giovedì 4 dicembre 2025

"Cinque anni per un tentato omicidio: un numero che giudica il gesto, ma non misura il vuoto lasciato né quanto la giustizia possa davvero ricomporre ciò che è stato spezzato."

 

Perché alcune persone ricevono 5 anni per tentato omicidio — un’indagine approfondita

Il titolo è da brivido e il numero (cinque anni) sembra, a prima vista, troppo basso o troppo alto a seconda dei punti di vista. Ma la realtà giudiziaria è fatta di categorie, compromessi e circostanze. In questo articolo provo a spiegare, con rigore da blogger e attenzione umana, perché in alcuni procedimenti per tentato omicidio la pena inflitta (o concordata) si attesta intorno ai cinque anni: quali sono i fattori tecnici, le dinamiche processuali, le attenuanti e le conseguenze sociali.


1. La natura del reato: tentato omicidio non è un’unica cosa

Il “tentato omicidio” copre situazioni molteplici. La legge distingue, a grandi linee, tra:

  • Il tentativo in forma aggravata (con armi, con premeditazione, con crudeltà) — che tende a portare a pene molto severe.

  • Il tentativo meno qualificato: colpi singoli, occasioni senza premeditazione, azioni che non avevano reale probabilità di uccidere.

  • I casi con esito limitato: la vittima sopravvive con ferite lievi o non letali.

Quando l’elemento soggettivo (intento di uccidere) è meno chiaro, o quando il concreto rischio di morte è limitato, il giudice può considerare la fattispecie meno grave — e la pena scendere verso soglie come i cinque anni.


2. Il ruolo delle attenuanti e delle circostanze personali

Molte sentenze che si concludono con pene medie (intorno ai 5 anni) tengono conto di attenuanti come:

  • Spinta emotiva o provocazione (risse, tradimenti, provocazioni intense).

  • Buona condotta precedente del reo.

  • Collaborazione con gli inquirenti (confessione, aiuto alle indagini).

  • Età giovane o particolare stato psichico al momento del fatto.

Queste attenuanti possono ridurre sensibilmente la pena base prevista per il reato.


3. Patteggiamento e rito abbreviato: perché 5 anni capita spesso

Due meccanismi processuali spiegano molte sentenze “medie”:

  • Patteggiamento (accordo tra difesa e pubblico ministero): il condannato accetta una pena concordata in cambio dello stralcio del processo dibattimentale. Questo evita il rischio di una pena più alta, riduce i tempi e spesso comporta l’applicazione di sconti (ad esempio uno sconto di pena per il patteggiamento stesso). Di qui, multe e reati gravi possono chiudersi con un accordo intorno ai 4–6 anni.

  • Rito abbreviato: scelta che consente lo sconto di pena (in molti ordinamenti di una terza). Anche qui la riduzione può portare una pena che altrimenti sarebbe stata di lunga durata verso una soglia “media”.

Quindi molte sentenze da 5 anni sono il risultato di calcolo processuale: difesa valuta rischio/beneficio, PM valuta prospettiva di condanna certa.


4. Valutazione dell’elemento psicologico: intenzione e pericolosità

Il cuore del tentato omicidio è l’animus necandi — la volontà di uccidere. Ma ricostrare l’intento non è banale:

  • Atto isolato, colpo singolo e improvviso → può esserci intenzione ma con minore gravità.

  • Atto dovuto a disturbi mentali, abuso di sostanze o semicoscienza → riduce la capacità d’intendere o di volere.

Gli accertamenti psichiatrici (perizia) influiscono molto sulla pena: se si attesta una parziale incapacità, la pena viene mitigata.


5. Fattori materiali: strumenti, modalità, probabilità di morte

La legge prende in esame anche la pericolosità oggettiva:

  • Uso di armi da fuoco a distanza ravvicinata → forte aggravante.

  • Spinta su scale, scariche isolate → rischio diverso.

  • Colpi mirati a zone non vitali o azioni simboliche → minore rischio di morte.

Se il gesto, per modalità e strumenti, aveva bassa probabilità di causare la morte, la pena può essere commisurata di conseguenza.


6. Contesto sociale e vittima: anche questo pesa

  • Provocazioni reiterate dalla vittima, stalking, violenze pregresse: il collegamento contestuale può portare a una lettura più complessa e a riduzioni di pena.

  • Relazioni familiari o affettive: i delitti nell’ambito familiare spesso vedono attenuanti — non per giustificare, ma perché il quadro psicologico è diverso.

Questo non significa impunità, ma il giudice bilancia la responsabilità penale con il contesto umano.


7. Conseguenze pratiche di una pena di 5 anni

Cinque anni scontano diverse realtà:

  • Carcere effettivo: a seconda dei benefici e della buona condotta, potrebbe tradursi in meno tempo effettivamente scontato.

  • Reinserimento: pena intermedia può permettere programmi di recupero/riabilitazione.

  • Fedina giudiziaria e lavoro: danni a lungo termine per occupazione e reputazione.

  • Vittima e riparazione: le sentenze medie spesso includono obblighi risarcitori o misure civili.


8. Critiche e interrogativi etici

Molti si chiedono: è giusto che chi tenta di uccidere riceva “solo” cinque anni? Alcune riflessioni critiche:

  • Proporzionalità vs. deterrenza: la pena deve essere proporzionata ma anche deterrente. Pene “medie” possono apparire insufficienti per la deterrenza generale.

  • Prevenzione vs. punizione: investire in salute mentale, mediazione e misure preventive talvolta è più efficace che lunghe detenzioni.

  • Percezione pubblica: la percezione di “leggerezza” delle pene mina la fiducia nel sistema giudiziario, specialmente per i familiari delle vittime.


9. Per approfondire (linee per un reportage)

Se vuoi trasformare questo pezzo in un reportage o inchiesta, qui ci sono piste pratiche:

  • Interviste a avvocati penalisti e a pubblici ministeri per capire il ragionamento dietro i patteggiamenti.

  • Conversazioni con psichiatri forensi sulle perizie e il loro peso.

  • Racconti di vittime e familiari per raccontare l’impatto umano di una pena “media”.

  • Analisi statistica (se disponibile) su durata media delle pene per tentato omicidio nel tuo ordinamento.

  • Focus su casi emblematici (senza nomi sensibili) per mostrare la varietà delle situazioni.


10. Conclusione: la pena è cifra, non racconto intero

Cinque anni sono un numero con una storia alle spalle: fatti, intenzioni, meccanismi processuali, contesto psicologico e ragionamenti politici. Per giudicare occorre guardare il fascicolo, non solo il titolo del reato. Come blogger, il mio invito è a non fermarsi alla colonna della pena: cercate le cause, ascoltate le vittime, parlate con chi lavora nel sistema penale e provate a raccontare la complessità senza semplificazioni.



La musica di James Blunt è quel tipo di emozione che arriva senza rumore, ma resta impressa come una luce che continua a brillare anche quando la canzone finisce.

 

James Blunt: la voce che trasforma il quotidiano in spettacolo

C'è qualcosa di raro nella musica di James Blunt: la capacità di trasformare emozioni private — gelosia, rimpianto, stupore — in brani che suonano come confessioni universali. Da quando è esploso sulla scena mondiale con Back to Bedlam, Blunt ha costruito un’immagine artistica che unisce sincerità narrativa, melodie immediatamente riconoscibili e una voce che sembra voler raccontare una storia dietro ogni nota. (Wikipedia)

Dal regno militare alle luci del palcoscenico

La sua traiettoria personale aggiunge profondità al suo lavoro: ex ufficiale dell’esercito britannico, Blunt ha portato nella musica una prospettiva adulta e talvolta malinconica che pochi pop-singer riescono a comunicare. Questa esperienza di vita si sente nelle dinamiche delle sue canzoni — non negli artifici, ma in quella sobria maturità emotiva che le rende credibili. (Wikipedia)

Brani che restano addosso

Parlare di James Blunt significa inevitabilmente evocare hit come “You’re Beautiful” e “Goodbye My Lover”: pezzi che non sono solo successi radiofonici, ma veri e propri momenti collettivi. La forza di questi brani sta nella semplicità — linee melodiche essenziali, arrangiamenti che non sovraccaricano, e testi che colpiscono dritti al centro dell’esperienza umana. Il risultato è musica “spettacolare” non per effetti speciali, ma per la sua capacità di restare attaccata alla memoria emotiva dell'ascoltatore. (Wikipedia)

Evoluzione e coerenza

Nel corso degli anni Blunt non ha inseguito mode effimere: ha ampliato la sua tavolozza sonora restando fedele a un pop-rock melodico con venature folk. L’artista ha saputo rinnovarsi senza perdere il nucleo che lo rende riconoscibile — la scrittura intima, il fraseggio vocale inconfondibile, l’abilità nel costruire crescendo emotivi che culminano in ritornelli indimenticabili. (Wikipedia)

L’ultimo capitolo (e perché vale la pena ascoltarlo)

Anche recentemente Blunt ha continuato a pubblicare lavori che meritano attenzione: il suo settimo album Who We Used to Be (2023) conferma la volontà di esplorare nuovi registri sonori mantenendo la sua cifra emotiva. Il disco mostra un artista consapevole, capace di mescolare semplicità pop e sfumature più moderne, invitando l’ascoltatore a viaggiare fra ricordi e piccole rivelazioni quotidiane. (Wikipedia)

Perché ascoltarlo — una guida rapida

  • Ascolta Back to Bedlam se vuoi capire l’impatto che ha avuto sulla musica pop degli anni 2000. (Wikipedia)

  • Metti in cuffia “You’re Beautiful” e poi “Goodbye My Lover” per percepire la gamma emotiva di Blunt: dall’estasi malinconica alla confessione dolorosa. (Wikipedia)

  • Prova Who We Used to Be per sentire l’artista oggi: più maturo, ma ancora capace di trasformare il banale in poesia pop. (Wikipedia)

Conclusione

La “musica spettacolare” di James Blunt non si misura in virtuosismi strumentali, ma nell’onestà con cui racconta storie comuni. È musica che si avvicina piano, ti prende per mano e — senza clamore — ti lascia qualcosa di diverso: un ricordo, una nostalgia, qualche lacrima. Ed è proprio quella capacità di farsi personale e insieme collettiva che rende Blunt un artista degno di ascolto continuo.

Se vuoi, posso preparare una playlist curata per diverse ore del giorno (mattina riflessiva, pomeriggio nostalgico, sera intensa) o un post social breve da pubblicare sul tuo blog con gli estratti migliori — dimmi cosa preferisci e procedo.



Ascolta chi non è stato guardato: la loro voce è verità, la nostra fiducia può restituire dignità.

 

Il rifiuto economico: quando la povertà diventa tabù sociale

Sottotitolo: Come l’essere poveri trasforma persone in “altro”, frattura comunità e alimenta esclusione — e cosa possiamo fare per ricucire.


La povertà non è solo una questione di soldi: è un linguaggio che tutto comunica — sguardi, silenzi, regole non scritte. In molte comunità, e spesso senza che ce ne rendiamo conto, l’essere poveri si trasforma in un marchio sociale che porta con sé vergogna, sospetto e rifiuto. Questo articolo esplora perché nascono questi tabù economici, che effetti producono nella vita quotidiana delle persone e come i cittadini, i media e le istituzioni possono iniziare a rovesciare questa narrativa.

Un piccolo racconto — per aprire

Immagina Sara: lavora come commessa, vive in un monolocale e non può permettersi i corsi di formazione che circolano in città. Quando al bar di quartiere c’è un aperitivo “tra amici” lei non viene invitata. Alla riunione di condominio, le proposte di miglioramento vengono approvate senza neanche consultarla. Non è questione di cattiveria esplicita: è che il suo essere “di meno” è diventato una categoria invisibile che giustifica l'esclusione.

Perché si crea il tabù della povertà?

  1. Stereotipi culturali: La narrazione dominante associa successo a merito personale e povertà a fallimento. Questo semplifica la complessità delle condizioni economiche e moralizza la distanza sociale.

  2. Paura e vergogna: Molti membri della comunità preferiscono non riconoscere la povertà perché ciò implica responsabilità collettiva: aiutare, redistribuire, cambiare regole.

  3. Segregazione spaziale: Quartieri, servizi e scuole differenziano l’accesso alla qualità di vita. Dove la distanza fisica cresce, cresce anche la distanza emotiva.

  4. Politiche pubbliche frammentarie: Assenza di politiche inclusive o programmi di integrazione sociale rafforzano l’idea che certe persone “non appartengano”.

  5. Consumismo e status signaling: In società dove il valore si misura in beni visibili, chi non può partecipare all’affollato mercato simbolico è etichettato e marginalizzato.

Effetti concreti — non sono solo “cattivi sentimenti”

  • Isolamento sociale: esclusione da eventi, reti professionali e opportunità non ufficiali (il cosiddetto “networking informale”).

  • Salute mentale: ansia, depressione e senso di inutilità aumentano quando l’identità è ridotta a una condizione economica.

  • Accesso ai servizi: pregiudizi possono condizionare il trattamento in scuole, ospedali, agenzie del lavoro.

  • Trasmissione intergenerazionale: i figli assorbono stigma e limitano le proprie ambizioni, rafforzando il ciclo della povertà.

  • Erosione della fiducia comunitaria: la società perde coesione — crescere insieme diventa più difficile.

Quando l’esclusione diventa globale

Il tabù economico non si limita al vicinato: viaggia sui social, in programmi televisivi, nella pubblicità. Si costruiscono immagini globali di “chi merita” e “chi no”. Questo crea un contesto dove le persone povere diventano “altri” non solo localmente ma anche nelle narrative nazionali e internazionali.

Cosa si può fare — strategie pratiche

Per i singoli

  • Ascoltare senza giudizio. Dare voce e spazio alle storie, non alle etichette.

  • Condividere risorse informali. Inviti inclusivi, passaggi per corsi di formazione, condivisione di informazioni utili.

  • Riconoscere i pregiudizi. Chiedersi: se fossi al posto di quella persona, come vorrei essere trattato?

Per la comunità e i media

  • Racconti che umanizzano. Promuovere storie che mostrino capacità, aspirazioni e complessità — non solo “bisogno”.

  • Eventi inclusivi e a basso costo. Festival, corsi e riunioni che non richiedono spese d’ingresso evitano la separazione sociale.

  • Formazione anti-stigma per operatori dei servizi. Sanità, scuola e enti locali dovrebbero essere luoghi di accoglienza, non giudizio.

Per le istituzioni e le imprese

  • Politiche che favoriscano l’accesso. Trasporti, tariffe scalate, borse di studio e sostegno all’occupazione locale.

  • Partecipazione nei processi decisionali. Coinvolgere rappresentanti di tutte le fasce economiche nelle scelte che riguardano il quartiere.

  • Sostegno alle reti locali. Investire in cooperative, centri comunitari e servizi che riducono la distanza economica.

Un invito all’azione — piccoli passi, grande impatto

Sconfiggere il tabù della povertà richiede una doppia mossa: cambiare narrazione e cambiare strutture. È possibile iniziare da qui:

  • Organizza o promuovi un evento gratuito nel tuo quartiere.

  • Scrivi e condividi storie che mostrino il lato umano dietro la condizione economica.

  • Sostieni progetti locali che facilitano l’accesso (biblioteche, sportelli di orientamento, corsi).

Conclusione

Il rifiuto economico ci impoverisce tutti: toglie dignità alle persone, frammenta le comunità e indebolisce la salute sociale. Rompere il tabù non è solo un gesto di carità, è un atto di giustizia e intelligenza collettiva. Quando smettiamo di vedere la povertà come un “difetto” e iniziamo a considerarla una responsabilità comune, apriamo la strada a città più giuste, relazioni più sane e opportunità reali per tutti.


Meta description (suggerita): Come la povertà diventa tabù sociale, produce esclusione e quali azioni concrete possiamo mettere in campo per ricostruire comunità inclusive.

Snippet social (suggerito): "Quando la povertà diventa un tabù, perdiamo tutti. Perché la vera ricchezza è una comunità che include — non che scarta."

Tag: inclusione sociale, povertà, stigma, comunità, politiche urbane.



mercoledì 3 dicembre 2025

Regala uno spazio in più: basta un respiro concesso perché qualcuno possa ricominciare a fiorire.



Oggi il Mondo Chiede Silenziosamente una Cosa: Regalare Spazio

C’è qualcosa nell’aria oggi. Lo avverti passeggiando, lo percepisci nelle espressioni delle persone, nei loro movimenti rapidi, nella tensione che scivola come una corrente sotterranea. È una giornata che sembra chiedere, quasi sottovoce: regala spazio.

Non spazio materiale—non solo, almeno—ma spazio umano. Spazio mentale. Spazio emotivo. Spazio per respirare. Spazio per esserci.

Viviamo in un tempo compresso, dove ogni minuto sembra dover produrre un risultato e ogni gesto è misurato dal suo rendimento. Eppure, proprio oggi, la vita sembra invitarci a rallentare e osservare una verità semplice: nessuno cresce, nessuno fiorisce, senza uno spazio generoso intorno a sé.

Lo Spazio Come Dono Quotidiano

Pensiamo per un istante a quanto può cambiare una giornata quando qualcuno ci concede un piccolo spazio in più:

  • un ascolto non affrettato,

  • una risposta che non giudica,

  • uno sguardo che non pretende,

  • una pausa che non pressa.

Non costa nulla, ma vale tutto.

Offrire spazio agli altri significa anche restituire dignità. Vuol dire comunicare: “Puoi essere ciò che sei. Puoi respirare accanto a me. Puoi crescere.”
E questo, in un mondo che corre, è già rivoluzionario.

Lo Spazio Come Coraggio

C'è chi ha bisogno di spazio per capire cosa sente.
Chi ne ha bisogno per guarire.
Chi per creare.
Chi per sognare senza sentirsi in colpa.

Concedere spazio è un atto di fiducia: permetti all’altro di stare senza essere controllato, incasellato o accelerato.

Ma è anche un atto verso noi stessi. Quando concediamo spazio, lo stiamo creando anche dentro di noi. Come se una parte del nostro essere si liberasse da pesi invisibili.

Oggi Può Essere l’Inizio

Proviamo allora a immaginare che quella di oggi non sia solo una giornata come tante, ma una soglia. Un piccolo invito a cambiare ritmo, relazione, presenza.

Lascia uno spazio in più:

  • a chi vive con te,

  • a chi incroci per strada,

  • a chi ti scrive,

  • a chi non riesce a dirti quello che sente.

E non dimenticare te stesso: regalati uno spazio dove non devi performare, spiegare, dimostrare. Uno spazio che ti riconnette a te.

Il Mondo ha Fame di Spazio

Siamo in un’epoca satura di parole, immagini, desideri accumulati. Eppure ciò che manca davvero è proprio ciò che non si vede: uno spazio sano in cui lasciarsi essere.
Un mondo che si dona spazio diventa automaticamente un mondo più gentile, più pulito, più umano.
Un mondo che respira.

Forse, il messaggio della giornata di oggi è tutto qui:
non servono grandi gesti per cambiare la vita di qualcuno. A volte basta solo un po’ di spazio in più.




martedì 2 dicembre 2025

“Ogni volta che uno schermo decide cosa vedere al posto tuo, chiediti: è ancora il mondo che guardo io, o sono io a essere guardato dal mondo degli algoritmi?”

 L’ombra lunga dell’era Covid: algoritmi, controllo di massa e futuro della libertà interiore


Negli anni della pandemia ci siamo abituati a pensare al Covid come a un’emergenza sanitaria, economica, psicologica. Meno evidente – ma potentissima – è l’ombra che quell’era ha proiettato sul modo in cui il potere osserva, misura e orienta le nostre vite attraverso gli algoritmi.

Non è solo complotto, non è solo “sistema cattivo”: è l’intreccio molto concreto tra paura, tecnologia e dati. In quell’intreccio, l’essere umano rischia di diventare sempre più profilo, percentuale, previsione.

In questo articolo entriamo dentro questa ombra: come la pandemia ha accelerato il controllo digitale, che ruolo giocano gli algoritmi e quali spazi di libertà possiamo ancora coltivare.


1. Covid come “grande acceleratore” digitale

Diversi studi parlano del Covid-19 come di un “great accelerator”: in pochi mesi ha spinto governi, aziende, scuole e cittadini verso una digitalizzazione che, senza pandemia, avrebbe richiesto anni.(PMC)

Alcuni fenomeni chiave:

  • Esplosione del lavoro da remoto: piattaforme di videoconferenza, tool collaborativi, sistemi di monitoraggio della produttività, log di attività, tracciamento di accessi e tempi.(PMC)

  • Digitalizzazione forzata dei servizi: pubbliche amministrazioni, banche, sanità, scuola – tutti hanno spostato processi e relazioni su canali digitali.(OECD)

  • Crescita della sorveglianza sanitaria digitale: app di contact tracing, piattaforme di monitoraggio, sistemi di analisi dei flussi di mobilità.(PMC)

Questa accelerazione ha avuto anche lati positivi (più efficienza, nuove possibilità di lavoro, servizi più accessibili). Ma ogni volta che una nuova tecnologia entra nella nostra vita, porta con sé un nuovo livello di visibilità su ciò che facciamo.

La domanda non è: “La tecnologia è buona o cattiva?”.
La vera domanda è: chi guarda attraverso quella tecnologia, cosa vede e per quali finalità?


2. Dal tracciamento dei contagi al tracciamento delle vite

Durante la pandemia, il discorso pubblico ha normalizzato un principio: per proteggere la salute collettiva è legittimo raccogliere più dati su di te.

Ecco alcuni esempi di come è stato declinato:

  • App di contact tracing: telefoni che registrano quali dispositivi incontri, quando e per quanto tempo, per stimare il rischio di esposizione al virus.(PMC)

  • Pass sanitari e certificazioni digitali: sistemi per controllare accessi a luoghi di lavoro, trasporti, eventi, basati su informazioni sanitarie personali.

  • Sorveglianza digitale sperimentale: in alcuni paesi, utilizzo incrociato di dati di geolocalizzazione, telecamere, riconoscimento facciale, pagamenti elettronici, social network, per tracciare movimenti e contatti.(Nature)

Molti di questi strumenti sono stati introdotti con finalità legittime di salute pubblica. Ma giuristi, filosofi e attivisti hanno sollevato un punto cruciale: una volta che un’infrastruttura di sorveglianza esiste, è molto difficile spegnerla davvero.(timreview.ca)

Lo schema è semplice:

  1. Crisi → accettiamo controlli più invasivi “perché è emergenza”.

  2. L’emergenza passa, ma le infrastrutture, i dati, le abitudini restano.

  3. Quelle stesse infrastrutture possono essere riutilizzate per altri scopi (sicurezza, marketing, controllo sociale, profilazione politica).

Non è fantascienza: è la dinamica classica di ogni espansione dei poteri di sorveglianza.


3. Algoritmi come nuovo dispositivo di controllo

Se l’era Covid ha spinto la raccolta di dati, gli algoritmi sono il cervello che decide cosa fare con quei dati.

3.1. Algoritmi nel lavoro

Già prima della pandemia, il mondo delle piattaforme (rider, autisti, gig economy) viveva dentro un universo in cui il “capo” è un algoritmo: punteggi, ranking, assegnazione delle consegne, valutazione delle performance.(International Labour Organization)

Con il lavoro da remoto e l’esplosione di software di monitoraggio (time tracking, screenshot automatici, analisi di produttività), questa logica si è estesa:

  • l’attività del lavoratore diventa flusso di dati,

  • i dati alimentano sistemi che valutano, segnalano, suggeriscono sanzioni o premi,

  • le decisioni possono diventare automatiche, opache, difficili da contestare.

Studi e casi legali in Europa mostrano come la pandemia abbia intensificato il dibattito su diritti dei lavoratori, trasparenza degli algoritmi, limiti alla sorveglianza digitale in azienda.(Consiglio Europeo)

3.2. Algoritmi nei social e nell’informazione

Durante l’era Covid, l’infosfera è stata dominata da feed personalizzati, raccomandazioni e moderazione automatizzata di contenuti:

  • piattaforme che decidono cosa mostrarti in base al tuo profilo;

  • sistemi di raccomandazione che amplificano contenuti più ingaggianti (non sempre più veri o più utili);

  • algoritmi che filtrano, rimuovono o declassano contenuti ritenuti problematici (disinformazione, odio, ecc.).

In pratica, una buona parte di ciò che hai pensato, discusso, temuto o sperato sulla pandemia è passata attraverso una selezione algoritmica invisibile.

Questo non significa che ci sia stato un “piano unico mondiale di controllo mentale”. Significa però che:

  • il tuo sguardo sul mondo è mediato da sistemi che non controlli;

  • quei sistemi rispondono a logiche economiche e politiche precise;

  • la pandemia ha reso ancora più evidente quanto questa mediazione possa orientare emozioni, paure, atteggiamenti verso il potere.


4. Dalla sicurezza alla normalizzazione del controllo

Uno dei passaggi più delicati è psicologico: quando il controllo viene giustificato con la parola “sicurezza”, la nostra soglia di tolleranza sale moltissimo.

Ricerche sul rapporto tra pandemia, big data e sorveglianza mostrano che molti cittadini sono disposti ad accettare forme più invasive di monitoraggio se percepite come necessarie per “il bene comune”, soprattutto in situazioni di rischio estremo.(timreview.ca)

Il problema è che:

  • la paura è un acceleratore straordinario di poteri di eccezione;

  • l’eccezione tende a diventare struttura permanente;

  • ciò che oggi accetti per una pandemia, domani potresti ritrovartelo per altre emergenze (terrorismo, crisi climatica, dissenso sociale, migrazioni).

Si crea così un nuovo “contratto implicito”:

Ti lascio guardare più in profondità nella mia vita, in cambio della promessa di protezione.

Ma chi garantisce che, domani, quella stessa infrastruttura non verrà usata per qualcosa che non avresti mai accettato?


5. L’ombra più sottile: interiorità sotto pressione algoritmica

C’è un altro livello, più intimo e meno visibile: la relazione tra algoritmi e spazio interiore.

Durante i lockdown:

  • siamo rimasti per mesi dentro ecosistemi digitali;

  • emozioni, ansie, solitudini sono state continuamente rimbalzate attraverso schermi, notifiche, feed;

  • la dipendenza da flussi di informazione istantanea ha ridisegnato i nostri ritmi psicologici.

L’algoritmo non controlla solo cosa vedi, ma quando e con che intensità:

  • ti propone contenuti che alimentano la tua paura o la tua indignazione (perché generano engagement);

  • ti cattura in spirali di doomscrolling;

  • ti rende progressivamente meno capace di stare nel silenzio, nell’incertezza, nell’assenza di stimolo.

In questo senso, il vero “controllo di massa” non è un telecomando che qualcuno preme dall’alto.
È una ristrutturazione graduale della tua attenzione, del tuo tempo, della tua sensibilità.

Se ti abitui a reagire solo agli stimoli algoritmici:

  • diventi più prevedibile;

  • sei più facile da modellare;

  • sei meno disponibile a immaginare alternative.


6. Come attraversare l’ombra: pratiche di disinnesco

La buona notizia è che, dentro questo scenario, non siamo completamente impotenti. Non possiamo fermare da soli le infrastrutture globali, ma possiamo riaprire margini di libertà concreta.

Alcune direzioni possibili:

6.1. Alfabetizzazione algoritmica

Non basta “sapere che esistono gli algoritmi”. Serve imparare a farsi domande:

  • perché vedo questo contenuto e non un altro?

  • chi guadagna se io passo qui un’ora in più?

  • quali dati sto regalando quando uso questa app?

Piccoli gesti:

  • variare le fonti di informazione (non solo social, ma anche siti diversi, libri, newsletter indipendenti);

  • disattivare le notifiche non essenziali;

  • controllare e limitare i permessi delle app, soprattutto quelle introdotte “in emergenza”.

6.2. Difesa dei diritti digitali

Sul piano collettivo, si stanno sviluppando:

  • regolamentazioni sull’uso degli algoritmi nel lavoro (trasparenza, limiti alla sorveglianza, diritto all’intervento umano);(Consiglio Europeo)

  • dibattiti etici e giuridici sul tracciamento dei dati sanitari e il loro uso post-pandemia.(pcpd.org.hk)

Sostenere associazioni, movimenti e campagne che lavorano su questi temi è un modo concreto per spostare l’equilibrio tra controllo e diritti.

6.3. Rituali di disconnessione e presenza

C’è poi una forma di resistenza più silenziosa, ma potentissima: riconquistare territori non algoritmici nella propria vita.

  • camminare senza telefono in mano;

  • creare spazi della giornata senza schermo (anche solo mezz’ora al giorno);

  • dedicarsi ad attività non quantificabili (arte, scrittura personale, contemplazione, ascolto della natura).

Sono gesti “piccoli”, ma minano alla base la logica del controllo totale: riaffermano che esiste una parte di te non riducibile a dato.


7. Verso un nuovo patto con la tecnologia

L’ombra dell’era Covid non è solo il ricordo delle restrizioni, ma il lascito di un’infrastruttura di controllo potenziale resa più potente, più ramificata, più socialmente accettata.

Non si tratta di negare la pandemia, né di rifiutare in blocco la tecnologia.
Si tratta di rifiutare un’idea: che la sicurezza e l’efficienza giustifichino qualsiasi forma di visibilità totale su corpi, relazioni, pensieri.

Il punto non è tornare al “prima”, ma immaginare un dopo in cui:

  • l’uso degli algoritmi sia trasparente, contestabile, limitato;

  • la raccolta dei dati sia proporzionata, reversibile, governata democraticamente;

  • le persone coltivino consapevolmente spazi interiori, relazionali e fisici sottratti alla logica del tracciamento permanente.

In fondo, il vero terreno di gioco degli algoritmi è la nostra attenzione.
Ogni volta che scegli di usarla in modo libero – fuori dallo script previsto – stai già interrompendo, almeno per un momento, il meccanismo del controllo di massa.

Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare questo articolo in una serie di post (blog o social) a puntate, o aggiungere box di approfondimento con riferimenti filosofici (Foucault, Zuboff, Han, ecc.) per entrare più a fondo nel tema del potere e della sorveglianza.



“L’Italia cammina alla luce della propria Costituzione, ma porta ancora addosso le ombre di patti con l’America che nessuno ha mai davvero raccontato fino in fondo.”

 L’ombra lunga dell’aquila: cosa non ci raccontiamo davvero sul rapporto Italia–USA


Quando pensiamo agli Stati Uniti in Italia, ci vengono in mente i film doppiati, le felpe delle università americane, le basi NATO ai margini delle nostre città. È la narrazione dell’“alleato forte”, del fratello maggiore che ci ha aiutato a rialzarci dopo la guerra.

Ma sotto questa superficie rassicurante ci sono zone grigie: accordi mai pubblicati, basi militari che incidono sulla nostra politica estera, capitoli controversi come Gladio e la strategia della tensione. Non è complottismo, è storia. E, soprattutto, è una storia che spesso conosciamo solo a metà.

In questo articolo proviamo ad aprire qualche sipario, sapendo che la “verità totale” non la possiede nessuno, ma che abbiamo il dovere di farci domande scomode.


1. Il patto con l’America: rinascita… e vincolo

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia è un Paese distrutto, povero, spaccato tra spinte socialiste/comuniste e blocco occidentale. È in questo contesto che arrivano gli Stati Uniti con due strumenti potentissimi:

  • Il Piano Marshall (European Recovery Program), annunciato da George Marshall nel 1947: oltre 12,7 miliardi di dollari di aiuti all’Europa, di cui una quota importante all’Italia, per comprare materie prime, derrate alimentari e ricostruire infrastrutture.(Wikipedia)

  • L’ingresso nella NATO (1949), che inserisce l’Italia formalmente nel blocco occidentale guidato dagli USA.(LaMaddalena.info)

Da un lato è stato ossigeno puro: senza quegli aiuti la ricostruzione sarebbe stata molto più lenta e dolorosa. Dall’altro, storici e analisti sottolineano come da lì in poi gli USA abbiano esercitato un’egemonia economica, politica e culturale sull’Europa occidentale, Italia compresa.(Geopop)

Tradotto in parole semplici: abbiamo ricostruito casa nostra con i mattoni americani, ma in parte abbiamo accettato anche che fossero loro a decidere l’urbanistica.


2. Basi militari: ospiti o coinquilini ingombranti?

La presenza di basi e installazioni militari statunitensi in Italia inizia formalmente nel 1951, con accordi nel quadro della NATO.(Wikipedia)

Secondo una ricostruzione del 2013, sul territorio italiano erano presenti 9 basi/installazioni con personale USA (incluse quelle NATO), con circa 13.000 militari.(Wikipedia)

Fra i nodi più importanti:

  • Aviano (Friuli-Venezia Giulia) – base aerea chiave per le operazioni NATO in Europa e Mediterraneo.(RaiNews)

  • Sigonella (Sicilia) – hub della US Navy e delle operazioni nel Mediterraneo e in Medio Oriente (anche per droni e missioni di sorveglianza).(RaiNews)

  • Camp Darby (tra Pisa e Livorno) – enorme deposito logistico di munizioni, armi e mezzi militari, collegato direttamente al porto di Livorno e all’aeroporto di Pisa; definito supporto essenziale per operazioni su larga scala nel Mediterraneo.(Italian Facts)

Tutte queste strutture esistono in virtù di una fitta rete di accordi:

  • Accordo bilaterale USA–Italia sull’assistenza difensiva reciproca (Accordo di Washington, 1950)

  • Accordo bilaterale sulla sicurezza reciproca (Accordo di Roma, 1952)(iusinitinere.it)

  • Bilateral Infrastructural Agreement (BIA, 1954): un accordo ancora classificato che disciplina la presenza militare americana nelle infrastrutture italiane (Vicenza, Napoli, Gaeta, Sigonella, ecc.).(Limes)

Qui emerge la prima ombra: molto di ciò che regola la presenza militare USA in Italia non è pubblico. Parlamentari, costituzionalisti e associazioni chiedono da anni maggiore trasparenza, perché è difficile parlare seriamente di sovranità se i cittadini non possono leggere i trattati che riguardano il loro territorio.(iusinitinere.it)


3. Il nodo della sovranità: chi decide cosa succede sulle nostre basi?

Dal punto di vista formale, le basi sono su suolo italiano e sottoposte alla nostra sovranità. Ma nella pratica, l’operatività americana è molto ampia, e non sempre è chiaro:

  • chi autorizza l’uso di una base per un’operazione militare lontano dall’Italia,

  • quanto è coinvolto il Parlamento,

  • se certe missioni siano compatibili con l’articolo 11 della Costituzione, che “ripudia la guerra come strumento di offesa”.

Giuristi e studiosi hanno sollevato dubbi soprattutto quando le basi italiane sono state usate in operazioni controverse (Iraq, Libia, operazioni con droni, come nel caso dell’uccisione del generale iraniano Soleimani, che ha acceso un dibattito anche sul ruolo di Sigonella e Aviano).(iusinitinere.it)

Il punto non è “America sì, America no”, ma una domanda molto semplice e molto poco discussa nel dibattito pubblico:

Siamo davvero noi – come comunità politica – a decidere come viene usato il nostro territorio?


4. Gladio e strategia della tensione: il retroscena più oscuro

Quando si parla di “ombre” nei rapporti Italia–USA, il capitolo più delicato è quello degli anni di piombo e della cosiddetta strategia della tensione.

La “strategia della tensione” indica un piano volto a creare paura diffusa nella popolazione tramite atti terroristici, con l’obiettivo di destabilizzare l’ordine costituito e favorire assetti più autoritari. Il termine viene associato in particolare all’Italia degli anni ’60–’70.(Wikipedia)

Su questo sfondo si inserisce l’Operazione Gladio: una struttura clandestina paramilitare, collegata alla NATO, pensata come “stay-behind” nel caso di invasione sovietica. L’esistenza di Gladio è documentata e ricostruita da:

  • atti parlamentari e una commissione d’inchiesta italiana;(Senato della Repubblica)

  • studi come quelli di Daniele Ganser sugli “eserciti segreti della NATO”, che evidenziano il ruolo di reti clandestine in diversi paesi europei.(Thesis UniPD)

Le domande – ancora oggi non del tutto risolte – sono pesanti:

  • fino a che punto queste strutture parallele hanno influenzato la nostra vita democratica?

  • c’è stato un ruolo diretto o indiretto di apparati occidentali (inclusi quelli statunitensi) nei depistaggi o nella copertura di alcuni attentati?

Qui bisogna essere onesti: non esistono prove conclusive che chiudano la questione in modo semplice. Ci sono documenti declassificati, testimonianze, omissioni, “non ricordo”, e un mosaico di indizi che hanno portato molti storici a parlare di un “doppio livello” dello Stato, ma non a una versione univoca.(Istituto Nazionale Ferruccio Parri)

Il retroscena di verità che possiamo permetterci, senza scivolare nella fantasia, è questo:

  • in Italia hanno operato reti segrete legate alla NATO, create in collaborazione anche con servizi occidentali, inclusi quelli USA;

  • il loro perimetro reale d’azione e il loro eventuale coinvolgimento in episodi specifici resta in parte opaco, e questa opacità è di per sé un problema democratico.


5. Soft power: l’America dentro casa nostra

Ombre non sono solo basi e servizi segreti. C’è anche un altro tipo di presenza americana, più sottile e quotidiana:

  • la cultura pop (film, serie, musica, social);

  • il modello di consumo (centri commerciali, fast food, e-commerce);

  • il linguaggio del lavoro (startup, coaching, leadership, personal brand).

In parte è un arricchimento, in parte rischia di appiattire la nostra identità e il nostro immaginario, soprattutto quando non ne siamo consapevoli. Il “sogno americano” viene importato in silenzio e diventa la misura con cui giudichiamo noi stessi: il nostro modo di fare impresa, di lavorare, perfino di raccontare il successo e il fallimento.


6. Oggi: hub di guerra in un Paese che “ripudia la guerra”

Nel 2025 le basi americane in Italia vengono descritte dalle analisi geopolitiche e dai media come snodi strategici centrali per le operazioni USA e NATO nel Mediterraneo, in Nord Africa e in Medio Oriente.(RaiNews)

Questo significa, in concreto, che:

  • l’Italia è spesso retrovia logistica di conflitti che si combattono altrove;

  • qualsiasi escalation in Medio Oriente, in Nord Africa o nell’Europa orientale ci riguarda direttamente, perché passa anche dalle nostre infrastrutture;

  • la nostra politica estera è fortemente intrecciata con le priorità strategiche di Washington.

Tutto questo mentre la nostra Costituzione continua ad affermare, nero su bianco, il ripudio della guerra. La contraddizione non è teorica: tocca scelte di vita, flussi migratori, sicurezza, investimenti, credibilità internazionale.


7. Quale verità possiamo dirci, oggi?

Se vogliamo uscire dalla narrazione infantile dell’“America amica” e, allo stesso tempo, evitare il complottismo sterile, possiamo provare a fissare alcuni punti:

  1. Gli Stati Uniti sono stati essenziali per la nostra ricostruzione economica, ma questo è avvenuto dentro una logica di blocchi e di egemonia, non come semplice gesto di altruismo.(Wikipedia)

  2. La presenza militare USA in Italia è capillare e strutturale, regolata anche da accordi segreti o poco trasparenti, sui quali il dibattito pubblico è debole rispetto al loro impatto reale.(iusinitinere.it)

  3. Gli anni della strategia della tensione e di Gladio mostrano l’esistenza di livelli paralleli di potere, in cui servizi italiani e alleati occidentali hanno interagito in modi non sempre limpidi. Non conosciamo tutta la verità, ma sappiamo abbastanza per considerare quel periodo un monito permanente.(Senato della Repubblica)

  4. Il soft power americano ha plasmato anche il nostro immaginario, spesso senza che ce ne accorgessimo. Non è “male” in sé, ma diventa un problema se smettiamo di domandarci chi siamo noi, al di là dell’imitazione.(Geopop)

  5. La vera questione, oggi, è la sovranità consapevole: possiamo essere alleati senza essere sudditi? Possiamo restare nel quadro NATO e nell’orbita occidentale pretendendo però trasparenza su basi, accordi, utilizzo del nostro territorio?


8. E adesso?

Aprire questi retroscena non significa demonizzare gli Stati Uniti, ma smettere di raccontarci una favola. L’Italia non è un personaggio secondario nel film di qualcun altro: è un Paese che ha diritto di conoscere i patti in cui è coinvolto, di discutere pubblicamente il ruolo delle basi, di chiedere verità completa sulle zone oscure del proprio passato.

La vera “ombra” non è l’America in sé.
La vera ombra è il silenzio con cui, troppo spesso, accettiamo tutto questo senza farci domande.

Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare questo articolo in una serie di post (newsletter, caroselli social, o una mini-serie di approfondimento sul tuo blog), ciascuno dedicato a uno di questi capitoli: basi, Gladio, soft power, sovranità.



«Quando mafia, guerre e profitti decidono la mappa del mondo, il terreno grida; sta a noi scegliere se restare in silenzio o diventare la sua voce.»

 Quando diciamo che “il terreno è maltrattato dai poteri forti” non stiamo usando una metafora poetica: stiamo descrivendo, in modo quasi letterale, ciò che sta accadendo a suolo, foreste, fiumi, città. Mafie, lobby economiche e guerre ridisegnano le mappe del pianeta secondo la logica del profitto e del controllo, non del bene comune.

In questo articolo proviamo a dare un nome a questi poteri, capire come pianificano il territorio e cosa significa, concretamente, “approfondire il globo” dal punto di vista delle persone, non dei board aziendali o degli eserciti.


1. Dare un nome al problema: non “poteri forti”, ma mafie, guerre, finanza estrattiva

“Poteri forti” è un’espressione generica che rischia di diventare uno sfogo e basta. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo nominare gli attori:

  • Mafie ed ecomafie: non più solo racket e droga, ma gestione illegale dei rifiuti, cemento, appalti, traffico di rifiuti tossici, speculazioni sui terreni agricoli. In Italia, il termine ecomafia viene utilizzato da Legambiente dagli anni ’90 per indicare le attività criminali organizzate che devastano l’ambiente, un settore divenuto altamente redditizio per centinaia di clan. (Wikipedia)

  • Guerre e complesso militare-industriale: i conflitti non distruggono solo vite umane, ma anche suolo, falde, biodiversità. Organizzazioni internazionali e ricercatori sottolineano come le guerre lascino dietro di sé ecosistemi contaminati, desertificati, incendi boschivi e infrastrutture tossiche. (Nazioni Unite)

  • Finanza estrattiva e land grabbing: fondi di investimento e grandi corporation acquistano o affittano enormi superfici di terra (soprattutto nel Sud globale) per agricoltura intensiva, biocarburanti, mega impianti energetici e miniere, spesso a scapito delle comunità locali. (IPES-Food)

Non è “un caso” se tante lotte territoriali in giro per il mondo assomigliano tra loro: spesso dietro c’è la stessa logica di concentrazione del potere su terra, acqua ed energia.


2. Il terreno maltrattato: tre ferite aperte sul globo

Per capire cosa significa “pianificazione del terreno maltrattato”, guardiamo tre scenari globali.

2.1. Ecomafie: quando l’illegalità ridisegna la geografia

In Italia, i rapporti annuali sulle ecomafie raccontano un Paese dove:

  • i reati ambientali restano migliaia ogni anno;

  • la gestione illegale dei rifiuti inquina suoli, fiumi e falde;

  • l’abusivismo edilizio trasforma coste, campagne e periferie in territori fragili, esposti a frane e alluvioni. (legambiente.it)

La cosa più inquietante è che la mappa dell’illegalità coincide spesso con quella della vulnerabilità sociale: dove il lavoro scarseggia e i servizi pubblici sono deboli, lì attecchiscono cave abusive, discariche illegali, capannoni pieni di rifiuti bruciati di notte.

2.2. Land grabbing: quando la terra viene “presa” a chi la abita

Negli ultimi decenni, il fenomeno del land grabbing – l’accaparramento di grandi estensioni di terra da parte di attori potenti – è esploso in molte regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Spesso le terre vengono vendute o concesse per:

  • monocolture destinate all’esportazione;

  • mega progetti “verdi” (biocarburanti, grandi impianti energetici);

  • infrastrutture e mining.

Le conseguenze sono quasi sempre le stesse: comunità sfollate, insicurezza alimentare, distruzione di ecosistemi locali. Sempre più studi sottolineano come queste operazioni, giustificate a volte con il linguaggio della “transizione ecologica”, aggravino disuguaglianze e crisi climatiche. (IPES-Food)

2.3. Guerre: il fronte invisibile è l’ambiente

Dalle città bombardate alla distruzione di infrastrutture industriali, le guerre lasciano dietro di sé un’eredità tossica:

  • in Ucraina, gli studi europei evidenziano un mix pericoloso di incendi boschivi su larga scala, inquinamento di suolo e acque e emissioni climalteranti legate alle attività belliche; (joint-research-centre.ec.europa.eu)

  • nella Striscia di Gaza, valutazioni recenti delle Nazioni Unite parlano di danni gravissimi a suoli, falde e costa, con impatti a lungo termine su salute, acqua e cibo. (UNEP - UN Environment Programme)

La guerra non devasta solo “il terreno” come scenario di combattimento: ne compromette la capacità di nutrire, dissetare, far vivere.


3. Come pianificano il territorio i poteri forti

La parola chiave è pianificazione, ma declinata al contrario di come la intendiamo dal basso.

3.1. Dall’alto verso il basso

La pianificazione del territorio viene spesso decisa:

  • in sale riunioni lontane dai luoghi;

  • attraverso strumenti tecnici incomprensibili ai cittadini (deroghe, finanza strutturata, appalti opachi);

  • con una comunicazione che “vende” ogni progetto come occasione d’oro: posti di lavoro, sviluppo, modernizzazione.

Dietro le slide patinate, però, si nascondono spesso:

  • vincoli ambientali aggirati,

  • comunità locali escluse dal processo decisionale,

  • complicità tra pezzi delle istituzioni e interessi criminali o speculativi.

3.2. L’uso delle crisi come leva

Un’altra costante è l’uso della crisi come giustificazione:

  • crisi energetica → nuovi gasdotti, trivellazioni, impianti “temporanei”;

  • crisi climatica → grandi progetti “verdi” che però cacciano le comunità dai propri territori;

  • crisi occupazionale → si accettano progetti inquinanti o opachi pur di “portare lavoro”.

Il risultato? Il territorio viene trattato come un sacrificabile, una merce da consumare per risolvere problemi nel breve periodo, spostando i costi ambientali e sociali sul futuro.


4. Un globo sotto pressione: cosa sta succedendo alla Terra

Se allarghiamo lo sguardo al globo, vediamo un disegno coerente: la terra – intesa come suolo, foreste, città, oceani – viene spremuta oltre il limite.

Alcuni segnali:

  • Le grandi foreste tropicali (Amazonia, bacino del Congo, Sud-est asiatico) stanno perdendo la loro capacità di assorbire CO₂ e, in alcune aree, sono diventate emittenti nette a causa di deforestazione, incendi e agricoltura intensiva. (The Guardian)

  • Le popolazioni che storicamente hanno custodito i territori – comunità indigene, discendenti di schiavi, piccoli agricoltori – vengono spesso spinte ai margini o private di diritti sulla terra, mentre i loro territori vengono concessi a progetti industriali o discariche. (The Guardian)

  • Crisi climatica, guerre e land grabbing si sommano, generando migrazioni di massa e spostamenti forzati: milioni di persone costrette ad abbandonare terre rese invivibili da alluvioni, siccità, inquinamento e conflitti. (The Guardian)

Il filo rosso è questo: la geografia del potere si ridisegna attraverso la geografia del danno.


5. Ripensare la pianificazione: dal potere che prende al potere che custodisce

A questo punto la domanda è: cosa significa pianificare un terreno ferito in modo diverso?

5.1. Partire dai custodi, non dai proprietari

In molti casi, i territori sono già curati da comunità che:

  • conoscono stagioni, corsi d’acqua, equilibri ecologici;

  • hanno costruito economie locali resilienti;

  • hanno un rapporto identitario con la terra.

Metterle al centro significa:

  • riconoscere diritti collettivi sulla terra, non solo proprietà individuali;

  • includerle nei processi decisionali, non come “audience” ma come soggetti politici;

  • tutelare legalmente il loro ruolo di custodi (non solo come minoranze “folkloristiche”).

5.2. Rendere visibili i costi nascosti

Ogni grande decisione territoriale dovrebbe rispondere a domande semplici:

  • Chi guadagna davvero da questo progetto?

  • Chi paga i costi ambientali e sanitari?

  • Cosa succede tra 20 o 30 anni a suolo, acqua, biodiversità?

  • Ci sono alternative più piccole, diffuse, meno impattanti?

La trasparenza non è uno slogan, ma la condizione minima per spezzare l’intreccio tra poteri forti, mafie e guerre economiche.

5.3. Spostare il potere di decidere

Una pianificazione diversa del terreno richiede nuovi luoghi di decisione:

  • assemblee cittadine e territoriali con poteri reali di proposta e veto su grandi opere;

  • bilanci partecipativi che orientino investimenti verso rigenerazione, non speculazione;

  • alleanze tra città e campagne, per evitare che le prime “scarichino” i loro problemi (rifiuti, inquinamento, consumo di suolo) sulle seconde.

Non si tratta di sostituire un potere forte con un altro, ma di passare da un potere che prende a un potere che custodisce.


6. Approfondire il globo: cambiare sguardo, non solo dati

“Approfondire il globo” significa smettere di guardare il mondo come una palla da sfruttare e cominciare a vederlo come un intreccio di relazioni:

  • tra chi abita un luogo e chi decide lontano da esso;

  • tra l’albero tagliato e l’alluvione di domani;

  • tra la guerra di oggi e il deserto di dopodomani;

  • tra il nostro stile di vita e le terre “invisibili” che lo rendono possibile.

Come persone, cittadini, lettori, possiamo:

  • informarci andando oltre i comunicati ufficiali e i titoli sensazionalistici;

  • sostenere comunità e movimenti che difendono i territori (anche solo amplificando le loro voci);

  • fare pressione sulle istituzioni, perché la pianificazione del territorio sia trasparente, partecipata e ancorata ai limiti ecologici reali.

Il terreno è maltrattato, sì. Ma non è muto. Ogni frana, ogni falda inquinata, ogni foresta che brucia, sono messaggi chiari. Sta a noi decidere se restare pubblico passivo di una mappa disegnata da mafie, guerre e finanza, o se mettere mano – insieme – a una nuova cartografia del pianeta, dove il potere forte è quello di chi cura, non di chi consuma.



Mediaset non è stata solo televisione, ma una leva di potere capace di trasformare la visibilità in fiducia, le aziende in marchi e il lavoro invisibile dietro le quinte in un’influenza che ha segnato un’epoca.

  Mediaset: il grande potere televisivo che ha plasmato l’immaginario collettivo e il mercato Per decenni Mediaset non è stata soltanto una ...