mercoledì 3 dicembre 2025

Regala uno spazio in più: basta un respiro concesso perché qualcuno possa ricominciare a fiorire.



Oggi il Mondo Chiede Silenziosamente una Cosa: Regalare Spazio

C’è qualcosa nell’aria oggi. Lo avverti passeggiando, lo percepisci nelle espressioni delle persone, nei loro movimenti rapidi, nella tensione che scivola come una corrente sotterranea. È una giornata che sembra chiedere, quasi sottovoce: regala spazio.

Non spazio materiale—non solo, almeno—ma spazio umano. Spazio mentale. Spazio emotivo. Spazio per respirare. Spazio per esserci.

Viviamo in un tempo compresso, dove ogni minuto sembra dover produrre un risultato e ogni gesto è misurato dal suo rendimento. Eppure, proprio oggi, la vita sembra invitarci a rallentare e osservare una verità semplice: nessuno cresce, nessuno fiorisce, senza uno spazio generoso intorno a sé.

Lo Spazio Come Dono Quotidiano

Pensiamo per un istante a quanto può cambiare una giornata quando qualcuno ci concede un piccolo spazio in più:

  • un ascolto non affrettato,

  • una risposta che non giudica,

  • uno sguardo che non pretende,

  • una pausa che non pressa.

Non costa nulla, ma vale tutto.

Offrire spazio agli altri significa anche restituire dignità. Vuol dire comunicare: “Puoi essere ciò che sei. Puoi respirare accanto a me. Puoi crescere.”
E questo, in un mondo che corre, è già rivoluzionario.

Lo Spazio Come Coraggio

C'è chi ha bisogno di spazio per capire cosa sente.
Chi ne ha bisogno per guarire.
Chi per creare.
Chi per sognare senza sentirsi in colpa.

Concedere spazio è un atto di fiducia: permetti all’altro di stare senza essere controllato, incasellato o accelerato.

Ma è anche un atto verso noi stessi. Quando concediamo spazio, lo stiamo creando anche dentro di noi. Come se una parte del nostro essere si liberasse da pesi invisibili.

Oggi Può Essere l’Inizio

Proviamo allora a immaginare che quella di oggi non sia solo una giornata come tante, ma una soglia. Un piccolo invito a cambiare ritmo, relazione, presenza.

Lascia uno spazio in più:

  • a chi vive con te,

  • a chi incroci per strada,

  • a chi ti scrive,

  • a chi non riesce a dirti quello che sente.

E non dimenticare te stesso: regalati uno spazio dove non devi performare, spiegare, dimostrare. Uno spazio che ti riconnette a te.

Il Mondo ha Fame di Spazio

Siamo in un’epoca satura di parole, immagini, desideri accumulati. Eppure ciò che manca davvero è proprio ciò che non si vede: uno spazio sano in cui lasciarsi essere.
Un mondo che si dona spazio diventa automaticamente un mondo più gentile, più pulito, più umano.
Un mondo che respira.

Forse, il messaggio della giornata di oggi è tutto qui:
non servono grandi gesti per cambiare la vita di qualcuno. A volte basta solo un po’ di spazio in più.




martedì 2 dicembre 2025

“Ogni volta che uno schermo decide cosa vedere al posto tuo, chiediti: è ancora il mondo che guardo io, o sono io a essere guardato dal mondo degli algoritmi?”

 L’ombra lunga dell’era Covid: algoritmi, controllo di massa e futuro della libertà interiore


Negli anni della pandemia ci siamo abituati a pensare al Covid come a un’emergenza sanitaria, economica, psicologica. Meno evidente – ma potentissima – è l’ombra che quell’era ha proiettato sul modo in cui il potere osserva, misura e orienta le nostre vite attraverso gli algoritmi.

Non è solo complotto, non è solo “sistema cattivo”: è l’intreccio molto concreto tra paura, tecnologia e dati. In quell’intreccio, l’essere umano rischia di diventare sempre più profilo, percentuale, previsione.

In questo articolo entriamo dentro questa ombra: come la pandemia ha accelerato il controllo digitale, che ruolo giocano gli algoritmi e quali spazi di libertà possiamo ancora coltivare.


1. Covid come “grande acceleratore” digitale

Diversi studi parlano del Covid-19 come di un “great accelerator”: in pochi mesi ha spinto governi, aziende, scuole e cittadini verso una digitalizzazione che, senza pandemia, avrebbe richiesto anni.(PMC)

Alcuni fenomeni chiave:

  • Esplosione del lavoro da remoto: piattaforme di videoconferenza, tool collaborativi, sistemi di monitoraggio della produttività, log di attività, tracciamento di accessi e tempi.(PMC)

  • Digitalizzazione forzata dei servizi: pubbliche amministrazioni, banche, sanità, scuola – tutti hanno spostato processi e relazioni su canali digitali.(OECD)

  • Crescita della sorveglianza sanitaria digitale: app di contact tracing, piattaforme di monitoraggio, sistemi di analisi dei flussi di mobilità.(PMC)

Questa accelerazione ha avuto anche lati positivi (più efficienza, nuove possibilità di lavoro, servizi più accessibili). Ma ogni volta che una nuova tecnologia entra nella nostra vita, porta con sé un nuovo livello di visibilità su ciò che facciamo.

La domanda non è: “La tecnologia è buona o cattiva?”.
La vera domanda è: chi guarda attraverso quella tecnologia, cosa vede e per quali finalità?


2. Dal tracciamento dei contagi al tracciamento delle vite

Durante la pandemia, il discorso pubblico ha normalizzato un principio: per proteggere la salute collettiva è legittimo raccogliere più dati su di te.

Ecco alcuni esempi di come è stato declinato:

  • App di contact tracing: telefoni che registrano quali dispositivi incontri, quando e per quanto tempo, per stimare il rischio di esposizione al virus.(PMC)

  • Pass sanitari e certificazioni digitali: sistemi per controllare accessi a luoghi di lavoro, trasporti, eventi, basati su informazioni sanitarie personali.

  • Sorveglianza digitale sperimentale: in alcuni paesi, utilizzo incrociato di dati di geolocalizzazione, telecamere, riconoscimento facciale, pagamenti elettronici, social network, per tracciare movimenti e contatti.(Nature)

Molti di questi strumenti sono stati introdotti con finalità legittime di salute pubblica. Ma giuristi, filosofi e attivisti hanno sollevato un punto cruciale: una volta che un’infrastruttura di sorveglianza esiste, è molto difficile spegnerla davvero.(timreview.ca)

Lo schema è semplice:

  1. Crisi → accettiamo controlli più invasivi “perché è emergenza”.

  2. L’emergenza passa, ma le infrastrutture, i dati, le abitudini restano.

  3. Quelle stesse infrastrutture possono essere riutilizzate per altri scopi (sicurezza, marketing, controllo sociale, profilazione politica).

Non è fantascienza: è la dinamica classica di ogni espansione dei poteri di sorveglianza.


3. Algoritmi come nuovo dispositivo di controllo

Se l’era Covid ha spinto la raccolta di dati, gli algoritmi sono il cervello che decide cosa fare con quei dati.

3.1. Algoritmi nel lavoro

Già prima della pandemia, il mondo delle piattaforme (rider, autisti, gig economy) viveva dentro un universo in cui il “capo” è un algoritmo: punteggi, ranking, assegnazione delle consegne, valutazione delle performance.(International Labour Organization)

Con il lavoro da remoto e l’esplosione di software di monitoraggio (time tracking, screenshot automatici, analisi di produttività), questa logica si è estesa:

  • l’attività del lavoratore diventa flusso di dati,

  • i dati alimentano sistemi che valutano, segnalano, suggeriscono sanzioni o premi,

  • le decisioni possono diventare automatiche, opache, difficili da contestare.

Studi e casi legali in Europa mostrano come la pandemia abbia intensificato il dibattito su diritti dei lavoratori, trasparenza degli algoritmi, limiti alla sorveglianza digitale in azienda.(Consiglio Europeo)

3.2. Algoritmi nei social e nell’informazione

Durante l’era Covid, l’infosfera è stata dominata da feed personalizzati, raccomandazioni e moderazione automatizzata di contenuti:

  • piattaforme che decidono cosa mostrarti in base al tuo profilo;

  • sistemi di raccomandazione che amplificano contenuti più ingaggianti (non sempre più veri o più utili);

  • algoritmi che filtrano, rimuovono o declassano contenuti ritenuti problematici (disinformazione, odio, ecc.).

In pratica, una buona parte di ciò che hai pensato, discusso, temuto o sperato sulla pandemia è passata attraverso una selezione algoritmica invisibile.

Questo non significa che ci sia stato un “piano unico mondiale di controllo mentale”. Significa però che:

  • il tuo sguardo sul mondo è mediato da sistemi che non controlli;

  • quei sistemi rispondono a logiche economiche e politiche precise;

  • la pandemia ha reso ancora più evidente quanto questa mediazione possa orientare emozioni, paure, atteggiamenti verso il potere.


4. Dalla sicurezza alla normalizzazione del controllo

Uno dei passaggi più delicati è psicologico: quando il controllo viene giustificato con la parola “sicurezza”, la nostra soglia di tolleranza sale moltissimo.

Ricerche sul rapporto tra pandemia, big data e sorveglianza mostrano che molti cittadini sono disposti ad accettare forme più invasive di monitoraggio se percepite come necessarie per “il bene comune”, soprattutto in situazioni di rischio estremo.(timreview.ca)

Il problema è che:

  • la paura è un acceleratore straordinario di poteri di eccezione;

  • l’eccezione tende a diventare struttura permanente;

  • ciò che oggi accetti per una pandemia, domani potresti ritrovartelo per altre emergenze (terrorismo, crisi climatica, dissenso sociale, migrazioni).

Si crea così un nuovo “contratto implicito”:

Ti lascio guardare più in profondità nella mia vita, in cambio della promessa di protezione.

Ma chi garantisce che, domani, quella stessa infrastruttura non verrà usata per qualcosa che non avresti mai accettato?


5. L’ombra più sottile: interiorità sotto pressione algoritmica

C’è un altro livello, più intimo e meno visibile: la relazione tra algoritmi e spazio interiore.

Durante i lockdown:

  • siamo rimasti per mesi dentro ecosistemi digitali;

  • emozioni, ansie, solitudini sono state continuamente rimbalzate attraverso schermi, notifiche, feed;

  • la dipendenza da flussi di informazione istantanea ha ridisegnato i nostri ritmi psicologici.

L’algoritmo non controlla solo cosa vedi, ma quando e con che intensità:

  • ti propone contenuti che alimentano la tua paura o la tua indignazione (perché generano engagement);

  • ti cattura in spirali di doomscrolling;

  • ti rende progressivamente meno capace di stare nel silenzio, nell’incertezza, nell’assenza di stimolo.

In questo senso, il vero “controllo di massa” non è un telecomando che qualcuno preme dall’alto.
È una ristrutturazione graduale della tua attenzione, del tuo tempo, della tua sensibilità.

Se ti abitui a reagire solo agli stimoli algoritmici:

  • diventi più prevedibile;

  • sei più facile da modellare;

  • sei meno disponibile a immaginare alternative.


6. Come attraversare l’ombra: pratiche di disinnesco

La buona notizia è che, dentro questo scenario, non siamo completamente impotenti. Non possiamo fermare da soli le infrastrutture globali, ma possiamo riaprire margini di libertà concreta.

Alcune direzioni possibili:

6.1. Alfabetizzazione algoritmica

Non basta “sapere che esistono gli algoritmi”. Serve imparare a farsi domande:

  • perché vedo questo contenuto e non un altro?

  • chi guadagna se io passo qui un’ora in più?

  • quali dati sto regalando quando uso questa app?

Piccoli gesti:

  • variare le fonti di informazione (non solo social, ma anche siti diversi, libri, newsletter indipendenti);

  • disattivare le notifiche non essenziali;

  • controllare e limitare i permessi delle app, soprattutto quelle introdotte “in emergenza”.

6.2. Difesa dei diritti digitali

Sul piano collettivo, si stanno sviluppando:

  • regolamentazioni sull’uso degli algoritmi nel lavoro (trasparenza, limiti alla sorveglianza, diritto all’intervento umano);(Consiglio Europeo)

  • dibattiti etici e giuridici sul tracciamento dei dati sanitari e il loro uso post-pandemia.(pcpd.org.hk)

Sostenere associazioni, movimenti e campagne che lavorano su questi temi è un modo concreto per spostare l’equilibrio tra controllo e diritti.

6.3. Rituali di disconnessione e presenza

C’è poi una forma di resistenza più silenziosa, ma potentissima: riconquistare territori non algoritmici nella propria vita.

  • camminare senza telefono in mano;

  • creare spazi della giornata senza schermo (anche solo mezz’ora al giorno);

  • dedicarsi ad attività non quantificabili (arte, scrittura personale, contemplazione, ascolto della natura).

Sono gesti “piccoli”, ma minano alla base la logica del controllo totale: riaffermano che esiste una parte di te non riducibile a dato.


7. Verso un nuovo patto con la tecnologia

L’ombra dell’era Covid non è solo il ricordo delle restrizioni, ma il lascito di un’infrastruttura di controllo potenziale resa più potente, più ramificata, più socialmente accettata.

Non si tratta di negare la pandemia, né di rifiutare in blocco la tecnologia.
Si tratta di rifiutare un’idea: che la sicurezza e l’efficienza giustifichino qualsiasi forma di visibilità totale su corpi, relazioni, pensieri.

Il punto non è tornare al “prima”, ma immaginare un dopo in cui:

  • l’uso degli algoritmi sia trasparente, contestabile, limitato;

  • la raccolta dei dati sia proporzionata, reversibile, governata democraticamente;

  • le persone coltivino consapevolmente spazi interiori, relazionali e fisici sottratti alla logica del tracciamento permanente.

In fondo, il vero terreno di gioco degli algoritmi è la nostra attenzione.
Ogni volta che scegli di usarla in modo libero – fuori dallo script previsto – stai già interrompendo, almeno per un momento, il meccanismo del controllo di massa.

Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare questo articolo in una serie di post (blog o social) a puntate, o aggiungere box di approfondimento con riferimenti filosofici (Foucault, Zuboff, Han, ecc.) per entrare più a fondo nel tema del potere e della sorveglianza.



“L’Italia cammina alla luce della propria Costituzione, ma porta ancora addosso le ombre di patti con l’America che nessuno ha mai davvero raccontato fino in fondo.”

 L’ombra lunga dell’aquila: cosa non ci raccontiamo davvero sul rapporto Italia–USA


Quando pensiamo agli Stati Uniti in Italia, ci vengono in mente i film doppiati, le felpe delle università americane, le basi NATO ai margini delle nostre città. È la narrazione dell’“alleato forte”, del fratello maggiore che ci ha aiutato a rialzarci dopo la guerra.

Ma sotto questa superficie rassicurante ci sono zone grigie: accordi mai pubblicati, basi militari che incidono sulla nostra politica estera, capitoli controversi come Gladio e la strategia della tensione. Non è complottismo, è storia. E, soprattutto, è una storia che spesso conosciamo solo a metà.

In questo articolo proviamo ad aprire qualche sipario, sapendo che la “verità totale” non la possiede nessuno, ma che abbiamo il dovere di farci domande scomode.


1. Il patto con l’America: rinascita… e vincolo

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia è un Paese distrutto, povero, spaccato tra spinte socialiste/comuniste e blocco occidentale. È in questo contesto che arrivano gli Stati Uniti con due strumenti potentissimi:

  • Il Piano Marshall (European Recovery Program), annunciato da George Marshall nel 1947: oltre 12,7 miliardi di dollari di aiuti all’Europa, di cui una quota importante all’Italia, per comprare materie prime, derrate alimentari e ricostruire infrastrutture.(Wikipedia)

  • L’ingresso nella NATO (1949), che inserisce l’Italia formalmente nel blocco occidentale guidato dagli USA.(LaMaddalena.info)

Da un lato è stato ossigeno puro: senza quegli aiuti la ricostruzione sarebbe stata molto più lenta e dolorosa. Dall’altro, storici e analisti sottolineano come da lì in poi gli USA abbiano esercitato un’egemonia economica, politica e culturale sull’Europa occidentale, Italia compresa.(Geopop)

Tradotto in parole semplici: abbiamo ricostruito casa nostra con i mattoni americani, ma in parte abbiamo accettato anche che fossero loro a decidere l’urbanistica.


2. Basi militari: ospiti o coinquilini ingombranti?

La presenza di basi e installazioni militari statunitensi in Italia inizia formalmente nel 1951, con accordi nel quadro della NATO.(Wikipedia)

Secondo una ricostruzione del 2013, sul territorio italiano erano presenti 9 basi/installazioni con personale USA (incluse quelle NATO), con circa 13.000 militari.(Wikipedia)

Fra i nodi più importanti:

  • Aviano (Friuli-Venezia Giulia) – base aerea chiave per le operazioni NATO in Europa e Mediterraneo.(RaiNews)

  • Sigonella (Sicilia) – hub della US Navy e delle operazioni nel Mediterraneo e in Medio Oriente (anche per droni e missioni di sorveglianza).(RaiNews)

  • Camp Darby (tra Pisa e Livorno) – enorme deposito logistico di munizioni, armi e mezzi militari, collegato direttamente al porto di Livorno e all’aeroporto di Pisa; definito supporto essenziale per operazioni su larga scala nel Mediterraneo.(Italian Facts)

Tutte queste strutture esistono in virtù di una fitta rete di accordi:

  • Accordo bilaterale USA–Italia sull’assistenza difensiva reciproca (Accordo di Washington, 1950)

  • Accordo bilaterale sulla sicurezza reciproca (Accordo di Roma, 1952)(iusinitinere.it)

  • Bilateral Infrastructural Agreement (BIA, 1954): un accordo ancora classificato che disciplina la presenza militare americana nelle infrastrutture italiane (Vicenza, Napoli, Gaeta, Sigonella, ecc.).(Limes)

Qui emerge la prima ombra: molto di ciò che regola la presenza militare USA in Italia non è pubblico. Parlamentari, costituzionalisti e associazioni chiedono da anni maggiore trasparenza, perché è difficile parlare seriamente di sovranità se i cittadini non possono leggere i trattati che riguardano il loro territorio.(iusinitinere.it)


3. Il nodo della sovranità: chi decide cosa succede sulle nostre basi?

Dal punto di vista formale, le basi sono su suolo italiano e sottoposte alla nostra sovranità. Ma nella pratica, l’operatività americana è molto ampia, e non sempre è chiaro:

  • chi autorizza l’uso di una base per un’operazione militare lontano dall’Italia,

  • quanto è coinvolto il Parlamento,

  • se certe missioni siano compatibili con l’articolo 11 della Costituzione, che “ripudia la guerra come strumento di offesa”.

Giuristi e studiosi hanno sollevato dubbi soprattutto quando le basi italiane sono state usate in operazioni controverse (Iraq, Libia, operazioni con droni, come nel caso dell’uccisione del generale iraniano Soleimani, che ha acceso un dibattito anche sul ruolo di Sigonella e Aviano).(iusinitinere.it)

Il punto non è “America sì, America no”, ma una domanda molto semplice e molto poco discussa nel dibattito pubblico:

Siamo davvero noi – come comunità politica – a decidere come viene usato il nostro territorio?


4. Gladio e strategia della tensione: il retroscena più oscuro

Quando si parla di “ombre” nei rapporti Italia–USA, il capitolo più delicato è quello degli anni di piombo e della cosiddetta strategia della tensione.

La “strategia della tensione” indica un piano volto a creare paura diffusa nella popolazione tramite atti terroristici, con l’obiettivo di destabilizzare l’ordine costituito e favorire assetti più autoritari. Il termine viene associato in particolare all’Italia degli anni ’60–’70.(Wikipedia)

Su questo sfondo si inserisce l’Operazione Gladio: una struttura clandestina paramilitare, collegata alla NATO, pensata come “stay-behind” nel caso di invasione sovietica. L’esistenza di Gladio è documentata e ricostruita da:

  • atti parlamentari e una commissione d’inchiesta italiana;(Senato della Repubblica)

  • studi come quelli di Daniele Ganser sugli “eserciti segreti della NATO”, che evidenziano il ruolo di reti clandestine in diversi paesi europei.(Thesis UniPD)

Le domande – ancora oggi non del tutto risolte – sono pesanti:

  • fino a che punto queste strutture parallele hanno influenzato la nostra vita democratica?

  • c’è stato un ruolo diretto o indiretto di apparati occidentali (inclusi quelli statunitensi) nei depistaggi o nella copertura di alcuni attentati?

Qui bisogna essere onesti: non esistono prove conclusive che chiudano la questione in modo semplice. Ci sono documenti declassificati, testimonianze, omissioni, “non ricordo”, e un mosaico di indizi che hanno portato molti storici a parlare di un “doppio livello” dello Stato, ma non a una versione univoca.(Istituto Nazionale Ferruccio Parri)

Il retroscena di verità che possiamo permetterci, senza scivolare nella fantasia, è questo:

  • in Italia hanno operato reti segrete legate alla NATO, create in collaborazione anche con servizi occidentali, inclusi quelli USA;

  • il loro perimetro reale d’azione e il loro eventuale coinvolgimento in episodi specifici resta in parte opaco, e questa opacità è di per sé un problema democratico.


5. Soft power: l’America dentro casa nostra

Ombre non sono solo basi e servizi segreti. C’è anche un altro tipo di presenza americana, più sottile e quotidiana:

  • la cultura pop (film, serie, musica, social);

  • il modello di consumo (centri commerciali, fast food, e-commerce);

  • il linguaggio del lavoro (startup, coaching, leadership, personal brand).

In parte è un arricchimento, in parte rischia di appiattire la nostra identità e il nostro immaginario, soprattutto quando non ne siamo consapevoli. Il “sogno americano” viene importato in silenzio e diventa la misura con cui giudichiamo noi stessi: il nostro modo di fare impresa, di lavorare, perfino di raccontare il successo e il fallimento.


6. Oggi: hub di guerra in un Paese che “ripudia la guerra”

Nel 2025 le basi americane in Italia vengono descritte dalle analisi geopolitiche e dai media come snodi strategici centrali per le operazioni USA e NATO nel Mediterraneo, in Nord Africa e in Medio Oriente.(RaiNews)

Questo significa, in concreto, che:

  • l’Italia è spesso retrovia logistica di conflitti che si combattono altrove;

  • qualsiasi escalation in Medio Oriente, in Nord Africa o nell’Europa orientale ci riguarda direttamente, perché passa anche dalle nostre infrastrutture;

  • la nostra politica estera è fortemente intrecciata con le priorità strategiche di Washington.

Tutto questo mentre la nostra Costituzione continua ad affermare, nero su bianco, il ripudio della guerra. La contraddizione non è teorica: tocca scelte di vita, flussi migratori, sicurezza, investimenti, credibilità internazionale.


7. Quale verità possiamo dirci, oggi?

Se vogliamo uscire dalla narrazione infantile dell’“America amica” e, allo stesso tempo, evitare il complottismo sterile, possiamo provare a fissare alcuni punti:

  1. Gli Stati Uniti sono stati essenziali per la nostra ricostruzione economica, ma questo è avvenuto dentro una logica di blocchi e di egemonia, non come semplice gesto di altruismo.(Wikipedia)

  2. La presenza militare USA in Italia è capillare e strutturale, regolata anche da accordi segreti o poco trasparenti, sui quali il dibattito pubblico è debole rispetto al loro impatto reale.(iusinitinere.it)

  3. Gli anni della strategia della tensione e di Gladio mostrano l’esistenza di livelli paralleli di potere, in cui servizi italiani e alleati occidentali hanno interagito in modi non sempre limpidi. Non conosciamo tutta la verità, ma sappiamo abbastanza per considerare quel periodo un monito permanente.(Senato della Repubblica)

  4. Il soft power americano ha plasmato anche il nostro immaginario, spesso senza che ce ne accorgessimo. Non è “male” in sé, ma diventa un problema se smettiamo di domandarci chi siamo noi, al di là dell’imitazione.(Geopop)

  5. La vera questione, oggi, è la sovranità consapevole: possiamo essere alleati senza essere sudditi? Possiamo restare nel quadro NATO e nell’orbita occidentale pretendendo però trasparenza su basi, accordi, utilizzo del nostro territorio?


8. E adesso?

Aprire questi retroscena non significa demonizzare gli Stati Uniti, ma smettere di raccontarci una favola. L’Italia non è un personaggio secondario nel film di qualcun altro: è un Paese che ha diritto di conoscere i patti in cui è coinvolto, di discutere pubblicamente il ruolo delle basi, di chiedere verità completa sulle zone oscure del proprio passato.

La vera “ombra” non è l’America in sé.
La vera ombra è il silenzio con cui, troppo spesso, accettiamo tutto questo senza farci domande.

Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare questo articolo in una serie di post (newsletter, caroselli social, o una mini-serie di approfondimento sul tuo blog), ciascuno dedicato a uno di questi capitoli: basi, Gladio, soft power, sovranità.



«Quando mafia, guerre e profitti decidono la mappa del mondo, il terreno grida; sta a noi scegliere se restare in silenzio o diventare la sua voce.»

 Quando diciamo che “il terreno è maltrattato dai poteri forti” non stiamo usando una metafora poetica: stiamo descrivendo, in modo quasi letterale, ciò che sta accadendo a suolo, foreste, fiumi, città. Mafie, lobby economiche e guerre ridisegnano le mappe del pianeta secondo la logica del profitto e del controllo, non del bene comune.

In questo articolo proviamo a dare un nome a questi poteri, capire come pianificano il territorio e cosa significa, concretamente, “approfondire il globo” dal punto di vista delle persone, non dei board aziendali o degli eserciti.


1. Dare un nome al problema: non “poteri forti”, ma mafie, guerre, finanza estrattiva

“Poteri forti” è un’espressione generica che rischia di diventare uno sfogo e basta. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo nominare gli attori:

  • Mafie ed ecomafie: non più solo racket e droga, ma gestione illegale dei rifiuti, cemento, appalti, traffico di rifiuti tossici, speculazioni sui terreni agricoli. In Italia, il termine ecomafia viene utilizzato da Legambiente dagli anni ’90 per indicare le attività criminali organizzate che devastano l’ambiente, un settore divenuto altamente redditizio per centinaia di clan. (Wikipedia)

  • Guerre e complesso militare-industriale: i conflitti non distruggono solo vite umane, ma anche suolo, falde, biodiversità. Organizzazioni internazionali e ricercatori sottolineano come le guerre lascino dietro di sé ecosistemi contaminati, desertificati, incendi boschivi e infrastrutture tossiche. (Nazioni Unite)

  • Finanza estrattiva e land grabbing: fondi di investimento e grandi corporation acquistano o affittano enormi superfici di terra (soprattutto nel Sud globale) per agricoltura intensiva, biocarburanti, mega impianti energetici e miniere, spesso a scapito delle comunità locali. (IPES-Food)

Non è “un caso” se tante lotte territoriali in giro per il mondo assomigliano tra loro: spesso dietro c’è la stessa logica di concentrazione del potere su terra, acqua ed energia.


2. Il terreno maltrattato: tre ferite aperte sul globo

Per capire cosa significa “pianificazione del terreno maltrattato”, guardiamo tre scenari globali.

2.1. Ecomafie: quando l’illegalità ridisegna la geografia

In Italia, i rapporti annuali sulle ecomafie raccontano un Paese dove:

  • i reati ambientali restano migliaia ogni anno;

  • la gestione illegale dei rifiuti inquina suoli, fiumi e falde;

  • l’abusivismo edilizio trasforma coste, campagne e periferie in territori fragili, esposti a frane e alluvioni. (legambiente.it)

La cosa più inquietante è che la mappa dell’illegalità coincide spesso con quella della vulnerabilità sociale: dove il lavoro scarseggia e i servizi pubblici sono deboli, lì attecchiscono cave abusive, discariche illegali, capannoni pieni di rifiuti bruciati di notte.

2.2. Land grabbing: quando la terra viene “presa” a chi la abita

Negli ultimi decenni, il fenomeno del land grabbing – l’accaparramento di grandi estensioni di terra da parte di attori potenti – è esploso in molte regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Spesso le terre vengono vendute o concesse per:

  • monocolture destinate all’esportazione;

  • mega progetti “verdi” (biocarburanti, grandi impianti energetici);

  • infrastrutture e mining.

Le conseguenze sono quasi sempre le stesse: comunità sfollate, insicurezza alimentare, distruzione di ecosistemi locali. Sempre più studi sottolineano come queste operazioni, giustificate a volte con il linguaggio della “transizione ecologica”, aggravino disuguaglianze e crisi climatiche. (IPES-Food)

2.3. Guerre: il fronte invisibile è l’ambiente

Dalle città bombardate alla distruzione di infrastrutture industriali, le guerre lasciano dietro di sé un’eredità tossica:

  • in Ucraina, gli studi europei evidenziano un mix pericoloso di incendi boschivi su larga scala, inquinamento di suolo e acque e emissioni climalteranti legate alle attività belliche; (joint-research-centre.ec.europa.eu)

  • nella Striscia di Gaza, valutazioni recenti delle Nazioni Unite parlano di danni gravissimi a suoli, falde e costa, con impatti a lungo termine su salute, acqua e cibo. (UNEP - UN Environment Programme)

La guerra non devasta solo “il terreno” come scenario di combattimento: ne compromette la capacità di nutrire, dissetare, far vivere.


3. Come pianificano il territorio i poteri forti

La parola chiave è pianificazione, ma declinata al contrario di come la intendiamo dal basso.

3.1. Dall’alto verso il basso

La pianificazione del territorio viene spesso decisa:

  • in sale riunioni lontane dai luoghi;

  • attraverso strumenti tecnici incomprensibili ai cittadini (deroghe, finanza strutturata, appalti opachi);

  • con una comunicazione che “vende” ogni progetto come occasione d’oro: posti di lavoro, sviluppo, modernizzazione.

Dietro le slide patinate, però, si nascondono spesso:

  • vincoli ambientali aggirati,

  • comunità locali escluse dal processo decisionale,

  • complicità tra pezzi delle istituzioni e interessi criminali o speculativi.

3.2. L’uso delle crisi come leva

Un’altra costante è l’uso della crisi come giustificazione:

  • crisi energetica → nuovi gasdotti, trivellazioni, impianti “temporanei”;

  • crisi climatica → grandi progetti “verdi” che però cacciano le comunità dai propri territori;

  • crisi occupazionale → si accettano progetti inquinanti o opachi pur di “portare lavoro”.

Il risultato? Il territorio viene trattato come un sacrificabile, una merce da consumare per risolvere problemi nel breve periodo, spostando i costi ambientali e sociali sul futuro.


4. Un globo sotto pressione: cosa sta succedendo alla Terra

Se allarghiamo lo sguardo al globo, vediamo un disegno coerente: la terra – intesa come suolo, foreste, città, oceani – viene spremuta oltre il limite.

Alcuni segnali:

  • Le grandi foreste tropicali (Amazonia, bacino del Congo, Sud-est asiatico) stanno perdendo la loro capacità di assorbire CO₂ e, in alcune aree, sono diventate emittenti nette a causa di deforestazione, incendi e agricoltura intensiva. (The Guardian)

  • Le popolazioni che storicamente hanno custodito i territori – comunità indigene, discendenti di schiavi, piccoli agricoltori – vengono spesso spinte ai margini o private di diritti sulla terra, mentre i loro territori vengono concessi a progetti industriali o discariche. (The Guardian)

  • Crisi climatica, guerre e land grabbing si sommano, generando migrazioni di massa e spostamenti forzati: milioni di persone costrette ad abbandonare terre rese invivibili da alluvioni, siccità, inquinamento e conflitti. (The Guardian)

Il filo rosso è questo: la geografia del potere si ridisegna attraverso la geografia del danno.


5. Ripensare la pianificazione: dal potere che prende al potere che custodisce

A questo punto la domanda è: cosa significa pianificare un terreno ferito in modo diverso?

5.1. Partire dai custodi, non dai proprietari

In molti casi, i territori sono già curati da comunità che:

  • conoscono stagioni, corsi d’acqua, equilibri ecologici;

  • hanno costruito economie locali resilienti;

  • hanno un rapporto identitario con la terra.

Metterle al centro significa:

  • riconoscere diritti collettivi sulla terra, non solo proprietà individuali;

  • includerle nei processi decisionali, non come “audience” ma come soggetti politici;

  • tutelare legalmente il loro ruolo di custodi (non solo come minoranze “folkloristiche”).

5.2. Rendere visibili i costi nascosti

Ogni grande decisione territoriale dovrebbe rispondere a domande semplici:

  • Chi guadagna davvero da questo progetto?

  • Chi paga i costi ambientali e sanitari?

  • Cosa succede tra 20 o 30 anni a suolo, acqua, biodiversità?

  • Ci sono alternative più piccole, diffuse, meno impattanti?

La trasparenza non è uno slogan, ma la condizione minima per spezzare l’intreccio tra poteri forti, mafie e guerre economiche.

5.3. Spostare il potere di decidere

Una pianificazione diversa del terreno richiede nuovi luoghi di decisione:

  • assemblee cittadine e territoriali con poteri reali di proposta e veto su grandi opere;

  • bilanci partecipativi che orientino investimenti verso rigenerazione, non speculazione;

  • alleanze tra città e campagne, per evitare che le prime “scarichino” i loro problemi (rifiuti, inquinamento, consumo di suolo) sulle seconde.

Non si tratta di sostituire un potere forte con un altro, ma di passare da un potere che prende a un potere che custodisce.


6. Approfondire il globo: cambiare sguardo, non solo dati

“Approfondire il globo” significa smettere di guardare il mondo come una palla da sfruttare e cominciare a vederlo come un intreccio di relazioni:

  • tra chi abita un luogo e chi decide lontano da esso;

  • tra l’albero tagliato e l’alluvione di domani;

  • tra la guerra di oggi e il deserto di dopodomani;

  • tra il nostro stile di vita e le terre “invisibili” che lo rendono possibile.

Come persone, cittadini, lettori, possiamo:

  • informarci andando oltre i comunicati ufficiali e i titoli sensazionalistici;

  • sostenere comunità e movimenti che difendono i territori (anche solo amplificando le loro voci);

  • fare pressione sulle istituzioni, perché la pianificazione del territorio sia trasparente, partecipata e ancorata ai limiti ecologici reali.

Il terreno è maltrattato, sì. Ma non è muto. Ogni frana, ogni falda inquinata, ogni foresta che brucia, sono messaggi chiari. Sta a noi decidere se restare pubblico passivo di una mappa disegnata da mafie, guerre e finanza, o se mettere mano – insieme – a una nuova cartografia del pianeta, dove il potere forte è quello di chi cura, non di chi consuma.



lunedì 1 dicembre 2025

«La politica in Italia è crollata nel momento in cui ha smesso di rappresentare il popolo e ha cominciato a inventare poltrone per chi non le meritava.»

 La politica italiana è caduta molto prima dei governi

è caduta quando ha cominciato a creare spazi finti per persone sbagliate.

Non è solo una sensazione: i numeri parlano chiaro. Alle politiche del 2022 ha votato solo il 63,9% degli aventi diritto, il dato più basso della storia repubblicana. Alle Europee del 2024 si è scesi per la prima volta sotto il 50%: ha votato appena il 48,3% degli italiani. (Giulio Cavalli)
Nel frattempo, oltre la metà dei cittadini è convinta che la corruzione politica sia rimasta sostanzialmente invariata dai tempi di Tangentopoli. (La Stampa)

In questo articolo ti porto dentro un’idea scomoda ma necessaria:
la crisi della politica italiana come effetto di una lunga serie di spazi inventati, poltrone create, carriere costruite per chi non aveva alcun merito reale se non la fedeltà al capo giusto.


1. Cosa significa “spazi inesistenti” in politica

Quando parliamo di “spazi inesistenti” non parliamo solo di posti di lavoro.
Parliamo di:

  • poltrone create ad hoc: nuove authority, comitati, task force, sottosegretariati, cabine di regia nate più per sistemare qualcuno che per risolvere un problema;

  • nomine senza competenza: ruoli chiave affidati a persone senza un vero curriculum nel settore, ma con il curriculum giusto nel partito;

  • consulenze, staff, portavoce, incarichi speciali: cerchi ristretti che diventano ammortizzatori di carriera per fedelissimi;

  • liste bloccate e candidature “paracadutate”: persone sconosciute ai territori, ma vicine ai vertici, catapultate in collegi sicuri.

Sono spazi che non esisterebbero in un ecosistema meritocratico.
Esistono perché la politica ha scelto di premiare chi garantisce consenso e obbedienza, non chi porta visione, competenza e responsabilità.


2. Come si costruisce una classe dirigente che non merita

La caduta non avviene in un giorno. È un processo lento, quasi invisibile:

  1. La fedeltà sostituisce la competenza
    Il criterio diventa: “Mi coprirà le spalle?”, non “Sa fare il suo lavoro?”.
    Nei partiti, chi è allineato sale, chi critica o pensa in modo autonomo viene messo ai margini.

  2. La cooptazione sostituisce la selezione
    Non esistono più percorsi chiari: non sali perché hai studiato, amministrato bene, risolto problemi.
    Sali perché qualcuno ti “prende sotto la sua ala” e ti porta dentro.

  3. Il partito diventa un ufficio di collocamento
    Dovrebbe essere un laboratorio di idee, identità, progetto Paese.
    Diventa invece un luogo dove si distribuiscono posti, contratti, incarichi, visibilità. Chi resta fuori, spesso, è proprio chi avrebbe qualcosa da dire.

  4. Il linguaggio cambia: dalla visione alla gestione della paura
    Niente più grandi progetti collettivi.
    Si governa a colpi di emergenze, bonus, slogan: tutto a breve termine, purché si tenga insieme il proprio blocco di fedeltà.

Tangentopoli negli anni ’90 ha segnato una rottura storica, mostrando quanto un sistema di scambi e clientelismo potesse corrodere dall’interno le istituzioni. Ma molti studi ricordano che, anziché chiudere una stagione, ha semplicemente mutato le forme della corruzione e del potere, aprendo la strada a nuovi attori ma con vecchie logiche. (SIEP)


3. I dati della sfiducia: un Paese che guarda, ma non crede più

Questa occupazione di spazi da parte di “non meritevoli” ha un costo enorme: la fiducia.

Alcuni segnali chiari:

  • Astensionismo crescente

    • Politiche 2018: affluenza intorno al 73%.

    • Politiche 2022: 63,9%, minimo storico. (Giulio Cavalli)

    • Europee 2024: per la prima volta sotto il 50%, ha votato il 48,3% degli aventi diritto. (L'Espresso)

  • Percezione della corruzione immobile
    Un sondaggio mostrava come oltre il 56% degli italiani ritenga che, rispetto a 10 anni fa, la corruzione politica sia rimasta invariata e molto diffusa: per molti, “Tangentopoli non è mai finita”. (La Stampa)

  • Partecipazione politica impoverita
    Secondo un recente focus ISTAT, l’Italia si colloca tra i Paesi con i livelli più bassi di partecipazione politica attiva: cala chi si informa regolarmente, chi partecipa a riunioni, chi si iscrive a partiti e associazioni. (Istat)
    Molti cittadini parlano di politica, ma sempre di più da spettatori scontenti, non da protagonisti. (Il Mulino)

In parallelo, diverse analisi descrivono l’astensionismo come una vera e propria “patologia democratica”: una democrazia che perde il legame con la sua base sociale, dove la partecipazione diventa un privilegio di chi ha tempo, competenze e reti, mentre gli altri vengono spinti ai margini. (CRS - Centro per la Riforma dello Stato)


4. Quando la rappresentanza si svuota

Se gli spazi vengono riempiti da chi non merita, accadono almeno quattro cose:

  1. La politica non rappresenta più il Paese reale
    Tantissime storie di vita – precari, periferie, giovani, lavoratori autonomi, caregivers, piccoli imprenditori – non trovano voce.
    In Parlamento e nei luoghi decisionali arrivano spesso profili che non hanno mai vissuto sul serio quelle condizioni.

  2. Le decisioni si fanno corte di respiro
    Chi è lì per fedeltà, non per visione, non ha interesse a costruire politiche strutturali.
    Conta il ciclo di notizie della settimana, il sondaggio del mese, il consenso immediato.
    Risultato: riforme zoppe, annunci fragili, continui “decreti emergenziali”.

  3. La sfiducia diventa cinismo strutturale
    Le persone smettono di indignarsi e iniziano a ridere amaramente:
    “Sono tutti uguali”, “Tanto non cambia niente”, “Meglio non votare”.
    È il terreno perfetto perché chi occupa spazi immeritati continui a farlo indisturbato.

  4. Il conflitto si sposta sui social
    La piazza reale si svuota, si riempie quella digitale: commenti, sfoghi, insulti, polarizzazione.
    Ma la decisione vera resta altrove, in stanze dove siedono spesso le stesse figure poco competenti, protette dalla bassa partecipazione.


5. “Non meritano”: uno sguardo più preciso su questa frase

Dire “non meritano” è forte, e rischia di sembrare un giudizio sulle persone in quanto tali.
Per non scivolare nell’odio, è fondamentale precisare cosa significa davvero:

  • Non significa che certe persone non valgono “come esseri umani”.

  • Significa che non sono adeguate al ruolo che occupano, per mancanza di:

    • competenze tecniche;

    • etica pubblica;

    • senso del limite e della responsabilità;

    • capacità di rispondere delle proprie scelte davanti ai cittadini.

In una democrazia sana, quando non sei adeguato al ruolo, non entri o sei sostituito.
In una democrazia che ha creato spazi inesistenti, invece:

  • entri perché conosci qualcuno;

  • resti perché sei utile al sistema, non ai cittadini;

  • vieni difeso non per ciò che fai, ma per il potere che porti in dote.

La caduta della politica italiana, in questo senso, è prima di tutto una caduta di criteri: non è più chiaro perché una persona occupi un certo spazio istituzionale, se non per una catena di fedeltà.


6. Il ruolo dell’informazione: senza luce, gli spazi si deformano

Quando l’informazione è debole, precaria o sotto pressione, gli spazi deformati della politica proliferano.
Non è un caso che, proprio di recente, il sistema italiano abbia vissuto perfino un “quasi blackout informativo” dovuto a una grande mobilitazione dei giornalisti contro precarietà e mancato rinnovo dei contratti, con il rischio concreto di lasciare i cittadini senza un racconto aggiornato di ciò che accade nel Paese. (El País)

Una politica che crea spazi per non meritevoli ha bisogno di:

  • informazione stanca o frammentata;

  • dibattito pubblico rumoroso ma superficiale;

  • cittadini intrattenuti ma non davvero informati.

Per questo, il tema della qualità dell’informazione è profondamente politico:
chi controlla la luce, controlla anche la percezione degli spazi.


7. Si può invertire questa caduta?

Qui non si tratta di dire “vota questo” o “vota quello”.
Parliamo di qualcosa di più profondo: ricostruire il legame tra spazi di potere e persone che li meritano davvero.

Alcune leve possibili (a livello di sistema):

  • Selezione più trasparente nelle candidature
    Primarie vere, percorsi interni chiari, criteri minimi di competenza per ruoli tecnici.
    Non basterà, ma senza questo tutto il resto è maquillage.

  • Limiti e regole sulle nomine
    Procedure pubbliche, criteri espliciti, audizioni aperte per ruoli chiave (authority, aziende partecipate, grandi enti).

  • Valutazione delle performance
    Non solo “chi ha preso più voti”, ma chi ha rispettato programmi, tempi, obiettivi misurabili.

  • Partiti come scuole, non come agenzie di collocamento
    Formazione politica vera, lavoro nelle periferie, ascolto continuo, spazi di confronto interni dove il dissenso non sia punito ma usato per migliorare.

E, a livello di cittadini:

  • Informarsi in modo critico (non solo tramite social o slogan);

  • Partecipare: associazioni, comitati, movimenti, sindacati, amministrazione locale;

  • Fare pressione continua: non solo il giorno del voto, ma lungo tutto il ciclo delle decisioni.

Non è una soluzione facile né rapida.
Ma la verità è questa: finché la politica potrà creare spazi inesistenti per persone non all’altezza, continuerà a cadere, anche quando i sondaggi la danno in crescita.


8. Conclusione: riprenderci lo spazio che esiste davvero

Lo spazio più importante oggi non è una poltrona, ma il terreno invisibile tra cittadini e istituzioni.
È lì che si decide se una democrazia regge o crolla.

La politica italiana è caduta ogni volta che:

  • ha chiamato “merito” la fedeltà;

  • ha chiamato “opportunità” il clientelismo;

  • ha chiamato “rappresentanza” la semplice occupazione di posti.

Raccontare questa caduta non serve a sfogarsi e basta.
Serve a ricordare che gli spazi veri esistono ancora: quelli in cui si studia, si critica, si propone, si costruisce insieme.

Se torniamo a occuparli, con le nostre voci, competenze e responsabilità,
gli spazi finti inizieranno a sembrare per quello che sono sempre stati:
scatole vuote, che non reggono alla luce.



“Stiamo barattando la nostra umanità con uno schermo, una siringa di bellezza e un piatto troppo pieno, e non ci accorgiamo che più riempiamo le mani, più svuotiamo l’anima.”

 

Stiamo davvero “evolvendo”?
Come smartphone, corpi filtrati e tavolate infinite stanno logorando l’umanità

Per la prima volta nella storia, abbiamo in tasca più potere di quanto ne avesse un’intera civiltà qualche decennio fa. Possiamo parlare con chiunque, vedere qualsiasi cosa, comprare tutto, modificare il nostro volto, il nostro corpo, perfino la percezione che gli altri hanno di noi.

Eppure, dietro questa vetrina luccicante, c’è una verità scomoda: stiamo contribuendo attivamente alla rovina della nostra stessa specie, non con bombe o catastrofi improvvise, ma con micro-scelte quotidiane che sommate creano un disastro silenzioso.

In questo articolo entriamo nel cuore di tre pilastri del problema:

  1. Lo smartphone come protesi mentale

  2. L’estetica modificata a colpi di sieri “miracolosi” e filtri

  3. Le abbuffate ai tavoli importanti: il teatro del potere e dell’eccesso


1. Lo smartphone: non è più uno strumento, è una dipendenza riconosciuta

Abbiamo normalizzato qualcosa che, se lo guardassimo dall’esterno, ci apparirebbe inquietante: milioni di esseri umani che passano ore ogni giorno a fissare un rettangolo luminoso.

  • Lo consultiamo appena apriamo gli occhi.

  • Lo tocchiamo prima ancora di salutare chi vive con noi.

  • Lo controlliamo compulsivamente anche quando non c’è nessuna notifica.

Non è più comunicazione: è condizionamento.

Effetti reali (e devastanti) che fingiamo di non vedere

  • Attenzione frammentata: il cervello si abitua a contenuti da pochi secondi. Approfondire, leggere, studiare, riflettere diventa faticoso.

  • Dipendenza dall’approvazione: like, cuori, visualizzazioni diventano la nuova unità di misura del nostro valore.

  • Isolamento travestito da connessione: abbiamo migliaia di contatti, ma sempre meno relazioni vere.

  • Perdita di contatto con il corpo e il presente: non sappiamo più annoiarci, aspettare, camminare senza uno schermo in mano.

Il paradosso è assurdo: abbiamo creato uno strumento che doveva liberarci, e invece ci tiene in ostaggio.

E mentre pensiamo di “scegliere” i contenuti, un algoritmo, invisibile e impersonale, decide cosa farci vedere, cosa farci desiderare, cosa farci temere.


2. L’estetica modificata: il corpo come prodotto da ottimizzare

Creme miracolose, sieri rivoluzionari, ritocchini “leggeri”, filtri che ti cambiano il viso in tempo reale: siamo entrati nell’era in cui non esistiamo più così come siamo, ma solo come veniamo presentati.

Non ci basta essere vivi: vogliamo essere vendibili.

L’industria dell’insicurezza

Per convincerti a comprare, prima devono farti sentire sbagliato.

E allora:

  • Una ruga diventa un problema.

  • Una pancia morbida diventa un fallimento personale.

  • Un viso “normale” diventa “non abbastanza fotogenico”.

La narrazione è chiara:

“Così come sei non vai bene. Ma se compri questo, se fai questo trattamento, se ti adegui a questo standard… forse sarai accettato.”

Il risultato? Una generazione che:

  • ha paura di mostrarsi senza filtro;

  • si giudica duramente allo specchio;

  • si confronta in continuazione con immagini ritoccate e irraggiungibili;

  • misura la propria autostima in funzione di come appare, non di chi è.

Stiamo trasformando il corpo in un progetto perenne, mai concluso, mai soddisfacente.
E mentre ci concentriamo ossessivamente sull’involucro, l’interiorità – mente, cuore, anima, chiamala come vuoi – viene lasciata all’abbandono.


3. Abbuffate ai tavoli importanti: l’eccesso come status, lo spreco come normalità

C’è poi un altro teatro, meno discusso ma altrettanto simbolico: quello dei tavoli importanti, delle cene di lusso, dei buffet infiniti, dei meeting dove il cibo è scenografia del potere.

Piatti su piatti, portate su portate, calici, degustazioni, assaggi, sprechi.
Il messaggio è sottile ma chiarissimo:

“Conta chi può esagerare senza pensare alle conseguenze.”

In un mondo in cui una parte dell’umanità non ha accesso al cibo, l’altra si vanta di quanto può permettersi di buttare.

Non è solo questione di dieta o di salute fisica: è un problema etico e simbolico.

  • Mangiare fino a stare male.

  • Fotografare il piatto e non godersi il momento.

  • Usare il cibo come status, non come nutrimento.

La tavola, che potrebbe essere un luogo di connessione, diventa:

  • palcoscenico di apparenza;

  • distrazione da vuoti interiori;

  • anestetico emotivo (“mangio per non sentire”).


Il filo invisibile che unisce tutto questo

Smartphone, estetica modificata, abbuffate di cibo e di status: sembrano temi diversi, ma in realtà sono facce della stessa medaglia.

Tutto porta verso un’unica grande illusione:

“Non sei abbastanza. Ti manca qualcosa. Devi comprare, modificare, mostrare, accumulare per valere.”

E così:

  • non abbiamo più tempo per pensare;

  • non abbiamo più coraggio di mostrarci imperfetti;

  • non abbiamo più spazio per sentire davvero.

La vera rovina non è un’esplosione improvvisa, ma una disconnessione progressiva:

  • dall’altro (relazioni vere sostituite da interazioni superficiali);

  • dal proprio corpo (usato come oggetto, mai ascoltato);

  • dalla natura (vista come sfondo, non come casa);

  • da sé stessi (non sappiamo più chi siamo, solo come appariamo).


Ma allora siamo spacciati? No. Però dobbiamo smettere di raccontarcela.

Continuare a dire “è normale”, “lo fanno tutti”, “è il progresso” è il modo più veloce per accompagnare silenziosamente la nostra stessa decadenza.

Non abbiamo bisogno di diventare eremiti, né di distruggere la tecnologia o demonizzare ogni crema e ogni cena.

Ma abbiamo disperatamente bisogno di consapevolezza.

Cosa possiamo iniziare a fare, concretamente

  • Ridare un ruolo allo smartphone
    Non è un’estensione del nostro corpo. È un oggetto. Posalo. Imposta tempi, spazi senza schermo, passeggiate senza cuffie, momenti di noia volontaria.

  • Riappropriarci del corpo reale
    Guardarsi allo specchio senza filtro, imparare a prendersi cura di sé senza inseguire modelli impossibili. Chiedersi: “Questa cosa la faccio per me o per farmi approvare?”

  • Restituire sacralità al cibo e alla tavola
    Mangiare meno ma meglio. Essere presenti. Non trasformare ogni pasto in un contenuto. Ricordarsi che ogni piatto ha una storia, un costo umano e ambientale.

  • Allenare la profondità
    Leggere, contemplare, camminare, stare in silenzio, scrivere. Fare cose che non generano like ma radici.


Conclusione: la rovina non è inevitabile, ma è già iniziata

Il mondo, così com’è impostato, ci spinge verso una forma di auto-distruzione dolce: non ce ne accorgiamo perché tutto è presentato come comodo, bello, desiderabile.

Sta a noi scegliere se continuare a partecipare a questa recita o iniziare a sabotarla dall’interno, con piccoli gesti quotidiani.

Ogni volta che:

  • scegli di guardare il cielo invece dello schermo;

  • accetti una ruga invece di odiarla;

  • ti siedi a tavola per nutrirti, non per esibirti;

stai facendo qualcosa di enorme: stai interrompendo, anche solo per un istante, il meccanismo che sta logorando l’umanità.

La rovina non arriva da fuori.
La stiamo producendo noi, un tap, un filtro, un piatto alla volta.

E, per la stessa logica, possiamo anche essere noi a invertire la rotta.



sabato 29 novembre 2025

“Quando l’aiuto diventa ricatto, la disabilità non è più nel corpo, ma nella libertà che qualcuno ti ruba a poco a poco.”

 

Quando il “prendersi cura” diventa un gioco sporco:
le manipolazioni mentali sulle persone con disabilità motorie

“Se non fosse per me, tu non potresti fare nulla. Quindi è giusto che decida io.”

Dietro frasi come questa non c’è amore. C’è potere.
E quando il potere incontra una persona fragile, magari con difficoltà motorie o invalida, può trasformarsi in una vera e propria gabbia psicologica.

In questo articolo ti porto dentro il “gioco delle manipolazioni mentali” rivolte alle persone con disabilità, smontandolo pezzo per pezzo: dinamiche, trucchi più usati, conseguenze profonde e – soprattutto – cosa si può fare per difendersi, sia come persona coinvolta sia come familiare, operatore o semplice alleato.


1. Cos’è davvero la manipolazione mentale?

Non è semplice “influenza” o “persuasione”.
La manipolazione mentale è un uso intenzionale di parole, silenzi, gesti e situazioni per piegare la volontà di qualcuno a proprio vantaggio, senza rispettarne la libertà.

Caratteristiche tipiche:

  • c’è sempre una differenza di potere (fisico, economico, emotivo, sociale)

  • il manipolatore non è trasparente: dice una cosa, ne vuole un’altra

  • la persona manipolata finisce per dubitare di sé, dei propri bisogni e della propria percezione

Nel caso di persone con disabilità motorie o invalidità, questa dinamica si amplifica, perché spesso dipendono da altri per:

  • spostarsi

  • lavarsi, vestirsi, mangiare

  • gestire documenti, soldi, pratiche burocratiche

  • avere accesso ai luoghi, alle attività, alla socialità

Questa dipendenza materiale può diventare – se usata male – una leva potentissima sul piano mentale ed emotivo.


2. Perché le persone con disabilità sono più esposte alla manipolazione

Non perché “più deboli” dentro, ma perché vivono in un sistema che spesso le rende vulnerabili.

Ecco alcune condizioni che aprono la porta alle manipolazioni:

2.1 Dipendenza pratica da un caregiver

Chi ti lava, ti sposta, ti porta in bagno, spesso è anche chi:

  • decide quando puoi uscire

  • controlla chi puoi vedere

  • gestisce eventuali soldi o documenti

Questo crea una realtà non detta:

“Se lo contraddico, rischio di perdermi l’aiuto. E io dipendo da quell’aiuto.”

Il manipolatore lo sa, e può usare questa dipendenza come minaccia implicita.


2.2 Isolamento sociale

Molte persone con difficoltà motorie:

  • escono meno di casa

  • incontrano meno persone nuove

  • si appoggiano a pochi riferimenti stabili

L’isolamento è uno dei terreni preferiti dai manipolatori:
meno contatti hai, meno confronti hai.
E senza confronto, è più facile credere che:

  • “forse esagero”

  • “sono io il problema”

  • “in fondo mi vuole bene, è solo fatto così”


2.3 Senso di colpa e “peso” percepito

A volte la società bombardando con l’idea che la persona disabile sia un “peso”, crea una ferita interna:

“Dò fastidio, costo, complico la vita agli altri.”

Un manipolatore trasforma questa ferita in uno strumento di controllo:

  • “Con tutto quello che faccio per te…”

  • “Ti rendi conto di quanto mi stanchi?”

  • “Dovresti ringraziarmi, non lamentarti.”

Queste frasi spostano il fuoco: non si parla più di ciò che è giusto o sbagliato, ma di quanto la persona disabile si “permette” di esigere.


3. Le forme più subdole di manipolazione mentale in questo contesto

Vediamole in modo chiaro, una per una.

3.1 Gaslighting: farti dubitare della tua realtà

Il gaslighting è la manipolazione che ti fa chiedere:
“Sto impazzendo?”

Esempi tipici:

  • Negare fatti evidenti:
    “Non ti ho mai detto così, te lo sei inventato.”

  • Minimizzare episodi gravi:
    “Ma era solo uno scherzo, sei tu che sei troppo sensibile.”

  • Girare la frittata:
    “Se ti alzi nervoso è colpa tua, io non ho fatto nulla.”

Su una persona già in difficoltà, magari con paura di pesare sugli altri, l’effetto è devastante:
inizia a fidarsi più di chi la manipola che di se stessa.


3.2 Ricatto affettivo travestito da “cura”

Qui il messaggio è:

“Se non fai come dico io, ti faccio mancare affetto, presenza o aiuto.”

Frasi come:

  • “Dopo tutto quello che faccio, potresti almeno non discutere.”

  • “Se continui così, vedi che non ti accompagno più da nessuna parte.”

  • “Ti vedo solo io, gli altri ti hanno già abbandonato… ricordalo.”

In apparenza c’è cura, in profondità c’è controllo.


3.3 Infantlizzazione: trattarti come un bambino

Succede quando ti parlano di te davanti ad altri, come se tu non fossi presente o fossi incapace di capire:

  • “Lui è bravo, eh, ma quando fa i capricci… lasciamo stare.”

  • “Non si preoccupi dottore, con lui ci penso io.”

Oppure quando:

  • non ti vengono spiegate le decisioni che ti riguardano

  • ti si parla con tono e parole che useresti con un bimbo di 3 anni

  • ogni tua opinione viene archiviata come “fantasia” o “fase”

Questo non è “protezione”: è annullamento della tua identità adulta.


3.4 Controllo economico e burocratico

Chi controlla:

  • pensione di invalidità

  • bonus, indennità, rimborsi

  • documenti, deleghe, firme

ha in mano un potere enorme.

Manipolazioni possibili:

  • “Ti gestisco io i soldi, tu non sei in grado.”

  • “Non preoccuparti di queste cose complicate, sono io che decido.”

  • “Se mi fai arrabbiare, la prossima domanda non la faccio.”

Questo può portare la persona a non avere più accesso reale ai propri mezzi, pur essendone formalmente titolare.


3.5 “Nessuno ti crederà”

Altra carta tipica del manipolatore:

  • “Chi vuoi che ti stia a sentire?”

  • “Con la tua situazione, penseranno che sei confuso.”

  • “Se lo dici in giro, faccio vedere io chi credono.”

La persona disabile viene così convinta di non avere voce, di essere vulnerabile anche sul piano della credibilità sociale.


4. Le conseguenze profonde: molto oltre il “malessere”

La manipolazione mentale non lascia lividi, ma lascia:

  • crollo dell’autostima

  • ansia costante, paura di sbagliare, ipervigilanza

  • senso di colpa patologico (“sono io a farlo arrabbiare”)

  • difficoltà a prendere decisioni autonome

  • vergogna nel chiedere aiuto (“magari esagero”)

  • in alcuni casi, sintomi depressivi o dissociativi

Per una persona che ha già una battaglia fisica quotidiana, aggiungere anche questo peso psicologico significa logorare lentamente il suo diritto a esistere con dignità.


5. Come riconoscere che sei (o qualcuno è) dentro questo “gioco sporco”

Non servono diagnosi da esperto: ci sono campanelli d’allarme concreti.

Fai attenzione se:

  • ti senti obbligato a ringraziare anche quando subisci mancanze di rispetto

  • ti accorgi che prima di parlare ti chiedi: “Si offenderà? Mi punirà?”

  • ti senti in colpa ogni volta che chiedi qualcosa che è un tuo diritto (uscire, cambiare orario, vedere qualcuno)

  • chi si prende cura di te:

    • ti isola dagli altri

    • parla male degli altri che ti vogliono bene

    • pretende riconoscenza eterna

  • ogni discussione finisce con:
    “Senza di me non saresti nessuno.”

Se sei familiare o amico, osserva:

  • cambiamenti improvvisi di umore e chiusura

  • frasi come: “Meglio che non lo dica, altrimenti si arrabbia.”

  • paura continua di “disturbare” chi assiste

  • rinunce inspiegabili a attività che prima facevano bene


6. Cosa fare per uscire – o almeno iniziare a incrinare il meccanismo

Non esiste una ricetta unica, ma alcuni passi possono aiutare.

6.1 Primo livello: dentro di te

  • Dai dignità alle tue sensazioni
    Se qualcosa ti fa stare male, non è “dramma”: è un segnale.

  • Separare aiuto da potere
    Una cosa è il supporto materiale, un’altra è avere il diritto di decidere al posto tuo su tutto.

  • Riconosci i NO che hai ingoiato
    Fai un elenco mentale (o scritto) di situazioni in cui avresti voluto dire no e non l’hai fatto per paura di perdere l’aiuto.

Questo non risolve subito, ma rimette te al centro del racconto.


6.2 Secondo livello: aprire spiragli all’esterno

La manipolazione prospera nel silenzio. Alcuni passi possibili:

  • Parlare con un’altra persona di fiducia
    Un familiare, un amico, un vicino, un operatore esterno: chiunque non sia legato a doppio filo al manipolatore.

  • Usare servizi di ascolto e supporto psicologico
    Anche una o due consulenze possono aiutare a fare chiarezza. Spesso basta uno sguardo esterno per “rinominare” ciò che stai vivendo.

  • Se sei un familiare: osserva senza giudicare
    Non partire con “ti stai facendo manipolare”, ma con:
    “Come ti senti quando succede questo? Ti senti rispettato davvero?”


6.3 Terzo livello: ridefinire il patto di cura

Qui si entra nel concreto, e ogni situazione è diversa. Alcune possibilità:

  • Stabilire regole chiare
    Orari, compiti, spazi di privacy. Non dev’essere solo il caregiver a decidere.

  • Prevedere più di una figura di supporto
    Se possibile, alternare più persone (familiari, assistenti, servizi) riduce il potere assoluto di una sola persona.

  • Separare gestione economica e cura fisica
    Chi ti lava non deve per forza essere chi gestisce i soldi o i documenti. Separare i ruoli riduce il rischio di abuso di potere.


6.4 Quando la manipolazione sfocia nell’abuso vero e proprio

Ci sono casi in cui la manipolazione mentale si accompagna a:

  • minacce esplicite

  • abbandono intenzionale (“ti lascio lì così impari”)

  • umiliazioni ripetute davanti ad altri

  • uso improprio dei tuoi soldi o dei tuoi dati

In queste situazioni, la parola non è più solo “manipolazione”, ma abuso.

Può diventare necessario:

  • coinvolgere altri familiari

  • informare servizi sociali, associazioni di tutela, enti competenti

  • valutare, con professionisti, percorsi legali o di protezione

Non è “tradire” qualcuno: è proteggere la tua integrità.


7. Il ruolo di chi sta intorno: familiari, operatori, amici, vicini

Se non vivi direttamente la disabilità ma sei vicino a chi la vive, puoi diventare parte della soluzione.

Cosa puoi fare concretamente:

  • Ascoltare senza minimizzare
    Evita frasi come “ma dai, esageri”, “in fondo ti vuole bene”.
    Piuttosto: “Ok, raccontami meglio, cosa succede di preciso?”

  • Offrire confronto, non solo pietà
    Chiedi: “Come ti piacerebbe che fosse organizzata la tua giornata?”
    Non sostituirti, ma aiutalo/a a riprendere voce.

  • Non chiudere gli occhi su dinamiche sospette
    Se vedi umiliazione sistematica, ricatti, isolamento, non archiviarli come “carattere difficile”. Sono segnali.

  • Fare rete
    Mettere in contatto la persona con associazioni, gruppi, professionisti. Più relazioni ha, meno una singola persona può dominarla.


8. Un punto chiave: non basta “essere buoni”, serve un’etica del potere

Assistenti, infermieri, OSS, volontari, familiari: tutti coloro che si occupano di persone con disabilità hanno, che lo vogliano o no, un potere.

Non è solo questione di “bondà” o “vocazione”. È questione di:

  • riconoscere che chi è dipendente fisicamente è in posizione di svantaggio

  • lavorare attivamente per restituire autonomia, voce, scelta

  • accettare che chi riceve il tuo aiuto ha il diritto di:

    • criticarti

    • lamentarsi

    • chiedere altro

    • cambiare assistente

Quando la cura non include questa consapevolezza, rischia di scivolare – anche senza cattive intenzioni – verso forme sottili di manipolazione.


9. Non sei “ingrato”: stai solo rivendicando dignità

Se sei una persona con difficoltà motorie o invalida e ti sei riconosciuto/a in anche solo un pezzo di ciò che hai letto, voglio dirti una cosa chiara:

  • Non sei esagerato se ti senti soffocare.

  • Non sei ingrato se metti dei limiti.

  • Non sei egoista se chiedi rispetto oltre all’aiuto.

Hai diritto:

  • a essere ascoltato, non solo assistito

  • a scegliere chi ti aiuta, come, quando, per quanto

  • a sbagliare, cambiare idea, dire “no”

  • a vivere relazioni in cui non devi pagare ogni gesto di cura con la tua libertà mentale

Se ti va, nel prossimo passo posso aiutarti a:

  • trasformare questo articolo in una serie di contenuti per il tuo blog (titoli, rubriche, call-to-action)

  • o creare una guida pratica scaricabile per persone con disabilità e per chi le assiste

Dimmi solo se preferisci un taglio più informativo, più emotivo o più orientato alla denuncia sociale, e procediamo da lì.



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