domenica 28 settembre 2025

Das Boot (Wolfgang Petersen, 1981/1997) (Avviso spoiler. Ovviamente)

 Das Boot (Wolfgang Petersen, 1981/1997) (Avviso spoiler. Ovviamente) Das Boot è implacabile. Sì, ti farà battere il cuore, ma non è eccitante, almeno, non nel senso tradizionale. Anche i film d'azione più frenetici sanno che di tanto in tanto bisogna riprendere fiato, che troppa tensione può diventare insopportabile. Anche il regista Wolfgang Petersen lo capisce, e lo sfrutta al meglio. La differenza è che vuole spingere gli spettatori sull'orlo di ciò che possono sopportare. Vuole che sia insopportabile, e ci riesce brillantemente. Das Boot è ambientato durante la seconda guerra mondiale e, dopo un po' di materiale introduttivo, la stragrande maggioranza del film si svolge negli stretti confini di un sottomarino tedesco. Fa caldo, è sudato e scomodo e la macchina da presa (sapientemente coordinata da Petersen e dal direttore della fotografia Jost Vacano) sfreccia spesso da un'estremità all'altra della barca. Anche quando il ritmo rallenta, puoi sentire i muri che ti premono addosso. Lo scricchiolio del sottomarino, il tintinnio del sonar e il suono terrificante delle bombe di profondità che esplodono si aggiungono alla natura viscerale dell'esperienza. È fondamentalmente Claustrofobia: il film... per tre ore e mezza. Sì, avete letto bene. Ci sono più versioni del film e, anche se non le ho viste tutte, la versione che consiglio volentieri è la Director's Cut, che dura 208 minuti. È un sacco di film, e potrebbe essere troppo per una sola visione, sia per la lunghezza che per la tensione implacabile. Ma questo è il punto. Dovresti sentirti come se fossi bloccato sulla barca. Dovresti sentire la claustrofobia. Dovresti sentirti esausto alla fine. E che finale. Dopo oltre tre ore di tensione e suspense, la barca arriva dove è stata diretta per tutto il tempo, solo per essere bombardata. La maggior parte dei soldati con cui sei stato per tutto il tempo, incluso il capitano (brillantemente interpretato da Jürgen Prochnow), sono morti. La fine. A François Truffaut si attribuisce il merito di aver detto qualcosa sul fatto che è molto difficile fare un film contro la guerra, e penso che avesse ragione. I film rendono la violenza eccitante, il che significa che i film di guerra spesso si trasformano in film d'azione. Sembra che ci sia l'ipotesi che la violenza grafica in un film di guerra lo renda contro la guerra, ma penso che sia un termine improprio. È tutta una questione di tono, approccio e filosofia che c'è dietro. E alla fine, si tratta del finale. Te ne vai sentendo orgoglio e patriottismo? Te ne vai facendo il tifo per i "bravi ragazzi"? Se è così, allora non credo che fosse un film contro la guerra. Potrebbe aver cercato di essere contro la guerra, ma alla fine è diventato un film sulla guerra, non necessariamente una cosa negativa, tra l'altro. Ma Das Boot non riguarda l'eroismo e il patriottismo. Non si tratta di emozioni. Non è un film d'azione. La sensazione generale che probabilmente avrete dopo aver visto Das Boot è che sia stato tutto uno spreco, non uno spreco di tempo, ma uno spreco di vita. Tutti quegli sforzi per rimanere in vita, tutto quel sfrecciare attraverso la barca, tutta la paranoia e la claustrofobia... Tutto ciò non significava nulla. Tutto portava inevitabilmente allo stesso luogo: morte e distruzione. Perché? Perché la guerra è l'inferno, ed è quello che fa. Das Boot lo sa e vuole che lo spettatore lo sperimenti. Sì, è desolante, ma è anche onesto.



Quando smetti di fissare il dito e ti lasci attraversare dal silenzio, scopri che il presente non è un attimo: è la Presenza che ti contiene interamente.



Una sola parola che risveglia: il potere della Presenza

Viviamo in un mondo saturo di stimoli, dove le parole si accavallano in un flusso incessante, e spesso perdono il loro peso. Eppure, se la prontezza interiore è matura, basta una sola parola a risvegliarci. Non è magia, non è suggestione: è lo spazio di coscienza che si apre quando smettiamo di aggrapparci al rumore e ci lasciamo attraversare dal silenzio.

Il dito e la Luna

Il maestro zen ammoniva: “Il dito che indica la luna non è la luna.”
Il “Potere dell’Adesso”, di cui parlano i testi spirituali, funziona nello stesso modo: non è un concetto da analizzare, né un dogma da seguire. È un’indicazione. Se restiamo fermi al dito — alle parole, ai discorsi, alle teorie — rischiamo di perderci la vastità del cielo notturno che esse cercano di svelare.

La verità non abita nei simboli, ma nello spazio che essi indicano.

Quando il silenzio parla

Ciò che conta non è la parola in sé, ma il silenzio che la sostiene. Una frase, una lettura, persino un suono può risuonare dentro di noi e aprire una breccia nell’automatismo della mente.
Quando accade, non è l’io a comprendere: è la coscienza che riconosce sé stessa. È come se l’Ora — questo presente eterno — ci inghiottisse completamente, lasciando cadere ogni resistenza, ogni pensiero superfluo.

Rimane solo la Presenza. Una chiarezza quieta, senza tempo.

L’arte del risveglio semplice

Troppo spesso cerchiamo la trasformazione nelle complicazioni: nuove tecniche, percorsi elaborati, viaggi lontani. Ma il risveglio, nella sua essenza, è semplice. Non richiede accumulo, bensì abbandono.
A volte basta fermarsi un istante, respirare, ascoltare il battito nascosto della vita dentro di noi. Da lì, una parola può diventare rivelazione.

Non perché sia speciale in sé, ma perché trova terreno fertile in una mente disponibile, pronta a smettere di trattenere.

Oltre le parole

Ogni testo spirituale, ogni maestro, ogni insegnamento autentico, alla fine ci chiede la stessa cosa: lasciar cadere il dito e guardare il cielo.
Le parole possono guidarci, ma non possono sostituire l’esperienza diretta della Presenza. Quando l’attenzione si allinea al qui e ora, scopriamo che non serve altro: non un concetto in più, non un pensiero in più, non una spiegazione in più.

Solo ciò che è.


👉 Conclusione: Il potere di una sola parola non sta nella parola stessa, ma nella nostra apertura al silenzio che la sostiene. E in quel silenzio, l’Ora ci inghiotte, e tutto ciò che rimane è la Presenza: il cielo immenso che nessuna teoria può contenere.




Lasciare andare chi credi di essere non è rinuncia, ma ritorno: la vera forza nasce nella resa che ti riconsegna alla tua autenticità incrollabile.

 

Lasciando andare chi pensi di essere: la vera forza della resa

“La vera forza non è la resistenza, ma la resa. Si trova nella morbidezza, non nella durezza. Nell'affrontare il dolore, non nell'evitarlo. Nel silenzio, non nel rumore. Nell'Essere, non nel fare… Questo è il vostro Sé. Incrollabile. Eterno. Già intero.”


Introduzione — il paradosso che cambia tutto

Viviamo in un’epoca che celebra il fare: produttività, immagine, controllo. Eppure, proprio al centro di questa frenesia c’è una verità semplice e contraria: la forza più profonda spesso nasce quando smettiamo di lottare contro il flusso e impariamo ad accogliere ciò che siamo — non come una resa passiva, ma come una resa attiva e consapevole. Questo non significa arrendersi alla rassegnazione: significa scegliere dove posare l’attenzione, come usare l’energia e dove trovare radici che non possono essere spezzate.

In questo articolo esploreremo — in profondità e con strumenti pratici — cosa vuol dire lasciare andare l’immagine di sé che ci imprigiona, come trasformare la sofferenza in risorsa, e quali pratiche portano dalla performance al dimorare nell’Essere.


1) Resistenza vs resa: che differenza pratica c’è?

Resistere consuma energia. Resistere al dolore, ai cambiamenti, alle emozioni, alla realtà che non combacia con i nostri desideri porta a tensione, difese e spesso procrastinazione. La resa — intesa come accettazione attiva — è uno spostamento dell’energia: smetti di irrigidirti e cominci a usare l’attenzione per vedere, comprendere e scegliere.

Esempio concreto: quando una conversazione diventa conflitto, la reazione istintiva è alzare mura (resistenza). Se invece agisci con morbidezza — ascolto profondo, sospensione del giudizio, presenza — hai più possibilità di trasformare il conflitto in incontro. La forza, qui, è la capacità di rimanere integri mentre il mondo cambia.


2) Morbidezza e potenza: l’alchimia praticabile

La “morbidezza” non è debolezza. Come l’acqua che erode la pietra col tempo, la morbidezza è una forza che penetra senza spezzare. Praticarla significa:

  • usare la curiosità al posto della reazione automatica,

  • accogliere le emozioni senza farsene travolgere,

  • scegliere risposte consapevoli piuttosto che reazioni impulsive.

Esercizio breve: quando senti irritazione o paura, arrestati 10 secondi. Respira tre volte contando fino a quattro. Osserva cosa succede al corpo. Questa pausa semplice riduce la rigidità e apre spazio a una scelta più potente.


3) Affrontare il dolore — non evitarlo: cinque passi pratici

Evitare il dolore lo rende ricorrente e amplificato. Affrontarlo, invece, lo trasforma in esperienza che insegna. Ecco un protocollo pratico:

  1. Notare: identifica l’emozione o il sintomo senza etichettarlo “buono” o “cattivo”.

  2. Denominare: dai un nome semplice — “sono arrabbiato”, “sono triste”.

  3. Respirare: tre respiri lunghi, pieni; senti l’aria che entra e lascia spazio.

  4. Permettere: accogli la sensazione senza cercare di scacciarla; osservane i confini corporei.

  5. Indagare: chiediti “che cosa vuole questa esperienza insegnarmi?” senza forzare una risposta.

Ripeti questo approccio ogni volta che una sensazione forte emerge. Con la pratica il dolore perde l’urgenza e diventa materiale trasformabile.


4) Silenzio vs rumore: come coltivare il centro

Il rumore esterno e interno (pensieri, notifiche, giudizi) dissipa la nostra energia. Il silenzio invece ricostituisce. Non serve fare digiuno totale dai media: serve creare ancore di quiete.

Pratiche consigliate:

  • Micro-silenzi: 2–5 minuti tre volte al giorno per osservare il respiro.

  • Camminata consapevole: 10–20 minuti senza auricolari, con attenzione ai passi e alle sensazioni.

  • Digital Sabbath: un’ora serale senza schermi prima di dormire.

Il silenzio non è fuga: è un laboratorio in cui riordini ciò che conta e lasci che il Sé non dipenda dal rumore.


5) Essere vs fare: la fonte dell’azione efficace

L’azione nata dall’essere è più sostenibile e meno reattiva. Prima di imbarcarti in un compito, chiediti: “Da quale stato interno sto agendo?”. Se è paura o bisogno di approvazione, l’azione sarà breve e costosa. Se proviene dalla chiarezza, dalla curiosità o dalla calma, produrrà risultati con meno attrito.

Rituale mattutino (10 minuti):

  1. Sedersi comodamente.

  2. Tre respiri ampi per centrarsi.

  3. Chiedersi: “Qual è l’intenzione che nasce dalla mia verità oggi?”.

  4. Annotare una sola azione che rispecchia quell’intenzione.

Questo collega l’agire all’essere, rendendo ogni gesto più integrato.


6) Dimorare nell’Io che non può essere spezzato — pratica di indagine

Il “Sé incrollabile” non è un concetto astratto: è l’esperienza di una presenza stabile che osserva tutto senza essere definita da eventi o ruoli. Per approcciarti a questo sentire:

Pratica di indagine (5–12 minuti)

  • Trova una posizione comoda.

  • Porta l’attenzione al respiro.

  • Poni con delicatezza la domanda: “Chi è colui che pensa ‘io’?”

  • Osserva risposte, immagini, parole che emergono. Non trattenere nulla; lasciale passare come nuvole.

  • Ogni volta che identifichi un pensiero (“sono questo”, “sono quello”), riportati alla domanda iniziale e al respiro.

Non hai bisogno di trovare una risposta intellettuale: l’esperienza stessa comincerà a mostrare che l’identità narrativa è più fluida di quanto sembra.


7) Piccole pratiche quotidiane (che fanno la differenza)

  • 3 minuti di resa: inspira contando 4, espira contando 6; ripeti per 3 minuti. Senti la morbidezza aumentare.

  • Diario della resa: scrivi ogni sera cosa hai lasciato andare oggi e cosa hai scelto di accogliere.

  • Promessa del non-giudizio: per un giorno, osserva i tuoi giudizi e annota quando ti definiscono; rispondi con curiosità.

  • Soglia del dolore: quando senti dolore emotivo, chiediti “posso starci cinque minuti?”; spesso la soglia si abbassa.


8) Come trasformare questo argomento in un articolo (consigli da blogger professionista)

Se vuoi pubblicare questo pezzo sul tuo blog, ecco una struttura ottimale e alcuni materiali ready-to-post:

Titoli alternativi (SEO-friendly):

  • Lasciare andare chi pensi di essere: la forza della resa interiore

  • Resa, non resistenza: come trovare forza nella morbidezza

  • Morbidezza e coraggio: pratiche per dimorare nel Sé incrollabile

Meta description (max 155 caratteri):
Scopri perché la vera forza nasce dalla resa: pratiche meditative, esercizi concreti e rituali quotidiani per restare autentici.

Excerpt / Intro breve (per newsletter/social):
In un mondo che premia il fare, la vera potenza è imparare a restare. Questo articolo esplora la resa come pratica—non sconfitta—con esercizi concreti per ritrovare il Sé che non si spezza.

Suggerimenti social (testo + hashtag):
Post: “E se la forza non fosse nella lotta ma nella resa? Ho scritto una guida pratica su come la morbidezza può diventare il tuo centro. Link in bio.”
Hashtag: #Presenza #Mindfulness #Resa #Benessere #EssereNonFare


Conclusione — la resa come rivoluzione gentile

Lasciare andare chi pensi di essere non è un atto di perdita: è la più grande restituzione a te stesso. Ogni volta che smetti di lottare contro la realtà e cominci a incontrarla con morbidezza, il nocciolo saldo del tuo Sé si rivela — più vasto, più calmo, più inarrestabile. Non si tratta di diventare qualcuno di diverso: si tratta di abitare, finalmente, ciò che sei già.




sabato 27 settembre 2025

Trovare difetti negli altri è il modo più facile per sentirsi superiori, ma anche il più povero; la vera forza è imparare a riconoscere e valorizzare i pregi che spesso restano invisibili.



Perché ci piace trovare difetti negli altri?

Un’analisi tra psicologia, cultura e media contemporanei

Guardarsi intorno oggi significa osservare un mondo che corre veloce, dove l’apparenza spesso precede la sostanza. A 67 anni ho avuto il privilegio di osservare più decenni di trasformazioni sociali, e una domanda mi accompagna da tempo: perché tante persone sembrano divertirsi a trovare difetti negli altri?
Un atteggiamento che pare diffondersi con maggiore frequenza negli ultimi anni, quasi come se fosse diventato parte integrante del nostro modo di comunicare.

La radice psicologica: potere e confronto

Criticare gli altri, o metterne in evidenza i difetti, può dare l’illusione di superiorità. È un meccanismo antico: abbassare l’altro per sentirsi più in alto.
La psicologia sociale lo spiega attraverso la teoria del confronto sociale: l’individuo costruisce la propria identità osservando e valutando gli altri. Se metto in risalto i limiti altrui, il mio ego ne trae un immediato vantaggio. È un piccolo, effimero atto di potere.

La lente amplificatrice dei media

Negli anni Sessanta e Settanta, il pettegolezzo restava nei bar o nei salotti privati. Oggi, invece, cinema, televisione e soprattutto social media hanno amplificato e spettacolarizzato questa inclinazione umana.

  • Cinema e TV: i reality show e certi programmi di intrattenimento hanno normalizzato la derisione. La “cattiveria” è diventata intrattenimento: la battuta pungente del giudice, la litigata in diretta, il ridicolizzare l’errore di un concorrente.

  • Social media: qui la dinamica si moltiplica. I commenti negativi, le critiche feroci e il “body shaming” trovano terreno fertile. Dietro l’anonimato o la distanza dello schermo, molti si sentono liberi di esprimere giudizi che forse, faccia a faccia, non avrebbero mai il coraggio di pronunciare.

Il risultato? La critica è diventata visibile, pubblica e contagiosa.

Il bisogno di sentirsi parte di un gruppo

Un altro fattore culturale è la dinamica del branco. Criticare un personaggio pubblico, o anche un conoscente, diventa un modo per sentirsi parte di un gruppo che “vede” meglio degli altri. Il “noi contro lui/lei” crea coesione momentanea, un senso di appartenenza che compensa la solitudine diffusa del nostro tempo.

L’aumento o solo un riflettore più forte?

La vera domanda è: questa tendenza è davvero aumentata o oggi la notiamo di più?
Probabilmente entrambe le cose. Da un lato, i media la stimolano e la premiano: i contenuti che suscitano indignazione o ironia si diffondono più velocemente. Dall’altro, la visibilità di ogni gesto e parola, documentata e condivisa online, ci espone inevitabilmente a più critiche.

Un tempo i difetti erano discussi solo nel privato. Oggi, con una foto o un post, chiunque può diventare bersaglio di un giudizio planetario.

Come rispondere a questa tendenza

Se la critica è inevitabile, possiamo però scegliere come reagire.

  • Coltivare empatia, ricordando che ogni difetto è spesso il rovescio di una fragilità.

  • Praticare il silenzio consapevole: non tutto merita un commento.

  • Ricordare che la vera superiorità non sta nel trovare difetti, ma nell’aiutare gli altri a valorizzare i propri pregi.

Conclusione

Forse i film, la televisione e i social media non hanno inventato la critica, ma l’hanno resa spettacolo e merce di scambio. Il nostro compito, come individui consapevoli, è non cadere nella trappola di credere che il valore umano si misuri nella capacità di giudicare gli altri.
In un’epoca di sovraesposizione, il vero atto rivoluzionario è coltivare rispetto e gentilezza.




La misura della "probabilità" è una qualità statistica che deriva dal condurre un esperimento simile molte volte e calcolare la frequenza con cui risulta in un certo modo (molto probabile, molto improbabile, ecc.). Non abbiamo il lusso di condurre l'esperimento della nostra realtà più volte.

 La misura della "probabilità" è una qualità statistica che deriva dal condurre un esperimento simile molte volte e calcolare la frequenza con cui risulta in un certo modo (molto probabile, molto improbabile, ecc.). Non abbiamo il lusso di condurre l'esperimento della nostra realtà più volte. Quindi, andiamo con "è plausibile..." Dato ciò che pensiamo di sapere. Per definizione, un'entità che poteva "creare l'universo" doveva già esistere indipendentemente dall'universo. Mi sembra sbagliato chiamare il suo ambiente "un universo", quindi lo chiamerò "un regno". Il significato di "creare un universo" significa molto di più che creare semplicemente un'altra copia di un universo precedente, come cuocere un'altra torta di mele da una ricetta precedente. Suggerisce di creare tutto ciò che rende l'universo quello che è. Così, l'intera idea che esistano "atomi" e "luce" e "gravità", e anche che esistano "spazio" e "tempo", questi sono tutti aspetti che sono "creati" per costituire "l'universo". Poiché queste cose (atomi, ecc.) non devono esistere prima che l'universo sia creato, sembra un po' prematuro considerare come questa "entità creatrice" possa qualificarsi come "bio-organica". Potrebbero plausibilmente esistere in un regno in cui i termini "bio" e "biologico" non hanno alcun significato. Quindi, cercherei di ridurre la domanda a: "È plausibile che un'entità abbia creato l'universo per comprendere meglio se stessa?" Dalla nostra prospettiva, come manifestazioni naturali di questo universo, qualsiasi entità in grado di creare il nostro "tutto" (universo), si qualificherebbe come - in mancanza di una parola migliore - "Dio". Quindi, la domanda è equivalente: "È plausibile che Dio abbia creato l'universo per comprenderLo meglio?" Tecnicamente, questo implicherebbe che Dio non è onnisciente (onnisciente), poiché un'entità onnisciente comprenderebbe già perfettamente se stessa. Non vedo nulla di particolarmente implausibile in questa posizione, se non altro dal punto di vista che anche noi esseri umani creiamo cose (simulazioni, che si tratti di esperimenti mentali o calcoli esercitati al computer) per comprendere meglio il nostro universo, la nostra natura e la nostra relazione nell'universo. Ma comunque, sarebbe una proiezione. Ciò che è plausibile per noi potrebbe non avere alcuna attinenza con la natura e il regno di un ipotetico creatore.



Tutti scelgono la Russia e la Cina rispetto agli Stati Uniti da quando Trump è entrato in carica, la Corte Suprema ha semplicemente reso tutto questo più permanente, paralizzando così gli Stati Uniti e consegnandoli alla pattumiera della storia.

 Tutti scelgono la Russia e la Cina rispetto agli Stati Uniti da quando Trump è entrato in carica, la Corte Suprema ha semplicemente reso tutto questo più permanente, paralizzando così gli Stati Uniti e consegnandoli alla pattumiera della storia. È ora di iniziare a dirlo, gridandolo più forte che puoi. La Corte Suprema non solo è anti-americana e anti-paesi in via di sviluppo nel suo servile sostegno a Trump, che odia il mondo, ma semplicemente non gliene frega niente di coloro che ne hanno bisogno. Elon Musk aveva torto e ragione. I paesi occidentali non hanno molta empatia, sotto la guida di Trump e il controllo autoritario assoluto l'America e gli americani non hanno empatia. Distruggere l'USAID e altri programmi, comprese le vaccinazioni, per cosa? Uccidere le persone, è questo il tuo obiettivo. O è solo per rendere la Cina il paese #1 al mondo mentre si ruba sempre di più e si mente tra i denti corrosi. Forse esaminerai altre indagini sul motivo per cui hai dovuto salire su una scala mobile all'ONU a cui ti rifiuti di contribuire mentre gli fai la predica e mentre gli altri muoiono perché non te ne frega niente di nessuno se non del tuo io grasso e brutto. E zero buon senso e sono così stanco di Trump che fa del male agli Stati Uniti e ogni volta che parlo con i sostenitori del MAGA negli Stati Uniti sono semplicemente entusiasti del fatto che gli Stati Uniti perdano contro la Cina, perdano contro la Russia, Trump faccia affari corrotti in Medio Oriente. Entusiasti che i palestinesi stiano morendo a Gaza, sono gli anticristiani e non si battono per nulla. Nessuno dei giudici della Corte Suprema che ha approvato quest'ultimo Congresso non ha alcun potere, Trump come capo dell'esecutivo può dire chi riceve i soldi o nessuno. A nessuno di loro frega niente della separazione dei poteri, a nessuno di loro interessa la costituzione. Nessuno di loro vuole ammettere che il loro ragazzo che ha messo in campo 3 di loro, è esigente e riceve esattamente quello che vuole. La distruzione di 100 anni di dominio degli Stati Uniti nel mondo e tutti voi stupidi MAGA state facendo il tifo per lui. Non posso guardare la CNN o uno qualsiasi dei programmi idioti in cui ai ritardati assoluti come Scott Jennings o altri è permesso di sbraitare con le loro bugie. Mentono su tutto e gli stupidi democratici se ne stanno lì a prendersela. Beh, oggi non voglio prenderlo. Non voglio vedere più persone non vaccinarsi nei paesi in via di sviluppo in modo che possano sviluppare sempre più ceppi di malattie sbloccate mentre le popolazioni esplodono nelle giungle delle aree selvagge. Per quanto tempo pensate di potervi nascondere quando arriverà la prossima pandemia. Oh, è vero, non prenderai nessun vaccino tranne il mio male, non permetterai a nessun altro di prenderli mentre tagli i finanziamenti per l'MRNA, quindi tutti soffriremo e moriremo. Ben fatto MAGA, ora vai là fuori e festeggia mentre l'economia crolla e perdi il lavoro e hai appena consegnato l'Africa e il Sud America alla Cina. Andate a nascondervi nei vostri 26 stati rossi e incolpate i democratici che non sono al potere per la vostra situazione. Non ho pietà né mi dispiace per te. Mi dispiace per queste persone che avete felicemente abbandonato. Sì, ti rendono felice MAGA, Trump, Musk. Esatto, signor e signora cristiani, lasciateli morire, poi sarete felici e andrete nella vostra chiesa evangelica e adorerete il vostro anticristo Trump. Mi fai schifo. E Gesù non ti perdonerà nemmeno. Lui ti sta osservando e si ricorderà di quello che hai fatto e ti consegnerà dritto all'inferno con Trump e tutti i suoi odiatori.



Un ergastolano senza condizionale non ha più nulla da perdere, e proprio in quell’assenza di futuro risiede la sua forza più temuta: l’imprevedibilità.



Libertà, Ergastolo e Detenzione: cosa resta da togliere a chi non ha più nulla da perdere?

«Libertà è solo un’altra parola per indicare che non c’è più nulla da perdere», scriveva Kris Kristofferson. Una frase che, nel contesto carcerario statunitense, assume un significato particolarmente crudo quando si parla di detenuti condannati all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale (LWOP, Life Without Parole).

La domanda centrale è questa: cosa puoi sottrarre a chi vive già in una condizione priva di speranza, senza prospettiva di uscita?


Nessun caso di condanna a morte “dall’interno”

Negli Stati Uniti non si trovano facilmente casi di detenuti condannati a morte per crimini commessi durante la detenzione, soprattutto se già sottoposti a LWOP. Questo dettaglio non è banale: il sistema giudiziario sembra riconoscere implicitamente che la pena capitale, in questo contesto, non avrebbe un valore aggiunto né deterrente.

Un ergastolano senza possibilità di condizionale è, di fatto, già escluso da ogni forma di reintegrazione. Non c’è “seconda possibilità” da revocare.


Le armi del Dipartimento delle Correzioni (DOC)

Il DOC può tentare di “riclassificare” il detenuto, ma spesso questi individui sono già al livello massimo di restrizione. Le opzioni si riducono quindi a:

  • Isolamento prolungato (SHU, Special Housing Unit): punizione che, per alcuni profili psicopatici o sociopatici, può trasformarsi in una sorta di vacanza, lontano dalle dinamiche complesse e rischiose della popolazione generale.

  • Limitazioni su privilegi marginali: ma cosa sono realmente “privilegi” per chi ha già perso tutto?


LWOP come status sociale in carcere

Paradossalmente, il vero vantaggio dell’LWOP risiede nel rispetto (o timore) che questi detenuti possono incutere tra i compagni. Non hanno “giacche” da mantenere pulite in vista di una futura condizionale. Non hanno nulla da rischiare.

Questo li rende:

  • Imprevedibili: perché il calcolo costi/benefici di un’azione violenta è per loro diverso da chi spera ancora in una riduzione di pena.

  • Inquietanti: per la stessa ragione, rappresentano una presenza destabilizzante nei blocchi comuni.

  • Strategici: la loro condizione diventa un’arma, un vantaggio nelle dinamiche di potere e di sopravvivenza interne.

Da qui nasce l’adagio carcerario: “Non si scopa con l’inscopabile”. In altre parole, non si tenta di dominare chi non può più essere piegato con gli strumenti usuali.


Il vero nodo filosofico e sociale

Questa realtà solleva un interrogativo più ampio: se la detenzione è pensata come deterrente e riabilitazione, quale funzione ha davvero l’LWOP?

  • Non dissuade i comportamenti violenti in carcere.

  • Non offre prospettive di reinserimento.

  • Trasforma individui in presenze permanenti e ingovernabili.

Kristofferson, involontariamente, ci fornisce la chiave di lettura: quando non hai più nulla da perdere, la libertà diventa un concetto astratto, sostituito da un potere diverso — quello di non poter essere ulteriormente punito.


Conclusione

Gli ergastolani senza condizionale incarnano un paradosso del sistema penitenziario: uomini e donne privati di ogni orizzonte, che finiscono per trasformare questa privazione in una forma di forza.

La società li considera “neutralizzati”, ma all’interno delle mura carcerarie restano una variabile imprevedibile, capace di ribaltare equilibri e dimostrare, ancora una volta, che la vera libertà non è sempre fuori dalle sbarre, ma nella consapevolezza di non avere più nulla da perdere.




Mediaset non è stata solo televisione, ma una leva di potere capace di trasformare la visibilità in fiducia, le aziende in marchi e il lavoro invisibile dietro le quinte in un’influenza che ha segnato un’epoca.

  Mediaset: il grande potere televisivo che ha plasmato l’immaginario collettivo e il mercato Per decenni Mediaset non è stata soltanto una ...