea scomoda ma necessaria:
la crisi della politica italiana come effetto di una lunga serie di spazi inventati, poltrone create, carriere costruite per chi non aveva alcun merito reale se non la fedeltà al capo giusto.


1. Cosa significa “spazi inesistenti” in politica

Quando parliamo di “spazi inesistenti” non parliamo solo di posti di lavoro.
Parliamo di:

  • poltrone create ad hoc: nuove authority, comitati, task force, sottosegretariati, cabine di regia nate più per sistemare qualcuno che per risolvere un problema;

  • nomine senza competenza: ruoli chiave affidati a persone senza un vero curriculum nel settore, ma con il curriculum giusto nel partito;

  • consulenze, staff, portavoce, incarichi speciali: cerchi ristretti che diventano ammortizzatori di carriera per fedelissimi;

  • liste bloccate e candidature “paracadutate”: persone sconosciute ai territori, ma vicine ai vertici, catapultate in collegi sicuri.

Sono spazi che non esisterebbero in un ecosistema meritocratico.
Esistono perché la politica ha scelto di premiare chi garantisce consenso e obbedienza, non chi porta visione, competenza e responsabilità.


2. Come si costruisce una classe dirigente che non merita

La caduta non avviene in un giorno. È un processo lento, quasi invisibile:

  1. La fedeltà sostituisce la competenza
    Il criterio diventa: “Mi coprirà le spalle?”, non “Sa fare il suo lavoro?”.
    Nei partiti, chi è allineato sale, chi critica o pensa in modo autonomo viene messo ai margini.

  2. La cooptazione sostituisce la selezione
    Non esistono più percorsi chiari: non sali perché hai studiato, amministrato bene, risolto problemi.
    Sali perché qualcuno ti “prende sotto la sua ala” e ti porta dentro.

  3. Il partito diventa un ufficio di collocamento
    Dovrebbe essere un laboratorio di idee, identità, progetto Paese.
    Diventa invece un luogo dove si distribuiscono posti, contratti, incarichi, visibilità. Chi resta fuori, spesso, è proprio chi avrebbe qualcosa da dire.

  4. Il linguaggio cambia: dalla visione alla gestione della paura
    Niente più grandi progetti collettivi.
    Si governa a colpi di emergenze, bonus, slogan: tutto a breve termine, purché si tenga insieme il proprio blocco di fedeltà.

Tangentopoli negli anni ’90 ha segnato una rottura storica, mostrando quanto un sistema di scambi e clientelismo potesse corrodere dall’interno le istituzioni. Ma molti studi ricordano che, anziché chiudere una stagione, ha semplicemente mutato le forme della corruzione e del potere, aprendo la strada a nuovi attori ma con vecchie logiche. (SIEP)


3. I dati della sfiducia: un Paese che guarda, ma non crede più

Questa occupazione di spazi da parte di “non meritevoli” ha un costo enorme: la fiducia.

Alcuni segnali chiari:

  • Astensionismo crescente

    • Politiche 2018: affluenza intorno al 73%.

    • Politiche 2022: 63,9%, minimo storico. (Giulio Cavalli)

    • Europee 2024: per la prima volta sotto il 50%, ha votato il 48,3% degli aventi diritto. (L'Espresso)

  • Percezione della corruzione immobile
    Un sondaggio mostrava come oltre il 56% degli italiani ritenga che, rispetto a 10 anni fa, la corruzione politica sia rimasta invariata e molto diffusa: per molti, “Tangentopoli non è mai finita”. (La Stampa)

  • Partecipazione politica impoverita
    Secondo un recente focus ISTAT, l’Italia si colloca tra i Paesi con i livelli più bassi di partecipazione politica attiva: cala chi si informa regolarmente, chi partecipa a riunioni, chi si iscrive a partiti e associazioni. (Istat)
    Molti cittadini parlano di politica, ma sempre di più da spettatori scontenti, non da protagonisti. (Il Mulino)

In parallelo, diverse analisi descrivono l’astensionismo come una vera e propria “patologia democratica”: una democrazia che perde il legame con la sua base sociale, dove la partecipazione diventa un privilegio di chi ha tempo, competenze e reti, mentre gli altri vengono spinti ai margini. (CRS - Centro per la Riforma dello Stato)


4. Quando la rappresentanza si svuota

Se gli spazi vengono riempiti da chi non merita, accadono almeno quattro cose:

  1. La politica non rappresenta più il Paese reale
    Tantissime storie di vita – precari, periferie, giovani, lavoratori autonomi, caregivers, piccoli imprenditori – non trovano voce.
    In Parlamento e nei luoghi decisionali arrivano spesso profili che non hanno mai vissuto sul serio quelle condizioni.

  2. Le decisioni si fanno corte di respiro
    Chi è lì per fedeltà, non per visione, non ha interesse a costruire politiche strutturali.
    Conta il ciclo di notizie della settimana, il sondaggio del mese, il consenso immediato.
    Risultato: riforme zoppe, annunci fragili, continui “decreti emergenziali”.

  3. La sfiducia diventa cinismo strutturale
    Le persone smettono di indignarsi e iniziano a ridere amaramente:
    “Sono tutti uguali”, “Tanto non cambia niente”, “Meglio non votare”.
    È il terreno perfetto perché chi occupa spazi immeritati continui a farlo indisturbato.

  4. Il conflitto si sposta sui social
    La piazza reale si svuota, si riempie quella digitale: commenti, sfoghi, insulti, polarizzazione.
    Ma la decisione vera resta altrove, in stanze dove siedono spesso le stesse figure poco competenti, protette dalla bassa partecipazione.


5. “Non meritano”: uno sguardo più preciso su questa frase

Dire “non meritano” è forte, e rischia di sembrare un giudizio sulle persone in quanto tali.
Per non scivolare nell’odio, è fondamentale precisare cosa significa davvero:

  • Non significa che certe persone non valgono “come esseri umani”.

  • Significa che non sono adeguate al ruolo che occupano, per mancanza di:

    • competenze tecniche;

    • etica pubblica;

    • senso del limite e della responsabilità;

    • capacità di rispondere delle proprie scelte davanti ai cittadini.

In una democrazia sana, quando non sei adeguato al ruolo, non entri o sei sostituito.
In una democrazia che ha creato spazi inesistenti, invece:

  • entri perché conosci qualcuno;

  • resti perché sei utile al sistema, non ai cittadini;

  • vieni difeso non per ciò che fai, ma per il potere che porti in dote.

La caduta della politica italiana, in questo senso, è prima di tutto una caduta di criteri: non è più chiaro perché una persona occupi un certo spazio istituzionale, se non per una catena di fedeltà.


6. Il ruolo dell’informazione: senza luce, gli spazi si deformano

Quando l’informazione è debole, precaria o sotto pressione, gli spazi deformati della politica proliferano.
Non è un caso che, proprio di recente, il sistema italiano abbia vissuto perfino un “quasi blackout informativo” dovuto a una grande mobilitazione dei giornalisti contro precarietà e mancato rinnovo dei contratti, con il rischio concreto di lasciare i cittadini senza un racconto aggiornato di ciò che accade nel Paese. (El País)

Una politica che crea spazi per non meritevoli ha bisogno di:

  • informazione stanca o frammentata;

  • dibattito pubblico rumoroso ma superficiale;

  • cittadini intrattenuti ma non davvero informati.

Per questo, il tema della qualità dell’informazione è profondamente politico:
chi controlla la luce, controlla anche la percezione degli spazi.


7. Si può invertire questa caduta?

Qui non si tratta di dire “vota questo” o “vota quello”.
Parliamo di qualcosa di più profondo: ricostruire il legame tra spazi di potere e persone che li meritano davvero.

Alcune leve possibili (a livello di sistema):

  • Selezione più trasparente nelle candidature
    Primarie vere, percorsi interni chiari, criteri minimi di competenza per ruoli tecnici.
    Non basterà, ma senza questo tutto il resto è maquillage.

  • Limiti e regole sulle nomine
    Procedure pubbliche, criteri espliciti, audizioni aperte per ruoli chiave (authority, aziende partecipate, grandi enti).

  • Valutazione delle performance
    Non solo “chi ha preso più voti”, ma chi ha rispettato programmi, tempi, obiettivi misurabili.

  • Partiti come scuole, non come agenzie di collocamento
    Formazione politica vera, lavoro nelle periferie, ascolto continuo, spazi di confronto interni dove il dissenso non sia punito ma usato per migliorare.

E, a livello di cittadini:

  • Informarsi in modo critico (non solo tramite social o slogan);

  • Partecipare: associazioni, comitati, movimenti, sindacati, amministrazione locale;

  • Fare pressione continua: non solo il giorno del voto, ma lungo tutto il ciclo delle decisioni.

Non è una soluzione facile né rapida.
Ma la verità è questa: finché la politica potrà creare spazi inesistenti per persone non all’altezza, continuerà a cadere, anche quando i sondaggi la danno in crescita.


8. Conclusione: riprenderci lo spazio che esiste davvero

Lo spazio più importante oggi non è una poltrona, ma il terreno invisibile tra cittadini e istituzioni.
È lì che si decide se una democrazia regge o crolla.

La politica italiana è caduta ogni volta che:

  • ha chiamato “merito” la fedeltà;

  • ha chiamato “opportunità” il clientelismo;

  • ha chiamato “rappresentanza” la semplice occupazione di posti.

Raccontare questa caduta non serve a sfogarsi e basta.
Serve a ricordare che gli spazi veri esistono ancora: quelli in cui si studia, si critica, si propone, si costruisce insieme.

Se torniamo a occuparli, con le nostre voci, competenze e responsabilità,
gli spazi finti inizieranno a sembrare per quello che sono sempre stati:
scatole vuote, che non reggono alla luce.



“Stiamo barattando la nostra umanità con uno schermo, una siringa di bellezza e un piatto troppo pieno, e non ci accorgiamo che più riempiamo le mani, più svuotiamo l’anima.”

 

Stiamo davvero “evolvendo”?
Come smartphone, corpi filtrati e tavolate infinite stanno logorando l’umanità

Per la prima volta nella storia, abbiamo in tasca più potere di quanto ne avesse un’intera civiltà qualche decennio fa. Possiamo parlare con chiunque, vedere qualsiasi cosa, comprare tutto, modificare il nostro volto, il nostro corpo, perfino la percezione che gli altri hanno di noi.

Eppure, dietro questa vetrina luccicante, c’è una verità scomoda: stiamo contribuendo attivamente alla rovina della nostra stessa specie, non con bombe o catastrofi improvvise, ma con micro-scelte quotidiane che sommate creano un disastro silenzioso.

In questo articolo entriamo nel cuore di tre pilastri del problema:

  1. Lo smartphone come protesi mentale

  2. L’estetica modificata a colpi di sieri “miracolosi” e filtri

  3. Le abbuffate ai tavoli importanti: il teatro del potere e dell’eccesso


1. Lo smartphone: non è più uno strumento, è una dipendenza riconosciuta

Abbiamo normalizzato qualcosa che, se lo guardassimo dall’esterno, ci apparirebbe inquietante: milioni di esseri umani che passano ore ogni giorno a fissare un rettangolo luminoso.

  • Lo consultiamo appena apriamo gli occhi.

  • Lo tocchiamo prima ancora di salutare chi vive con noi.

  • Lo controlliamo compulsivamente anche quando non c’è nessuna notifica.

Non è più comunicazione: è condizionamento.

Effetti reali (e devastanti) che fingiamo di non vedere

  • Attenzione frammentata: il cervello si abitua a contenuti da pochi secondi. Approfondire, leggere, studiare, riflettere diventa faticoso.

  • Dipendenza dall’approvazione: like, cuori, visualizzazioni diventano la nuova unità di misura del nostro valore.

  • Isolamento travestito da connessione: abbiamo migliaia di contatti, ma sempre meno relazioni vere.

  • Perdita di contatto con il corpo e il presente: non sappiamo più annoiarci, aspettare, camminare senza uno schermo in mano.

Il paradosso è assurdo: abbiamo creato uno strumento che doveva liberarci, e invece ci tiene in ostaggio.

E mentre pensiamo di “scegliere” i contenuti, un algoritmo, invisibile e impersonale, decide cosa farci vedere, cosa farci desiderare, cosa farci temere.


2. L’estetica modificata: il corpo come prodotto da ottimizzare

Creme miracolose, sieri rivoluzionari, ritocchini “leggeri”, filtri che ti cambiano il viso in tempo reale: siamo entrati nell’era in cui non esistiamo più così come siamo, ma solo come veniamo presentati.

Non ci basta essere vivi: vogliamo essere vendibili.

L’industria dell’insicurezza

Per convincerti a comprare, prima devono farti sentire sbagliato.

E allora:

  • Una ruga diventa un problema.

  • Una pancia morbida diventa un fallimento personale.

  • Un viso “normale” diventa “non abbastanza fotogenico”.

La narrazione è chiara:

“Così come sei non vai bene. Ma se compri questo, se fai questo trattamento, se ti adegui a questo standard… forse sarai accettato.”

Il risultato? Una generazione che:

  • ha paura di mostrarsi senza filtro;

  • si giudica duramente allo specchio;

  • si confronta in continuazione con immagini ritoccate e irraggiungibili;

  • misura la propria autostima in funzione di come appare, non di chi è.

Stiamo trasformando il corpo in un progetto perenne, mai concluso, mai soddisfacente.
E mentre ci concentriamo ossessivamente sull’involucro, l’interiorità – mente, cuore, anima, chiamala come vuoi – viene lasciata all’abbandono.


3. Abbuffate ai tavoli importanti: l’eccesso come status, lo spreco come normalità

C’è poi un altro teatro, meno discusso ma altrettanto simbolico: quello dei tavoli importanti, delle cene di lusso, dei buffet infiniti, dei meeting dove il cibo è scenografia del potere.

Piatti su piatti, portate su portate, calici, degustazioni, assaggi, sprechi.
Il messaggio è sottile ma chiarissimo:

“Conta chi può esagerare senza pensare alle conseguenze.”

In un mondo in cui una parte dell’umanità non ha accesso al cibo, l’altra si vanta di quanto può permettersi di buttare.

Non è solo questione di dieta o di salute fisica: è un problema etico e simbolico.

  • Mangiare fino a stare male.

  • Fotografare il piatto e non godersi il momento.

  • Usare il cibo come status, non come nutrimento.

La tavola, che potrebbe essere un luogo di connessione, diventa:

  • palcoscenico di apparenza;

  • distrazione da vuoti interiori;

  • anestetico emotivo (“mangio per non sentire”).


Il filo invisibile che unisce tutto questo

Smartphone, estetica modificata, abbuffate di cibo e di status: sembrano temi diversi, ma in realtà sono facce della stessa medaglia.

Tutto porta verso un’unica grande illusione:

“Non sei abbastanza. Ti manca qualcosa. Devi comprare, modificare, mostrare, accumulare per valere.”

E così:

  • non abbiamo più tempo per pensare;

  • non abbiamo più coraggio di mostrarci imperfetti;

  • non abbiamo più spazio per sentire davvero.

La vera rovina non è un’esplosione improvvisa, ma una disconnessione progressiva:

  • dall’altro (relazioni vere sostituite da interazioni superficiali);

  • dal proprio corpo (usato come oggetto, mai ascoltato);

  • dalla natura (vista come sfondo, non come casa);

  • da sé stessi (non sappiamo più chi siamo, solo come appariamo).


Ma allora siamo spacciati? No. Però dobbiamo smettere di raccontarcela.

Continuare a dire “è normale”, “lo fanno tutti”, “è il progresso” è il modo più veloce per accompagnare silenziosamente la nostra stessa decadenza.

Non abbiamo bisogno di diventare eremiti, né di distruggere la tecnologia o demonizzare ogni crema e ogni cena.

Ma abbiamo disperatamente bisogno di consapevolezza.

Cosa possiamo iniziare a fare, concretamente

  • Ridare un ruolo allo smartphone
    Non è un’estensione del nostro corpo. È un oggetto. Posalo. Imposta tempi, spazi senza schermo, passeggiate senza cuffie, momenti di noia volontaria.

  • Riappropriarci del corpo reale
    Guardarsi allo specchio senza filtro, imparare a prendersi cura di sé senza inseguire modelli impossibili. Chiedersi: “Questa cosa la faccio per me o per farmi approvare?”

  • Restituire sacralità al cibo e alla tavola
    Mangiare meno ma meglio. Essere presenti. Non trasformare ogni pasto in un contenuto. Ricordarsi che ogni piatto ha una storia, un costo umano e ambientale.

  • Allenare la profondità
    Leggere, contemplare, camminare, stare in silenzio, scrivere. Fare cose che non generano like ma radici.


Conclusione: la rovina non è inevitabile, ma è già iniziata

Il mondo, così com’è impostato, ci spinge verso una forma di auto-distruzione dolce: non ce ne accorgiamo perché tutto è presentato come comodo, bello, desiderabile.

Sta a noi scegliere se continuare a partecipare a questa recita o iniziare a sabotarla dall’interno, con piccoli gesti quotidiani.

Ogni volta che:

  • scegli di guardare il cielo invece dello schermo;

  • accetti una ruga invece di odiarla;

  • ti siedi a tavola per nutrirti, non per esibirti;

stai facendo qualcosa di enorme: stai interrompendo, anche solo per un istante, il meccanismo che sta logorando l’umanità.

La rovina non arriva da fuori.
La stiamo producendo noi, un tap, un filtro, un piatto alla volta.

E, per la stessa logica, possiamo anche essere noi a invertire la rotta.



sabato 29 novembre 2025

“Quando l’aiuto diventa ricatto, la disabilità non è più nel corpo, ma nella libertà che qualcuno ti ruba a poco a poco.”

 

Quando il “prendersi cura” diventa un gioco sporco:
le manipolazioni mentali sulle persone con disabilità motorie

“Se non fosse per me, tu non potresti fare nulla. Quindi è giusto che decida io.”

Dietro frasi come questa non c’è amore. C’è potere.
E quando il potere incontra una persona fragile, magari con difficoltà motorie o invalida, può trasformarsi in una vera e propria gabbia psicologica.

In questo articolo ti porto dentro il “gioco delle manipolazioni mentali” rivolte alle persone con disabilità, smontandolo pezzo per pezzo: dinamiche, trucchi più usati, conseguenze profonde e – soprattutto – cosa si può fare per difendersi, sia come persona coinvolta sia come familiare, operatore o semplice alleato.


1. Cos’è davvero la manipolazione mentale?

Non è semplice “influenza” o “persuasione”.
La manipolazione mentale è un uso intenzionale di parole, silenzi, gesti e situazioni per piegare la volontà di qualcuno a proprio vantaggio, senza rispettarne la libertà.

Caratteristiche tipiche:

  • c’è sempre una differenza di potere (fisico, economico, emotivo, sociale)

  • il manipolatore non è trasparente: dice una cosa, ne vuole un’altra

  • la persona manipolata finisce per dubitare di sé, dei propri bisogni e della propria percezione

Nel caso di persone con disabilità motorie o invalidità, questa dinamica si amplifica, perché spesso dipendono da altri per:

  • spostarsi

  • lavarsi, vestirsi, mangiare

  • gestire documenti, soldi, pratiche burocratiche

  • avere accesso ai luoghi, alle attività, alla socialità

Questa dipendenza materiale può diventare – se usata male – una leva potentissima sul piano mentale ed emotivo.


2. Perché le persone con disabilità sono più esposte alla manipolazione

Non perché “più deboli” dentro, ma perché vivono in un sistema che spesso le rende vulnerabili.

Ecco alcune condizioni che aprono la porta alle manipolazioni:

2.1 Dipendenza pratica da un caregiver

Chi ti lava, ti sposta, ti porta in bagno, spesso è anche chi:

  • decide quando puoi uscire

  • controlla chi puoi vedere

  • gestisce eventuali soldi o documenti

Questo crea una realtà non detta:

“Se lo contraddico, rischio di perdermi l’aiuto. E io dipendo da quell’aiuto.”

Il manipolatore lo sa, e può usare questa dipendenza come minaccia implicita.


2.2 Isolamento sociale

Molte persone con difficoltà motorie:

  • escono meno di casa

  • incontrano meno persone nuove

  • si appoggiano a pochi riferimenti stabili

L’isolamento è uno dei terreni preferiti dai manipolatori:
meno contatti hai, meno confronti hai.
E senza confronto, è più facile credere che:

  • “forse esagero”

  • “sono io il problema”

  • “in fondo mi vuole bene, è solo fatto così”


2.3 Senso di colpa e “peso” percepito

A volte la società bombardando con l’idea che la persona disabile sia un “peso”, crea una ferita interna:

“Dò fastidio, costo, complico la vita agli altri.”

Un manipolatore trasforma questa ferita in uno strumento di controllo:

  • “Con tutto quello che faccio per te…”

  • “Ti rendi conto di quanto mi stanchi?”

  • “Dovresti ringraziarmi, non lamentarti.”

Queste frasi spostano il fuoco: non si parla più di ciò che è giusto o sbagliato, ma di quanto la persona disabile si “permette” di esigere.


3. Le forme più subdole di manipolazione mentale in questo contesto

Vediamole in modo chiaro, una per una.

3.1 Gaslighting: farti dubitare della tua realtà

Il gaslighting è la manipolazione che ti fa chiedere:
“Sto impazzendo?”

Esempi tipici:

  • Negare fatti evidenti:
    “Non ti ho mai detto così, te lo sei inventato.”

  • Minimizzare episodi gravi:
    “Ma era solo uno scherzo, sei tu che sei troppo sensibile.”

  • Girare la frittata:
    “Se ti alzi nervoso è colpa tua, io non ho fatto nulla.”

Su una persona già in difficoltà, magari con paura di pesare sugli altri, l’effetto è devastante:
inizia a fidarsi più di chi la manipola che di se stessa.


3.2 Ricatto affettivo travestito da “cura”

Qui il messaggio è:

“Se non fai come dico io, ti faccio mancare affetto, presenza o aiuto.”

Frasi come:

  • “Dopo tutto quello che faccio, potresti almeno non discutere.”

  • “Se continui così, vedi che non ti accompagno più da nessuna parte.”

  • “Ti vedo solo io, gli altri ti hanno già abbandonato… ricordalo.”

In apparenza c’è cura, in profondità c’è controllo.


3.3 Infantlizzazione: trattarti come un bambino

Succede quando ti parlano di te davanti ad altri, come se tu non fossi presente o fossi incapace di capire:

  • “Lui è bravo, eh, ma quando fa i capricci… lasciamo stare.”

  • “Non si preoccupi dottore, con lui ci penso io.”

Oppure quando:

  • non ti vengono spiegate le decisioni che ti riguardano

  • ti si parla con tono e parole che useresti con un bimbo di 3 anni

  • ogni tua opinione viene archiviata come “fantasia” o “fase”

Questo non è “protezione”: è annullamento della tua identità adulta.


3.4 Controllo economico e burocratico

Chi controlla:

  • pensione di invalidità

  • bonus, indennità, rimborsi

  • documenti, deleghe, firme

ha in mano un potere enorme.

Manipolazioni possibili:

  • “Ti gestisco io i soldi, tu non sei in grado.”

  • “Non preoccuparti di queste cose complicate, sono io che decido.”

  • “Se mi fai arrabbiare, la prossima domanda non la faccio.”

Questo può portare la persona a non avere più accesso reale ai propri mezzi, pur essendone formalmente titolare.


3.5 “Nessuno ti crederà”

Altra carta tipica del manipolatore:

  • “Chi vuoi che ti stia a sentire?”

  • “Con la tua situazione, penseranno che sei confuso.”

  • “Se lo dici in giro, faccio vedere io chi credono.”

La persona disabile viene così convinta di non avere voce, di essere vulnerabile anche sul piano della credibilità sociale.


4. Le conseguenze profonde: molto oltre il “malessere”

La manipolazione mentale non lascia lividi, ma lascia:

  • crollo dell’autostima

  • ansia costante, paura di sbagliare, ipervigilanza

  • senso di colpa patologico (“sono io a farlo arrabbiare”)

  • difficoltà a prendere decisioni autonome

  • vergogna nel chiedere aiuto (“magari esagero”)

  • in alcuni casi, sintomi depressivi o dissociativi

Per una persona che ha già una battaglia fisica quotidiana, aggiungere anche questo peso psicologico significa logorare lentamente il suo diritto a esistere con dignità.


5. Come riconoscere che sei (o qualcuno è) dentro questo “gioco sporco”

Non servono diagnosi da esperto: ci sono campanelli d’allarme concreti.

Fai attenzione se:

  • ti senti obbligato a ringraziare anche quando subisci mancanze di rispetto

  • ti accorgi che prima di parlare ti chiedi: “Si offenderà? Mi punirà?”

  • ti senti in colpa ogni volta che chiedi qualcosa che è un tuo diritto (uscire, cambiare orario, vedere qualcuno)

  • chi si prende cura di te:

    • ti isola dagli altri

    • parla male degli altri che ti vogliono bene

    • pretende riconoscenza eterna

  • ogni discussione finisce con:
    “Senza di me non saresti nessuno.”

Se sei familiare o amico, osserva:

  • cambiamenti improvvisi di umore e chiusura

  • frasi come: “Meglio che non lo dica, altrimenti si arrabbia.”

  • paura continua di “disturbare” chi assiste

  • rinunce inspiegabili a attività che prima facevano bene


6. Cosa fare per uscire – o almeno iniziare a incrinare il meccanismo

Non esiste una ricetta unica, ma alcuni passi possono aiutare.

6.1 Primo livello: dentro di te

  • Dai dignità alle tue sensazioni
    Se qualcosa ti fa stare male, non è “dramma”: è un segnale.

  • Separare aiuto da potere
    Una cosa è il supporto materiale, un’altra è avere il diritto di decidere al posto tuo su tutto.

  • Riconosci i NO che hai ingoiato
    Fai un elenco mentale (o scritto) di situazioni in cui avresti voluto dire no e non l’hai fatto per paura di perdere l’aiuto.

Questo non risolve subito, ma rimette te al centro del racconto.


6.2 Secondo livello: aprire spiragli all’esterno

La manipolazione prospera nel silenzio. Alcuni passi possibili:

  • Parlare con un’altra persona di fiducia
    Un familiare, un amico, un vicino, un operatore esterno: chiunque non sia legato a doppio filo al manipolatore.

  • Usare servizi di ascolto e supporto psicologico
    Anche una o due consulenze possono aiutare a fare chiarezza. Spesso basta uno sguardo esterno per “rinominare” ciò che stai vivendo.

  • Se sei un familiare: osserva senza giudicare
    Non partire con “ti stai facendo manipolare”, ma con:
    “Come ti senti quando succede questo? Ti senti rispettato davvero?”


6.3 Terzo livello: ridefinire il patto di cura

Qui si entra nel concreto, e ogni situazione è diversa. Alcune possibilità:

  • Stabilire regole chiare
    Orari, compiti, spazi di privacy. Non dev’essere solo il caregiver a decidere.

  • Prevedere più di una figura di supporto
    Se possibile, alternare più persone (familiari, assistenti, servizi) riduce il potere assoluto di una sola persona.

  • Separare gestione economica e cura fisica
    Chi ti lava non deve per forza essere chi gestisce i soldi o i documenti. Separare i ruoli riduce il rischio di abuso di potere.


6.4 Quando la manipolazione sfocia nell’abuso vero e proprio

Ci sono casi in cui la manipolazione mentale si accompagna a:

  • minacce esplicite

  • abbandono intenzionale (“ti lascio lì così impari”)

  • umiliazioni ripetute davanti ad altri

  • uso improprio dei tuoi soldi o dei tuoi dati

In queste situazioni, la parola non è più solo “manipolazione”, ma abuso.

Può diventare necessario:

  • coinvolgere altri familiari

  • informare servizi sociali, associazioni di tutela, enti competenti

  • valutare, con professionisti, percorsi legali o di protezione

Non è “tradire” qualcuno: è proteggere la tua integrità.


7. Il ruolo di chi sta intorno: familiari, operatori, amici, vicini

Se non vivi direttamente la disabilità ma sei vicino a chi la vive, puoi diventare parte della soluzione.

Cosa puoi fare concretamente:

  • Ascoltare senza minimizzare
    Evita frasi come “ma dai, esageri”, “in fondo ti vuole bene”.
    Piuttosto: “Ok, raccontami meglio, cosa succede di preciso?”

  • Offrire confronto, non solo pietà
    Chiedi: “Come ti piacerebbe che fosse organizzata la tua giornata?”
    Non sostituirti, ma aiutalo/a a riprendere voce.

  • Non chiudere gli occhi su dinamiche sospette
    Se vedi umiliazione sistematica, ricatti, isolamento, non archiviarli come “carattere difficile”. Sono segnali.

  • Fare rete
    Mettere in contatto la persona con associazioni, gruppi, professionisti. Più relazioni ha, meno una singola persona può dominarla.


8. Un punto chiave: non basta “essere buoni”, serve un’etica del potere

Assistenti, infermieri, OSS, volontari, familiari: tutti coloro che si occupano di persone con disabilità hanno, che lo vogliano o no, un potere.

Non è solo questione di “bondà” o “vocazione”. È questione di:

  • riconoscere che chi è dipendente fisicamente è in posizione di svantaggio

  • lavorare attivamente per restituire autonomia, voce, scelta

  • accettare che chi riceve il tuo aiuto ha il diritto di:

    • criticarti

    • lamentarsi

    • chiedere altro

    • cambiare assistente

Quando la cura non include questa consapevolezza, rischia di scivolare – anche senza cattive intenzioni – verso forme sottili di manipolazione.


9. Non sei “ingrato”: stai solo rivendicando dignità

Se sei una persona con difficoltà motorie o invalida e ti sei riconosciuto/a in anche solo un pezzo di ciò che hai letto, voglio dirti una cosa chiara:

  • Non sei esagerato se ti senti soffocare.

  • Non sei ingrato se metti dei limiti.

  • Non sei egoista se chiedi rispetto oltre all’aiuto.

Hai diritto:

  • a essere ascoltato, non solo assistito

  • a scegliere chi ti aiuta, come, quando, per quanto

  • a sbagliare, cambiare idea, dire “no”

  • a vivere relazioni in cui non devi pagare ogni gesto di cura con la tua libertà mentale

Se ti va, nel prossimo passo posso aiutarti a:

  • trasformare questo articolo in una serie di contenuti per il tuo blog (titoli, rubriche, call-to-action)

  • o creare una guida pratica scaricabile per persone con disabilità e per chi le assiste

Dimmi solo se preferisci un taglio più informativo, più emotivo o più orientato alla denuncia sociale, e procediamo da lì.



«Il riscaldamento globale è reale, ma ancora più rovente è la quantità di truffe che lo usano come scusa per bruciare i nostri soldi e la nostra fiducia.»

 Il riscaldamento globale come scusa perfetta: quante truffe ci girano intorno?


Prima di tutto: il clima è reale, le truffe pure

Partiamo da un punto fermo, così sgombriamo il campo: il riscaldamento globale è un fenomeno reale, documentato da decenni di dati scientifici.
Il problema è che proprio perché il tema “clima” è ovunque – news, politica, investimenti, bonus fiscali – è diventato una calamita per truffatori, furbetti e speculatori.

Il risultato? Dietro parole come “green”, “carbon neutral”, “net zero” e “energia pulita” spesso si nasconde un business opaco, quando non apertamente fraudolento.

In questo articolo vediamo:

  • Perché è impossibile dare un numero preciso delle truffe “climatiche”

  • Alcuni dati economici reali che ci danno un ordine di grandezza

  • Le principali categorie di truffe che usano il riscaldamento globale come alibi

  • Come riconoscerle e difendersi, sia come cittadini che come investitori


Quante truffe ci sono davvero?

La domanda è legittima: “Ok, ma in concreto… quante truffe ci sono?”
La risposta sincera è: non lo sa nessuno, e chi ti dà un numero secco sta semplificando troppo.

Quello che possiamo fare però è guardare le dimensioni economiche del fenomeno “crimini ambientali e green fraud”:

  • Organismi internazionali come UNEP, Interpol, FATF e OCSE stimano che il giro d’affari dei crimini ambientali (che includono anche frodi legate al clima, carbon credit fraud, ecc.) sia oggi tra 110 e 281 miliardi di dollari l’anno a livello globale.(OECD)

  • È uno dei settori criminali più redditizi al mondo, subito dietro droga, contraffazione e tratta di esseri umani.(interpol.int)

  • All’interno di questo enorme “ombrello” rientrano: illegal logging, traffico di rifiuti, commercio illegale di fauna, mining, ma anche frodi sui crediti di carbonio e falsi progetti climatici, cioè proprio quei meccanismi che usano il clima come narrativa di copertura.(UNEP - UN Environment Programme)

Un dato emblematico: la frode IVA sul mercato dei crediti di carbonio dell’UE (il famoso carbon trading VAT fraud) ha causato, secondo Europol, circa 5 miliardi di euro di danni ai contribuenti europei in pochi anni, con stime che indicano che in alcuni paesi fino al 90% degli scambi era fraudolento.(Europol)

E questo è un solo tipo di truffa, in un solo segmento (ETS/crediti di carbonio), in un solo continente, in un arco temporale limitato.

Quindi:
👉 Non abbiamo il numero delle truffe, ma abbiamo la prova che il “business criminale del clima” si misura in decine (se non centinaia) di miliardi l’anno.


Le grandi famiglie di truffe “green” che sfruttano il riscaldamento globale

1. Frodi nei crediti di carbonio e nei mercati volontari

È probabilmente la categoria più strutturata e tecnicamente complessa.

Come funziona in teoria:
Un’azienda che emette CO₂ compra crediti da progetti che “assorbono” o “evitano” emissioni (riforestazione, energie rinnovabili, conservazione foreste, ecc.). Un credito = 1 tonnellata di CO₂ compensata.

Come viene distorto nella pratica:

  • Vengono creati crediti fantasma: emissioni ridotte solo sulla carta, ma non nella realtà.

  • Si gonfiano i numeri: progetti che vantano benefici climatici molto superiori al reale.

  • Si vendono gli stessi crediti più volte a soggetti diversi.

  • Si usano schemi fiscali e IVA per frodare gli Stati (come nel caso europeo da 5 miliardi).(Europol)

Studi recenti sui mercati volontari del carbonio (VCM) parlano apertamente di corruzione, frode e supervisione debole, con un impatto enorme sulla credibilità dell’intero sistema.(Integrità e Corruzione)

Nel 2025, un report della London School of Economics ha evidenziato un aumento di cause legali in tutto il mondo contro aziende che usano in modo ingannevole i crediti di carbonio, incluse cause per frode legata agli offset negli Stati Uniti.(The Guardian)

Tradotto: il clima è reale, ma una parte del mercato dei “crediti per salvarlo” è diventata un terreno fertile per truffe e greenwashing spinto.


2. Investimenti “green” e truffe finanziarie a tema clima

Un’altra grossa categoria: finti investimenti green.

Cosa promettono:

  • Rendimenti “garantiti” grazie alla transizione energetica.

  • Progetti “innovativi” per salvare il pianeta.

  • Fondi “ESG – climate only” con rendimenti fuori scala.

Le autorità europee per la sicurezza finanziaria e le forze di polizia segnalano da anni frodi di investimento collegate a progetti ambientali, emissioni di certificati e green bond, gestione illecita di fondi e misappropriazione di capitali.(Europol)

Queste truffe usano parole chiave come:

  • carbon neutral, net zero, green transition, climate tech, renewable megaproject
    ma dietro spesso non c’è nessuna infrastruttura reale, né pianificazione concreta.


3. Truffe su pannelli solari, efficienza energetica e bonus

Qui arriviamo a qualcosa che tocca direttamente cittadini e famiglie.

Autorità come la Federal Trade Commission (FTC) negli USA e il Dipartimento del Tesoro hanno dedicato intere campagne alle truffe legate a:

  • Installazione di pannelli solari con promesse di risparmio irreale.

  • Finanziamenti e leasing opachi, con costi nascosti e vincoli pluridecennali.

  • Aziende che spariscono dopo aver incassato acconti o aver fatto firmare contratti capestro.(Federal Trade Commission)

Tra i pattern più comuni:

  • Call center aggressivi che chiamano “a nome del governo” o di programmi pubblici sul clima.

  • Promesse di “pannelli gratis grazie agli incentivi” quando in realtà si tratta di mutui o leasing lunghi e costosi.

  • Contratti complessi, con clausole che vincolano la casa (fino ad arrivare a ipoteche o problemi sul titolo di proprietà).(swce.coop)

Dietro la narrativa “lo facciamo per il pianeta” si nasconde semplicemente un trasferimento di ricchezza dal consumatore disinformato al venditore disonesto.


4. ONG fasulle, crowdfunding climatico e progetti “storytelling only”

Un’altra frontiera: le campagne di raccolta fondi.

  • Piattaforme di crowdfunding con progetti che promettono di piantare alberi, salvare foreste, proteggere comunità vulnerabili al cambiamento climatico, ma senza alcuna trasparenza sull’uso dei fondi.

  • “Associazioni ambientaliste” che esistono solo online, con indirizzi inesistenti, nessun bilancio, nessuna prova concreta di attività.

In questi casi la truffa è più sottile: non sempre si parla di reato penale su larga scala, ma di mille micro-raccolte che vivono solo di narrazione emotiva e storytelling.


5. Phishing e furto dati mascherati da emergenza climatica

Ultima categoria, ma in crescita:

  • Email che imitano organizzazioni internazionali, agenzie governative o utility che chiedono di aggiornare i dati per “accedere agli incentivi energetici”.

  • Finti portali per “calcolare la tua carbon footprint” che in realtà servono a raccogliere dati sensibili o spingerti verso investimenti dubbi.

  • Sondaggi online “per il clima” che poi diventano lead venduti ad aziende aggressive o, peggio, a truffatori.

Qui la leva psicologica è doppia: senso di urgenza + senso di colpa ambientale.


Perché il riscaldamento globale è una scusa così potente per chi truffa

Riassumendo, il “clima” è un alibi perfetto per almeno quattro motivi:

  1. È complesso
    ETS, offset, VCM, green bond, certificazioni… La maggioranza delle persone non ha il tempo (né la voglia) di approfondire i meccanismi tecnici. Questo crea uno spazio enorme per chi “vende fumo” ben confezionato.

  2. È carico di emozioni
    Paura del futuro, ansia ecologica, desiderio di “fare la propria parte”: tutti elementi che abbassano le difese critiche e rendono più facile dire “sì” a offerte che promettono di aiutare il pianeta.

  3. È sostenuto da soldi pubblici e incentivi
    Incentivi, bonus fiscali, programmi di transizione: una cascata di denaro reale che attira, inevitabilmente, chi vuole intercettare quei flussi in modo illecito o borderline.(Europol)

  4. È difficile verificare l’impatto reale
    Come fa un cittadino o un piccolo investitore a verificare se un progetto in Africa o in Amazzonia riduce davvero emissioni? Serve accesso a dati, immagini satellitari, audit indipendenti. Il che, di solito, non c’è.


Come riconoscere (e smontare) le truffe che usano il clima come scusa

Una sorta di checklist pratica, utile sia per i tuoi lettori sia per te come autore:

1. Rendimenti garantiti + narrativa etica = red flag
Se qualcuno ti promette rendimenti alti e sicuri perché “il mercato del clima è il futuro” o perché “i governi non possono che spingere il green”… sospetto immediato.

2. Pressione a decidere subito
“Offerta valida solo oggi”, “il fondo chiude tra 24 ore”, “gli incentivi stanno per finire”: la fretta è uno strumento classico della truffa, anche quando si traveste da emergenza climatica.

3. Nessuna trasparenza su chi certifica cosa
Nel mondo dei crediti di carbonio e dei progetti climatici seri esistono standard, verificatori indipendenti, registri pubblici. Se questi nomi non compaiono mai, o sono impossibili da verificare, è un pessimo segnale.(interpol.int)

4. Contratti incomprensibili per il consumatore medio
Nel caso di pannelli solari, efficienza energetica e simili: contratti lunghi, pieni di clausole tecniche, con poca chiarezza sul chi paga cosa, per quanto, con quali penali sono esattamente ciò che le autorità di consumo indicano come terreno fertile per abusi e truffe.(Consumer Advice)

5. Nessuna traccia online credibile
Progetto climaticamente rivoluzionario ma:

  • nessun bilancio,

  • nessun report,

  • nessun audit,

  • sito vetrina e basta?

Allora probabilmente è solo un trucco di comunicazione costruito sulla sensibilità ambientale del pubblico.


Conclusione: il clima non è una truffa, ma è pieno di truffe che usano il clima

Se dovessimo condensare tutto in una frase da usare come chiusura di articolo:

Non è il riscaldamento globale a essere una truffa:
è l’uso opportunistico del clima come copertura narrativa che ha creato un intero ecosistema di truffe, dal salotto del piccolo risparmiatore fino alle più sofisticate operazioni finanziarie globali.

Per il tuo blog puoi giocarti bene questo contrasto:

  • Da un lato: dati, report, numeri che mostrano quanto sia enorme il business criminale legato all’ambiente e al clima.

  • Dall’altro: strumenti concreti per aiutare il lettore a non farsi fregare dalla prossima “offerta green imperdibile”.

Se vuoi, nel prossimo passo posso aiutarti a:

  • trasformare questo pezzo in una serie di articoli (uno per ogni tipo di truffa),

  • oppure estrarne una checklist scaricabile o un mini “vademecum anti-truffe green” da offrire ai lettori come lead magnet.



giovedì 27 novembre 2025

“Dietro ogni decollo perfetto c’è un pilota che ha allenato la mente prima ancora delle mani.”

 I piloti di aerei di linea: addestramento, responsabilità e fattore psicologico

Quando sali a bordo di un aereo di linea e ti accomodi al tuo posto, probabilmente dai per scontato che “là davanti” ci siano due persone estremamente preparate. Ma cosa significa davvero essere pilota di linea oggi? Quanto è lunga la loro formazione? E quanto conta la psicologia, oltre alla tecnica?

In questo articolo entriamo nella cabina di pilotaggio dal punto di vista umano e professionale: formazione, addestramento continuo, gestione dello stress, lavoro di squadra e fattore psicologico.


1. Il lungo percorso per diventare pilota di linea

Diventare pilota non è un semplice “prendo una patente e vado”. È un percorso lungo, costoso e selettivo, che passa in genere da:

  • Licenza PPL (Private Pilot Licence) – È la base: consente di pilotare velivoli leggeri a scopo non commerciale.

  • Licenza CPL (Commercial Pilot Licence) – Permette di volare a pagamento, ma non ancora come comandante di linea su aerei di grandi dimensioni.

  • Abilitazione al volo strumentale (IR – Instrument Rating) – Fondamentale per volare in condizioni meteo avverse e affidarsi agli strumenti di bordo.

  • Abilitazione plurimotore (ME – Multi Engine) – Per pilotare aerei con più motori, tipici dell’aviazione commerciale.

  • ATPL (Airline Transport Pilot Licence) – È la licenza “top”, necessaria per diventare comandante di un aereo di linea. Spesso si inizia con un ATPL “frozen”, che diventa “unfrozen” dopo un certo numero di ore di volo.

A questo si sommano:

  • Test teorici molto intensi (navigazione, meteorologia, performance, regolamenti, sistemi aeronautici, ecc.).

  • Addestramento pratico su aerei scuola e simulatori, con scenari di emergenza ripetuti fino alla perfezione.

  • Selezioni delle compagnie aeree, che includono test attitudinali, conoscenza tecnica, prove in simulatore e valutazioni psicologiche.


2. Addestramento continuo: il lavoro non finisce mai

Una volta assunti in compagnia, non è che “ci si rilassa”: l’addestramento è continuo.

Check periodici

I piloti sono sottoposti a controlli regolari:

  • Recurrent training: sessioni periodiche in simulatore (tipicamente ogni 6 mesi) in cui vengono ripassate manovre normali e procedure di emergenza (piantata motore, depressurizzazione, avaria agli strumenti, atterraggi in condizioni meteo difficili, ecc.).

  • Line check: voli di linea con un esaminatore a bordo che valuta il pilota durante un normale turno di lavoro.

  • Check medici: le visite mediche aeronautiche sono obbligatorie e rigorose; un problema di salute può comportare la sospensione temporanea o definitiva dell’idoneità.

Standardizzazione delle procedure

Uno degli aspetti più importanti è la standardizzazione:

  • Checklist comuni, frasi standard, ruoli definiti tra comandante (Captain) e primo ufficiale (First Officer).

  • Ogni fase del volo (pre-volo, rullaggio, decollo, crociera, avvicinamento, atterraggio) ha procedure precise.

  • Questo riduce i margini di errore, specialmente in situazioni di stress o imprevisti.


3. Il fattore umano: più importante della tecnologia

Nell’aviazione moderna si parla spesso di Human Factors: il modo in cui le caratteristiche umane (cognitive, emotive, sociali) influenzano la sicurezza del volo.

CRM: Crew Resource Management

Uno dei pilastri è il CRM (Crew Resource Management), un insieme di competenze “non tecniche” insegnate e valutate:

  • Comunicazione chiara: saper parlare in modo diretto, senza ambiguità, nei momenti critici.

  • Leadership e followership: il comandante guida ma deve anche saper ascoltare; il primo ufficiale deve sentirsi autorizzato a parlare se nota un problema.

  • Gestione degli errori: l’errore umano è inevitabile; il sistema è progettato per intercettarlo e correggerlo rapidamente.

  • Gestione del carico di lavoro: prioritizzare i compiti, delegare, rinviare ciò che non è essenziale nei momenti critici (“aviate, navigate, communicate”).


4. Psicologia del pilota: stress, responsabilità e lucidità

Il pilota non è solo un tecnico: è una persona che, ogni giorno, porta con sé responsabilità enormi e deve mantenere lucidità costante.

Gestione dello stress

Fonti di stress:

  • Condizioni meteo difficili

  • Traffico aereo intenso

  • Ritardi, cambi di programma, pressioni operative

  • Eventi imprevisti (passeggero malato, avarie, deviazioni, ecc.)

I piloti vengono formati per:

  • Utilizzare tecniche di gestione dello stress (respirazione, focalizzazione su procedure, pensiero strutturato).

  • Separare il problema personale dal ruolo professionale: se un problema privato è troppo impattante, il pilota può anche auto-dichiararsi non idoneo al volo per quella giornata.

Decision making sotto pressione

La psicologia del pilota ruota attorno al decision making:

  • Raccogliere informazioni (strumenti, ATC, manuali, equipaggio).

  • Valutare alternative (proseguire? deviare? tornare indietro?).

  • Prendere una decisione tempestiva, né impulsiva né paralizzata dal dubbio.

  • Comunicarla in modo chiaro a equipaggio e passeggeri.

Spesso, la differenza tra un evento gestito in sicurezza e un incidente è proprio la qualità delle decisioni prese in pochi minuti.


5. Selezione psicologica e monitoraggio

Le compagnie aeree non valutano solo la competenza tecnica, ma anche il profilo psicologico.

  • Test attitudinali e psicoattitudinali in fase di selezione (attenzione, memoria, gestione del multitasking, reazione allo stress).

  • Colloqui con psicologi per valutare stabilità emotiva, capacità relazionali, attitudine al lavoro di squadra.

  • In molte realtà si punta a creare una cultura in cui chiedere aiuto non sia un tabù: meglio un pilota che segnala di avere un momento di difficoltà che uno che lo nasconde.

Negli ultimi anni c’è più attenzione al benessere mentale dei piloti: programmi di supporto, counseling, linee dedicate in caso di burnout, stress cronico o problemi personali.


6. Fatica, ritmi di lavoro e “fitness to fly”

Un altro elemento chiave è la fatica, che impatta le performance cognitive tanto quanto lo stress.

Per questo esistono:

  • Regole precise sui tempi di volo e di riposo (Flight Duty Time Limitations): massimo numero di ore giornaliere, mensili, annuali, e minimi di riposo tra un turno e l’altro.

  • Valutazioni pre-volo: il pilota deve essere “fit to fly”, cioè in condizioni psicofisiche adeguate. Se è troppo stanco o non in forma, ha il dovere di segnalarlo.

La fatica influisce su:

  • tempo di reazione

  • attenzione

  • memoria di lavoro

  • capacità di prendere decisioni complesse

La gestione intelligente della fatica è quindi parte integrante della professionalità del pilota.


7. Il rapporto con i passeggeri: comunicazione e fiducia

Dal punto di vista psicologico, il pilota ha un ruolo anche relazionale:

  • La voce dal cockpit, prima del decollo, non è solo un rituale: serve a creare fiducia.

  • In caso di turbolenza o ritardi, una comunicazione chiara e onesta riduce l’ansia dei passeggeri.

  • Il pilota è il “volto invisibile” della sicurezza: sapere che qualcuno è competente e calmo ai comandi ha un impatto psicologico su tutto il volo.


8. Piloti: professionisti della complessità

Riassumendo, il pilota di linea è un professionista della complessità:

  • Ha alle spalle anni di formazione tecnica e pratica.

  • Si sottopone continuamente a controlli, simulazioni, aggiornamenti.

  • Lavora in un ambiente altamente regolato, dove il fattore umano è studiato, allenato e monitorato.

  • Gestisce ogni giorno responsabilità enormi con lucidità, capacità decisionale e lavoro di squadra.

La prossima volta che allacci la cintura e senti i motori spingere per il decollo, puoi immaginare che, in cabina, non ci sia solo tecnologia avanzata, ma anche una grande quantità di preparazione mentale, disciplina interiore e competenze psicologiche messe a tua disposizione.



In un mondo che vuole potenziare la mente a tutti i costi, Adderall e fentanyl mostrano il prezzo più alto: dimenticare che la nostra umanità non si misura in pillole, ma nella capacità di accogliere i nostri limiti.

 L’illusione della pillola magica: Adderall, fentanyl e il lato oscuro del “potenziare la mente”


Negli ultimi anni ci siamo abituati all’idea che ogni limite possa essere aggirato con una pillola: più concentrazione, più energia, più produttività. Adderall è diventato, soprattutto nel mondo anglosassone, il simbolo di questo sogno: una compressa per “sbloccare” il cervello. In parallelo, un’altra molecola – il fentanyl – è diventata il simbolo dell’incubo opposto: overdose, dipendenze, vite spezzate.

In questo articolo provo a mettere in fila i pezzi: cosa è davvero l’Adderall, quali promesse porta con sé, che cosa c’entra con la cultura del “potenziamento” che ha aperto la strada alla tragedia quotidiana dei sinteticI oppioidi come il fentanyl.


Adderall: cos’è davvero (oltre il mito dello “smart drug”)

Adderall è un farmaco a base di anfetamine (amphetamine e dextroamphetamine), cioè stimolanti del sistema nervoso centrale. Viene prescritto per trattare principalmente ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) e narcolessia. Usato correttamente, sotto controllo medico, può migliorare attenzione e capacità di concentrazione nelle persone che ne hanno reale bisogno. (American Addiction Centers)

Il problema nasce quando Adderall esce dall’ambulatorio e diventa:

  • “pillola per studiare” all’università

  • “aiutino” per lavorare più ore

  • “boost” per essere sempre performanti, anche quando il corpo chiede pausa

Effetti collaterali a lungo termine

Gli studi indicano che l’uso prolungato o improprio di Adderall può causare: (talkspace.com)

  • insonnia cronica e disturbi del sonno

  • perdita di appetito e calo di peso non voluto

  • problemi gastrointestinali

  • aumento di pressione e frequenza cardiaca, con rischi cardiovascolari nel lungo periodo (bellamonterecovery.com)

  • alterazioni dell’umore, ansia, irritabilità, fino a sintomi depressivi o psicotici

  • sviluppo di tolleranza (serve sempre più dose per lo stesso effetto) e dipendenza

Non è un caso se la stessa FDA statunitense evidenzia, nel foglietto illustrativo ufficiale, un forte avvertimento su abuso, misuso e rischio di dipendenza e morte per overdose legati ai CNS stimulants come Adderall. (FDA Access Data)


Dal potenziamento al pericolo: la normalizzazione dell’abuso

Una ricerca della Johns Hopkins Bloomberg School ha mostrato che, pur restando stabili le prescrizioni “ufficiali”, tra i giovani adulti è cresciuto in modo significativo l’uso non medico di Adderall, assieme agli accessi in pronto soccorso legati al farmaco. (publichealth.jhu.edu)

Tradotto:

  • chi ha una prescrizione spesso condivide o vende il farmaco

  • molti lo assumono senza una diagnosi, solo per “rendere di più”

  • il confine tra uso, abuso e dipendenza si assottiglia velocemente

Quando un’intera generazione inizia a credere che la mente vada “dopata” per essere all’altezza, il terreno diventa fertile per qualcosa di ancora più pericoloso: la ricerca di sostanze sempre più potenti, rapide, “risolutive”.

Qui entra in scena il fentanyl.


Fentanyl: quando la chimica passa dalla performance alla sopravvivenza

Il fentanyl è un oppioide sintetico estremamente potente, nato in ambito medico come analgesico per il dolore severo (per esempio in oncologia). Nella forma farmaceutica controllata è uno strumento terapeutico importante; il problema esplode con il fentanyl illegale, prodotto in laboratori clandestini e mescolato ad altre droghe.

A livello globale, gli oppioidi sono responsabili di circa l’80% dei decessi correlati all’uso di droghe, con decine di migliaia di morti per overdose ogni anno. (Organizzazione Mondiale della Sanità)

Negli Stati Uniti, le overdosi da oppioidi sintetici – principalmente fentanyl – sono diventate la principale causa di morte nelle persone tra i 18 e i 45 anni. (Council on Foreign Relations)
Le morti per fentanyl sono aumentate di oltre il 1000% in pochi anni, passando da meno di 2.000 casi nel 2011 a oltre 18.000 nel 2016, e continuando a crescere nella decade successiva. (usglc.org)

In alcune regioni (come la California) le overdosi da sintetici hanno superato di due-tre volte il numero di morti per incidenti stradali. (Wikipedia)

E non si tratta più solo di “giovani tossicodipendenti”: uno studio recente mostra un aumento del 9.000% nelle morti per overdose da fentanyl combinato con stimolanti (come cocaina e metanfetamine) nelle persone sopra i 65 anni tra il 2015 e il 2023. (New York Post)


Il filo invisibile tra Adderall e fentanyl

Adderall e fentanyl sono sostanze molto diverse (uno stimolante, l’altro un oppioide), ma raccontano la stessa storia culturale:

  1. L’idea di base

    • Adderall: “posso essere più concentrato, più produttivo, più competitivo.”

    • Fentanyl illegale: “posso cancellare il dolore fisico e mentale, subito.”

  2. La logica del mercato

    • Se c’è un bisogno di performance, qualcuno offrirà una pillola per colmarlo.

    • Se c’è un bisogno di fuga o anestesia, qualcuno offrirà una sostanza sempre più potente (e più economica) per soddisfarlo.

  3. La normalizzazione della chimica
    Quando la soluzione “prendo qualcosa e vado avanti” diventa riflesso automatico – per studiare, lavorare, dormire, calmare l’ansia – il passo verso sostanze più forti e rischiose diventa pericolosamente breve.

In Europa il fentanyl non ha ancora devastato le comunità come negli USA, ma i report più recenti delle agenzie europee avvertono un aumento di oppioidi sintetici “nuovi” (nitazeni, ecc.) e miscele di droghe sempre più complesse e potenti. (Global Initiative)

È come se il sistema continuasse a cercare la “versione 2.0” di ogni sostanza: più forte, più rapida, più redditizia. E dietro questo aggiornamento continuo troviamo sempre la stessa matrice: una cultura che non accetta la fragilità, la lentezza, il limite.


Le “malattie invisibili” create ogni giorno

Quando parliamo di Adderall e fentanyl, non parliamo solo di dipendenza chimica. Parliamo di un ecosistema di malesseri:

  • Disturbi d’ansia e depressione alimentati da una pressione costante a performare

  • Burnout lavorativo e scolastico mascherato da caffeina, energy drink, stimolanti

  • Solitudine e disconnessione compensate da sostanze che “staccano” il cervello dalla realtà

  • Corpi trattati come macchine, spinti oltre il proprio limite con farmaci nati per tutt’altro scopo

Le overdose sono il picco visibile dell’iceberg. Sotto la superficie ci sono milioni di persone che non muoiono, ma vivono male: sonno distrutto, relazioni compromesse, identità costruite solo sulla produttività.


Potenziare la mente… ma a quale prezzo?

La domanda vera non è “Adderall è buono o cattivo?”, né “il fentanyl è il male assoluto?”.
La domanda profonda è:

Che idea di essere umano c’è dietro la ricerca ossessiva della pillola che ci rende “migliori”?

Se crediamo che:

  • valiamo solo quando siamo efficienti

  • la lentezza è un difetto

  • la fatica mentale è un bug da correggere
    allora le sostanze diventano una conseguenza quasi logica.

Una cultura che accetta il limite, invece, si fa più domande:

  • ho bisogno di dormire meglio, non solo di restare sveglio

  • ho bisogno di imparare a concentrarmi, non solo di “spingere” il cervello

  • ho bisogno di chiedere aiuto, non solo di tenere tutto in piedi a ogni costo


Alternative concrete al “pillola-first”

Non esiste una ricetta magica, ma esistono strade più sane per prendersi cura della propria mente:

  • Igiene del sonno: il “no” alle notifiche di notte è un superpotere spesso sottovalutato.

  • Alimentazione e movimento: non sono slogan da palestra, ma veri modulatori di umore e attenzione.

  • Psicoterapia, coaching, supporto educativo: per lavorare sulle cause della distrazione, non solo sui sintomi.

  • Organizzazione del lavoro e dell’apprendimento: spesso il problema non è il cervello, è il sistema intorno a noi (deadline assurde, multitasking continuo, assenza di pause).

  • Comunità: parlare, condividere, togliere vergogna alle difficoltà riduce il ricorso alla “soluzione rapida” chimica.

E, quando c’è una diagnosi reale (ADHD, dolore cronico, ecc.), i farmaci possono avere un ruolo importante – ma dentro un percorso medico strutturato, non come scorciatoia fai-da-te.


Un cambio di paradigma: dalla pillola alla consapevolezza

Adderall e fentanyl sono due facce della stessa epoca:
una che sogna di superare ogni limite, l’altra che cerca di anestetizzare un dolore diventato insopportabile.

Se vogliamo davvero “potenziare la mente”, forse è il momento di cambiare verbo:

  • non potenziare, ma prendersi cura

  • non spingere, ma ascoltare

  • non aggiungere sostanze, ma togliere sovraccarichi

Se tu – o qualcuno vicino a te – stai usando stimolanti o oppioidi in modo che ti fa sentire fuori controllo, il passo più coraggioso non è resistere da solo, ma chiedere aiuto a un medico, a uno psicologo, a un servizio specializzato sulle dipendenze. Non è debolezza: è la scelta di non delegare la propria vita a una molecola.

La vera rivoluzione non è una pillola che ci rende super-umani.
È una cultura che ci permette di restare umani, senza doverci drogare per sopravvivere o per “essere all’altezza”.



mercoledì 26 novembre 2025

«La vera malattia non è sempre nel corpo, ma nel momento in cui qualcuno trasforma la nostra paura per la salute in un modello di profitto.»


Parliamo di potere, soldi e salute — con i piedi per terra e i dati alla mano.


Nuove malattie: invenzione o gioco di definizioni?

Negli ultimi anni si è fatta strada un’idea molto forte: “si inventano nuove malattie per vendere nuove cure”. Nel mirino ci sono soprattutto le grandi fondazioni, le multinazionali del farmaco e, più in generale, il “sistema” della salute globale.

Prima distinzione fondamentale, per onestà intellettuale:

  • Non ci sono prove serie che grandi fondazioni “creino” malattie in laboratorio per poi guadagnarci.

  • Esiste invece un fenomeno ben documentato: l’allargamento delle definizioni di malattia e la loro promozione aggressiva per allargare il mercato delle cure, il cosiddetto disease mongering (letteralmente “mercificazione della malattia”). (Wikipedia)

È qui che si intrecciano fondazioni, industrie, istituzioni pubbliche e media. Ed è qui che nasce quel malessere diffuso che spesso si trasforma in narrativa complottista.


Disease mongering: quando la malattia diventa prodotto

Il termine disease mongering è stato reso famoso da giornalisti e studiosi che hanno analizzato le strategie dell’industria farmaceutica nel ridefinire i confini di ciò che consideriamo “malattia”. (PMC)

In pratica, cosa significa?

  • Abbassare le soglie diagnostiche
    Per esempio, definire come “patologici” valori che prima erano considerati varianti normali (colesterolo, pressione, glicemia, ecc.), facendo crescere il numero di persone “malate”.

  • Trasformare disagi comuni in disturbi clinici
    Insonnia, calo del desiderio, stanchezza cronica, timidezza… vengono talvolta reinterpretati come “sindromi” che richiedono diagnosi, terapie, farmaci.

  • Campagne di “consapevolezza” sponsorizzate
    Dietro iniziative apparentemente neutrali per “sensibilizzare su una malattia”, ci sono spesso sponsor con interessi diretti nelle cure per quella stessa patologia. (PMC)

Una nota dell’Europarlamento definisce il disease mongering come “la promozione di pseudo-malattie principalmente da parte dell’industria farmaceutica per scopi economici”. (Parlamento Europeo)

Attenzione però a non estremizzare: non significa che tutte le nuove diagnosi siano inventate. Molte sono miglioramenti reali nella comprensione scientifica. Il punto non è negare la medicina, ma chiedersi chi decide dove finisce la normalità e dove inizia la malattia — e con quali interessi.


Il mondo delle grandi fondazioni: filantropia, business e “philanthrocapitalism”

Negli ultimi vent’anni le grandi fondazioni private (Gates, Rockefeller e molte altre) sono diventate protagoniste della salute globale. Investono miliardi in vaccini, programmi contro malaria, tubercolosi, HIV, nutrizione, ecc. (2030 Spotlight)

Parallelamente è nato un concetto critico: philanthrocapitalism.

  • È l’idea che le logiche del business (efficienza, ROI, indicatori numerici) vengano applicate alla filantropia.

  • In pratica, i mega-donatori non si limitano a “dare soldi”, ma influenzano l’agenda: quali malattie contano, quali programmi vengono finanziati, quali no. (ScienceDirect)

Diversi studi mostrano come alcune fondazioni, in particolare la Gates Foundation, abbiano un peso enorme nel definire le priorità dell’OMS e della salute globale, concentrandosi su specifiche malattie (es. polio, malaria) e meno sul rafforzamento sistemico dei sistemi sanitari. (Financial Times)

Questo non significa che queste iniziative siano “cattive” in sé (i loro programmi hanno anche salvato milioni di vite), ma solleva domande legittime:

  • Chi decide quali vite contano di più?

  • Perché alcuni problemi di salute hanno fondi immensi e altri restano marginali?

  • Quanto spazio rimane alla democrazia e alle priorità dei Paesi destinatari?


Il caso OMS: soldi vincolati e “dark money”

Negli ultimi anni sono cresciute le critiche alla WHO Foundation, il braccio di raccolta fondi della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.

Un’inchiesta recente ha mostrato che una quota crescente dei finanziamenti arriva da donatori anonimi (“dark money”), spesso con categorie di spesa molto generiche come “Covid” o “operational costs”, senza dettagliare chi paga e perché. (The Guardian)

Due problemi chiave:

  1. Trasparenza
    Se non sappiamo chi finanzia, diventa difficile valutare i conflitti di interesse: potrebbero essere aziende i cui prodotti incidono direttamente sulla salute (alimentare, tabacco, alcol, farmaceutica, piattaforme digitali…).

  2. Agenda-setting
    Quando i contributi sono “vincolati” a determinati progetti, l’agenzia internazionale rischia di trasformarsi in un esecutore di priorità decise altrove.

Nel frattempo, studi di BMJ Global Health segnalano come la dipendenza da grandi donatori privati, come la Gates Foundation, stia crescendo man mano che alcuni Stati riducono il loro contributo. (Financial Times)

Il rischio non è “la malattia inventata”, ma la salute globale guidata da pochi attori opachi o privati, con una responsabilità pubblica limitata.


Il nodo dei conflitti di interesse nella ricerca

Quando parliamo di “nuove malattie” e fondazioni, dobbiamo guardare anche a come è organizzata la ricerca:

  • Numerosi studi mostrano che il finanziamento da parte dell’industria o di soggetti con interessi economici tende ad aumentare la probabilità di risultati favorevoli ai finanziatori e a influenzare quali domande di ricerca vengono poste. (NCBI)

  • Le principali istituzioni etiche (come l’Institute of Medicine negli USA o il codice dell’American Medical Association) riconoscono i conflitti di interesse come un problema sistemico e chiedono regole più severe, trasparenza e gestione attiva di queste situazioni. (NCBI)

Anche il finanziamento da parte di fondazioni non è “puro” per definizione: può creare dipendenze, ruoli ambigui, carriere costruite su un certo filone di ricerca. (annemergmed.com)

Di nuovo: non è una prova che “si inventano malattie”, ma un segnale chiaro che gli interessi economici possono orientare cosa chiamiamo malattia, cosa misuriamo e cosa curiamo.


Perché l’idea “inventano nuove malattie per profitto” attecchisce così bene

Da un lato abbiamo dati reali su disease mongering, lobbying, conflitti di interesse e soldi anonimi.
Dall’altro lato abbiamo narrazioni estreme: “le fondazioni creano nuovi virus”, “ogni nuova diagnosi è una truffa”, ecc.

Perché queste narrazioni complottiste piacciono così tanto?

  • Semplificano un sistema complesso
    Invece di analizzare meccanismi economici, regolatori, culturali, è più facile immaginare un “cattivo assoluto” che tira i fili.

  • Trasformano la sfiducia in storia
    La sfiducia verso istituzioni, governi, aziende e media è reale. Le teorie del complotto offrono una trama coerente (anche se falsa) a quel sentimento.

  • Danno un nemico chiaro
    “La grande fondazione X”, “il miliardario Y”: volti riconoscibili su cui proiettare paure e rabbia, al posto di un sistema pieno di grigi.

Il punto, per chi scrive e legge in modo critico, è restare in equilibrio:
denunciare i meccanismi documentati senza scivolare nella fantasia totale.


Oltre il complotto: cosa serve davvero cambiare

Se vogliamo proteggere la salute pubblica dai veri rischi, serve molto più di uno slogan contro “le fondazioni cattive”.

  1. Trasparenza radicale sui finanziamenti

    • Elenco pubblico e dettagliato di chi finanzia cosa, a tutti i livelli (ricerca, linee guida, campagne di sensibilizzazione, fondi OMS, fondazioni). (The Guardian)

  2. Regole rigide sui conflitti di interesse

  3. Più fondi pubblici indipendenti

    • Meno dipendenza da grandi donatori privati e industrie, più responsabilità democratica su come vengono stabilite le priorità di salute. (2030 Spotlight)

  4. Cultura critica nella popolazione

    • Saper distinguere tra:

      • legittima critica basata su dati (disease mongering, fondi anonimi, lobbying…)

      • teorie infondate che negano la medicina, minimizzano malattie reali o diffondono disinformazione pericolosa.

  5. Media e divulgatori più coraggiosi

    • Raccontare le sfumature: né propaganda pro-sistema, né complottismo clickbait, ma analisi dei meccanismi di potere che agiscono sulla salute.


Conclusione: non “nuove malattie”, ma vecchie dinamiche di potere

Dire che “le grandi fondazioni inventano malattie per aumentare i profitti” è una formula che colpisce, ma rischia di confondere due piani:

  • il piano fantastico, in cui pochi individui “creano” malattie dal nulla;

  • il piano reale, molto più interessante (e pericoloso), in cui diagnosi, linee guida, priorità di ricerca e campagne globali vengono orientate da soldi, potere e interessi privati dentro un sistema poco trasparente.

È su questo secondo piano che vale la pena scavare:
lì troviamo il disease mongering, il philanthrocapitalism, i conflitti di interesse, il “dark money”, e soprattutto la necessità urgente di ricostruire fiducia con regole chiare e controlli seri.

Se vogliamo davvero difendere la salute delle persone, non basta denunciare “le nuove malattie”: dobbiamo illuminare i meccanismi che decidono cosa chiamiamo malattia, chi la cura e chi ci guadagna.

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