domenica 16 novembre 2025

“Un politico che spende milioni per farsi ascoltare, ma non un’ora per camminare tra la sua gente, ha già perso la voce prima ancora del voto.”



La Politica che Cammina: perché miliardi in propaganda non valgono una passeggiata tra la gente

Ogni stagione elettorale si ripete lo stesso copione: fiumi di denaro scorrono nei canali della propaganda. Manifesti, spot televisivi, campagne social, influencer ingaggiati per un post o una storia. Le cifre fanno girare la testa — miliardi di euro investiti per convincere, sedurre, manipolare l’attenzione. Eppure, in questo vortice di slogan e promesse preconfezionate, resta dimenticato l’elemento più semplice e potente della comunicazione politica: camminare accanto al cittadino.

La distanza tra chi parla e chi ascolta

La politica contemporanea ha smarrito il passo. I leader parlano “dall’alto” dei palchi o “attraverso” uno schermo, ma raramente “con” le persone.
Ogni campagna è una guerra di immagini, una corsa al consenso istantaneo misurato in click e in visualizzazioni, non in sguardi e conversazioni.
Eppure, la vera comunicazione — quella che crea fiducia e radici — nasce dal movimento lento, dal confronto diretto, da una stretta di mano vera, da una chiacchierata per strada.

La propaganda compra l’attenzione, ma non la fiducia

Con i miliardi spesi in pubblicità, i partiti cercano di “comprare” il tempo degli elettori. Ma il tempo comprato non è mai tempo donato.
I cittadini non vogliono essere spettatori passivi di spot elettorali. Vogliono essere ascoltati, partecipare, raccontare i propri disagi e le proprie speranze.
La vera democrazia non si costruisce con le campagne media, ma camminando nei mercati, nei parchi, nei quartieri dimenticati, ascoltando la voce di chi non appare mai in TV.

Camminare come atto politico

Camminare è il gesto più umano e più rivoluzionario che esista.
Quando un politico sceglie di camminare, di guardare negli occhi, di farsi attraversare dai problemi quotidiani della gente, sta già comunicando in modo autentico.
La politica che cammina non ha bisogno di slogan: parla con il ritmo dei passi, con la presenza reale, con la lentezza che permette di capire davvero.

Ripartire dal passo, non dallo spot

Forse è arrivato il momento di una nuova forma di comunicazione politica — la comunicazione a piedi.
Un modello dove la parola non è lanciata da uno schermo, ma condivisa in cammino, tra la polvere delle strade e i respiri della città.
Perché la fiducia non si conquista con un jingle, ma con la coerenza quotidiana.
E le elezioni, alla fine, non si vincono con i soldi, ma con la verità del contatto umano.



sabato 15 novembre 2025

La noia è l’attimo in cui l’anima smette di cercare stimoli e comincia a desiderare verità — è lì che nasce la luce silenziosa dell’illuminazione.

 Titolo: Quando la Noia Diventa una Porta: L’Illuminazione come Fine della Ricerca di Eccitazione

C’è un momento nella vita in cui tutto sembra perdere sapore. Le esperienze, le relazioni, i progetti — persino i sogni — appaiono come repliche di qualcosa che abbiamo già vissuto. Si chiama noia, ma non è sempre un segno di vuoto. A volte è un segno di fame spirituale: il richiamo dell’anima verso una profondità che il mondo delle distrazioni non può più offrire.

La Noia come Fame di Verità

La noia non è pigrizia o disinteresse. È la tensione silenziosa tra ciò che siamo e ciò che ancora fingiamo di essere. Quando tutto perde senso, non è la vita che si svuota — è il vecchio sé che si sgretola. La mente, abituata a cercare stimoli, si ribella al silenzio. Ma proprio in quel vuoto nasce il varco. La noia diventa allora una soglia sacra: un invito a smettere di cercare fuori e a tornare dentro.

L’Illuminazione non è un Fuoco d’Artificio

Chi crede che l’illuminazione spirituale porti euforia o meraviglie sovrannaturali, resta deluso. L’illuminazione non aggiunge nulla: toglie. Togli l’attesa, la corsa, l’inquietudine di dover sentire di più. È la resa del cercatore al momento presente, dove l’ordinario smette di essere banale.
Quando il velo cade, il semplice atto di respirare diventa un universo intero. Il rumore della pioggia non è più sfondo: è il centro. La luce sul muro non è più insignificante: è la vita stessa che si manifesta, nuda, senza bisogno di applausi.

Nulla Cambia, eppure Tutto è Vivo

L’illuminazione non trasforma il mondo esterno, ma il modo in cui lo percepiamo. Il lavoro resta lavoro, le giornate scorrono uguali, ma l’occhio che guarda è diverso. Dove prima c’era abitudine, ora c’è presenza. Dove prima c’era fuga, ora c’è quiete.
Non si tratta di aggiungere intensità, ma di riconoscere che ogni istante è già pieno. La noia non ha più spazio, perché la mente non ha più bisogno di fuggire da sé stessa.

Conclusione

Essere annoiati può sembrare un punto morto, ma è spesso il preludio di una nascita. La noia è l’anima che chiede verità, non intrattenimento.
L’illuminazione non la colma con eccitazione, ma la dissolve nella consapevolezza che tutto è già qui.
E allora anche un gesto semplice — una tazza di tè, un passo nel silenzio — diventa preghiera.

Quando smetti di cercare l’eccezionale, l’ordinario ti rivela la sua meraviglia.

 



giovedì 13 novembre 2025

Bambini nati negli anni ’90 e problematiche sociali

 

Bambini nati negli anni ’90 e problematiche sociali

Introduzione

Nel decennio 1990–1999 sono nati oltre un miliardo di bambini nel mondo. In Italia questa generazione è spesso identificata con la Generazione Z. Diverse ricerche e documenti pubblicati negli anni ’90 e 2000 hanno analizzato le condizioni sociali dei bambini nati in quel periodo. I principali temi emersi riguardano la trasformazione della famiglia, la diffusione di povertà e precarietà, le difficoltà educative, l’impatto delle nuove tecnologie e la salute mentale. Di seguito si presentano le evidenze più significative, con riferimento a documenti prodotti negli anni ’90 o poco dopo e ad analisi successive che richiamano i dati di quel decennio.

1. Trasformazione della famiglia e mono‑genitorialità

Aumento dei divorzi e dei genitori non sposati

  • Aumento delle famiglie monoparentali – Uno studio del Demographic Research rilevò che oltre metà dei bambini nati negli Stati Uniti negli anni ’90 avrebbe trascorso parte della propria infanzia con un solo genitore. Tra il 1997 e il 2001 il 71 % dei figli di madri non sposate viveva in famiglie a basso reddito, contro il 27 % dei figli di genitori coniugatidemographic-research.org.

  • Dati sul divorzio – Un articolo del 1999 dell’Università del New Hampshire osservava che, a causa dell’aumento dei divorzi, circa la metà dei bambini nati negli anni ’90 sarebbe cresciuta per almeno cinque anni in una famiglia monoparentaleunhmagazine.unh.edu. La situazione era accentuata da madri lavoratrici e dalla scarsità di servizi di qualità per la cura dei figli.

  • Persone a rischio di divorzio – Una dispensa universitaria (Buffalo State College, 2009) riportava che oltre il 50 % dei bambini nati negli anni ’90 sperimentava la separazione dei genitori; i bambini afroamericani erano i più esposti e oltre il 50 % dei figli di divorziati poteva avere un patrigno entro quattro annifaculty.buffalostate.edu.

  • Studi su famiglie single – Un articolo di YouthWorker osservava che fino al 60 % dei bambini nati negli anni ’90 negli Stati Uniti avrebbero vissuto in famiglie monoparentali per parte della loro infanziayouthworker.com. Un’analisi dell’Encyclopedia.com sottolineava che metà dei bambini nati nei decenni successivi avrebbe trascorso almeno una parte della crescita con un solo genitoreencyclopedia.com.

Effetti sull’infanzia

La National Center for Education Statistics (NCES) negli Stati Uniti evidenziava che i bambini nati negli anni ’90 erano più vulnerabili perché aumentavano i casi di famiglie giovani a guida femminile, condizioni di povertà o famiglie in cui l’inglese non era la prima lingua. Tutto ciò riduceva il capitale economico e sociale disponibile per i bambini e aumentava il rischio di insuccesso scolasticonces.ed.gov. Le ricerche mettevano in evidenza il legame tra mono‑genitorialità e precarietà economica: una famiglia con un solo reddito aveva maggiori difficoltà a sostenere spese educative e di cura dei figli.

2. Povertà e disuguaglianze economiche

Incidenza della povertà infantile negli anni ’90

  • Povertà persistente – Un rapporto dell’Urban Institute (2012) analizzando i dati degli anni ’70‑’90 rilevava che circa il 16 % dei bambini americani era nato in famiglie povere. La percentuale era molto più alta per i bambini afroamericani (40 %) rispetto ai bianchi (10 %). I bambini nati da famiglie povere presentavano maggiori probabilità di restare poveri e avevano tassi più bassi di completamento della scuola superioreurban.org.

  • Effetti a lungo termine della povertà – Un’analisi del 2023 di CLASP riassumeva studi longitudinali: circa il 35 % dei bambini nati tra gli anni ’70 e ’90 sperimentò povertà in qualche fase della vita. Un quarto dei bambini neri trascorse più di tre quarti dell’infanzia in povertà, contro il 3 % dei bianchi. I bambini esposti a 8‑14 anni di povertà erano cinque volte più propensi a essere poveri a 35 anni rispetto a quelli con meno esposizioneclasp.org.

Situazione in Italia

  • Secondo il rapporto di Save the Children “25 anni dopo la Convenzione ONU” (2014), il 13,8 % dei minori italiani viveva in povertà assoluta e il tasso di abbandono scolastico era del 17 %. Lo studio sottolineava che la popolazione minorile rappresentava solo il 16,7 % del totale, ma includeva sempre più bambini con genitori stranieri (dal 1,2 % dei nati nel 1993 al 15 % nel 2012)savethechildren.itsavethechildren.it. L’aumento della povertà infantile era collegato a famiglie numerose, monogenitoriali, con genitori operai o disoccupati, e alla carenza di servizi pubblici per l’infanziasavethechildren.it.

  • Un articolo di Openpolis (2024) spiegava che il concetto di povertà educativa è emerso negli anni ’90 e descrive la privazione di opportunità culturali, sociali e formative necessarie allo sviluppo dei minori. L’articolo evidenziava che povertà economica e povertà educativa si alimentano a vicenda; nel 2023 il 13,8 % dei minori italiani era in povertà assoluta, con maggior rischio per famiglie monoparentali, famiglie con almeno tre figli e quelle con capofamiglia operaio o disoccupatoopenpolis.it.

3. Difficoltà educative e servizi per l’infanzia

  • Accesso limitato all’educazione prescolare – Il NCES negli Stati Uniti segnalò che i bambini nati negli anni ’90 erano più propensi a provenire da famiglie con risorse economiche e sociali ridotte e quindi meno esposti a programmi prescolari di qualitànces.ed.gov. L’assenza di educazione precoce di qualità può compromettere le competenze cognitive e sociali.

  • Scarso sostegno pubblico in Italia – Save the Children nel 2014 lamentava la mancanza di nidi e servizi per l’infanzia in Italia, sottolineando che i genitori faticavano a conciliare lavoro e cura dei figlisavethechildren.it. La riduzione della spesa pubblica per i servizi sociali ha contribuito a limitare l’accesso a attività educative e ricreative.

  • Emergere della povertà educativa – L’articolo di Openpolis indicava che negli anni ’90 la letteratura iniziò a utilizzare il termine povertà educativa per descrivere la negazione di opportunità formative e culturali ai minori, concetto poi ripreso da organizzazioni non profit e istituzioni pubblicheopenpolis.it.

4. Precarietà lavorativa per i giovani nati negli anni ’90

  • Un articolo di Aggiornamenti Sociali (2018) descriveva i giovani italiani nati negli anni ’90 come la “generazione della precarietà”. A causa delle riforme del mercato del lavoro e della crisi economica, questi giovani hanno vissuto un ingresso nel mondo del lavoro segnato da contratti a termine e lavori flessibili. Molti accettano orari irregolari o condizioni incerte per mantenere l’occupazione; coloro che emigrano all’estero percepiscono maggiori opportunità e autostima rispetto a chi resta in Italiaaggiornamentisociali.it. L’articolo osservava che la precarietà non è più vista come un passaggio temporaneo ma come normalitàaggiornamentisociali.it.

5. Salute mentale, isolamento e pandemia

  • Un approfondimento di Adolescenza InForma (2021) evidenziava che la “generazione Z” in Europa, formata da giovani nati negli anni ’90, fatica a replicare il successo lavorativo dei genitori a causa dell’instabilità economica. La pandemia di COVID‑19 ha aggravato il senso di insicurezza: molti giovani, nonostante una laurea, non trovano lavoro stabile e soffrono di depressione e isolamentoadolescenzainforma.it. Questo contesto ha esacerbato problematiche di salute mentale.

6. Impatto delle tecnologie digitali

  • Diffusione delle tecnologie – La tecnologia touch screen è apparsa negli anni ’90 ma ha conosciuto un boom dopo il 2010 con la diffusione di smartphone e tablet, che sono entrati in quasi tutte le famiglieilcircodellafarfalla.it. I bambini nati negli anni ’90 sono stati tra i primi a crescere immersi nella cultura digitale.

  • Rischi psicosociali – Un articolo di Il Circo della Farfalla (2020) avvertiva che l’uso precoce e intensivo di dispositivi digitali può portare a consumo passivo di contenuti, riducendo l’interazione sociale e rallentando lo sviluppo emotivo. Gli autori invitano a un uso equilibrato e alla mediazione degli adultiilcircodellafarfalla.it.

7. Altre problematiche emergenti

  • Migrazioni e multiculturalismo – Il rapporto di Save the Children (2014) indicava che la percentuale di bambini nati in Italia da genitori stranieri è passata dall’1,2 % nel 1993 al 15 % nel 2012savethechildren.it. Questa trasformazione ha reso le scuole più multiculturali, ma i figli di immigrati affrontano barriere linguistiche e discriminazioni, con maggior rischio di abbandono scolastico.

  • Disuguaglianze territoriali – In Italia le opportunità educative e lavorative variano molto tra nord e sud. La carenza di asili nido e l’alto tasso di NEET (giovani che non studiano né lavorano) sono più marcati nel Mezzogiorno.

Conclusioni

I bambini nati negli anni ’90 si sono trovati a crescere in un contesto caratterizzato da trasformazioni familiari (divorzi, convivenze e famiglie monoparentali), maggiore rischio di povertà, scarsità di servizi per l’infanzia e nuove sfide legate alle tecnologie digitali. Le evidenze mostrano che:

  1. La mono‑genitorialità è diventata comune, con oltre metà dei bambini nati negli anni ’90 destinata a vivere con un solo genitore; questa situazione è associata a maggiori livelli di povertà e a un rischio più elevato di insuccesso scolasticounhmagazine.unh.edudemographic-research.org.

  2. La povertà infantile persiste, colpendo soprattutto i bambini di origine afroamericana o immigrata e quelli di famiglie numerose o disoccupateurban.orgsavethechildren.it. L’esposizione prolungata alla povertà riduce drasticamente le chance di riscattoclasp.org.

  3. Le opportunità educative sono diseguali. Nei primi anni ’90 emerse il concetto di povertà educativa per descrivere la privazione di esperienze formative e culturaliopenpolis.it. La scarsità di nidi e servizi per l’infanzia limita la crescita dei bambini provenienti da famiglie svantaggiatesavethechildren.it.

  4. I giovani nati negli anni ’90 affrontano precarietà lavorativa e hanno difficoltà a raggiungere l’indipendenza economica; molti emigrano per cercare migliori opportunitàaggiornamentisociali.it.

  5. La salute mentale e l’isolamento sono aggravati dalla precarietà e dalla pandemia, aumentando i casi di depressione tra i giovaniadolescenzainforma.it.

  6. Le tecnologie digitali hanno trasformato l’infanzia e l’adolescenza, ma l’uso eccessivo può ridurre le interazioni sociali e lo sviluppo emotivoilcircodellafarfalla.it.

Comprendere queste problematiche è fondamentale per elaborare politiche e interventi mirati che sostengano le famiglie, potenzino i servizi educativi, riducano la povertà e tutelino il benessere mentale dei giovani nati negli anni ’90.

Nel decennio 1990-1999, le trasformazioni sociali hanno avuto un impatto significativo sulla generazione dei bambini nati allora. Diversi studi mostrano che oltre metà di questi bambini ha trascorso parte dell’infanzia in famiglie monoparentali; la diffusione di divorzi e di genitori non sposati ha aumentato l’instabilità familiareunhmagazine.unh.edudemographic-research.org. Questo fenomeno si è accompagnato a una crescita della povertà infantile, soprattutto tra i figli di immigrati o minoranze, con effetti a lungo termine sulla possibilità di riscattourban.org. Il concetto di “povertà educativa” nasce proprio negli anni ’90 per descrivere la mancanza di opportunità culturali e formative per i minoriopenpolis.it. In Italia si registra una carenza di servizi per l’infanzia, come gli asili nido, che aggrava il problemasavethechildren.it.

Un altro aspetto cruciale riguarda la precarietà lavorativa affrontata da questa generazione: i giovani nati negli anni ’90 sperimentano contratti temporanei e spesso emigrano per cercare condizioni miglioriaggiornamentisociali.it. Alla precarietà economica si sommano difficoltà di salute mentale, accentuate dalla pandemia, che limitano l’accesso a un futuro stabileadolescenzainforma.it. Infine, la diffusione delle tecnologie digitali, iniziata negli anni ’90, ha trasformato l’infanzia di questi ragazzi; se da un lato facilita l’accesso all’informazione, dall’altro la fruizione passiva può ostacolare lo sviluppo emotivo e socialeilcircodellafarfalla.it.




Anche nel buio delle guerre più forti, un solo pensiero di pace condiviso può diventare scintilla di luce capace di attraversare il mondo e accendere nuovi gesti d’aiuto.


Guerra, aiuti e la forza di un pensiero che gira

Viviamo in un’epoca in cui le guerre non sono più “lontane”: ci raggiungono in tempo reale nei feed, nelle chat, nelle stanze dove lavoriamo. Nel 2024 i conflitti che coinvolgono almeno uno Stato sono saliti ai livelli più alti dall’inizio delle serie storiche: 61 conflitti attivi, 11 dei quali classificati come guerre a piena scala. (Uppsala Universitet)

Questa mappa di violenza si riflette su un numero impressionante di vite spezzate o sospese: a giugno 2025, 117,3 milioni di persone erano in fuga da persecuzioni, guerre o violenze. Non sono statistiche: sono famiglie, anziani, bambini. (UNHCR) Nel frattempo, gli appelli umanitari globali stimano fabbisogni per oltre 45 miliardi di dollari nel 2025, con cronici sottofinanziamenti che lasciano milioni di persone senza riparo, acqua, cure. (OCHA)

Eppure, in questo rumore di fondo, c’è una leva che abbiamo tutti in mano: la forza di un pensiero che gira. Non è retorica: è una strategia di impatto, misurabile e scalabile, che parte dal modo in cui raccontiamo una crisi, da cosa condividiamo e da come trasformiamo l’attenzione in aiuto.


Perché un pensiero condiviso può muovere risorse reali

1) Il potere della specificità

Le persone aiutano di più quando vedono un volto o una storia precisa che rappresenti un bisogno—il cosiddetto identifiable victim effect. Significa che un appello concreto, ancorato a un caso reale e verificato, mobilita più aiuti di un post generico sui “milioni in difficoltà”. Nel tuo articolo, alterna dati macro a micro-storie con un obiettivo chiaro (“40€ = kit igienico per 1 famiglia per 1 mese”). (Taylor & Francis Online)

2) Contagio sociale (virale… ma positivo)

La condivisione non è neutra: innesca norme sociali. Quando chi ti legge vede che altri stanno donando, scrivendo ai parlamentari, aprendo le proprie case o competenze, aumenta la probabilità che agisca. Traduci la solidarietà in gesti replicabili e tracciabili (es. “10 minuti per 10 azioni”, con contatori pubblici).

3) Integrità dell’informazione = più fiducia = più aiuti

Misinformazione e disinformazione drenano fiducia e risorse. Una filiera informativa pulita (verifica delle fonti, link a organizzazioni autorevoli, avvertenze anti-bufale) accorcia la distanza tra lettura e azione. Anche le Nazioni Unite e l’UNESCO sottolineano l’urgenza di strategie attive contro la disinformazione. (Nazioni Unite)


Struttura consigliata per l’articolo (con blocchi già pronti)

Apertura: “Dove siamo”

  • Un paragrafo d’impatto con due dati chiave: numero di conflitti e persone in fuga. Poi un “ponte” verso il lettore: “Cosa può fare una singola persona davanti a numeri così grandi?” (Uppsala Universitet)

Sezione 1 — Capire senza perdersi

  • Spiega in modo semplice la differenza tra emergenze acute (guerra) e bisogni cronici (sanità, acqua, istruzione), perché questo orienta gli aiuti.

  • Inserisci un box “Come leggere le crisi”: tre righe su attori, bisogni, finestre temporali.

Sezione 2 — Il pensiero che gira (metodo in 3 mosse)

Mossa A: Micro-storie verificabili

  • Racconta una storia concreta (nome, luogo, bisogno, partner locale) e collega un pulsante “Dona ora” con importi-obiettivo.

  • Aggiungi un “perché adesso”: finestre di accesso umanitario si chiudono in giorni, non mesi.

Mossa B: Dal like all’impegno

  • Trasforma la condivisione in call to action: “Condividi + dona + portavoce”.

  • Prepara caption brevi con una frase, un numero, un link, e un obiettivo di 24 ore.

Mossa C: Tracciare l’impatto

  • Mostra in tempo reale quanto si raccoglie e cosa si finanzia (es. 20 filtri d’acqua attivati, 3 tende installate). La trasparenza alimenta nuovo coinvolgimento.

Sezione 3 — Toolkit anti-disinformazione per lettori

  • Regola 3-link: prima di condividere, apri 3 fonti indipendenti.

  • Controllo di realtà: preferisci domini ufficiali (ONU, ICRC, ONG registrate), report e appelli finanziari.

  • Segnala, non amplificare: se un contenuto è falso, non rilanciarlo con commenti indignati; segnala e passa avanti. (Nazioni Unite)

Sezione 4 — Dati che guidano il perché

  • Inserisci un riquadro con tre numeri facili da ricordare:

    • 61 conflitti statali attivi (record recente). (Uppsala Universitet)

    • 117,3 milioni di persone in fuga (giugno 2025). (UNHCR)

    • >45 miliardi $ richiesti per i piani umanitari 2025 (e gap di finanziamento). (OCHA)


“10 minuti, 10 azioni”: la checklist da mettere in fondo al post

  1. Dona ora (anche poco) a un programma specifico con importi “parlanti” (5€, 20€, 50€ = output tangibile). Collega una ONG con track record pubblico.

  2. Rendila ricorrente: micro-donazione mensile automatica, perché i bisogni non finiscono con i riflettori.

  3. Moltiplica: chiedi al datore di lavoro il matching o crea un micro-fondo tra amici.

  4. Scrivi ai tuoi rappresentanti: una mail firmata che chiede corridoi umanitari, cessate-il-fuoco, rispetto del DIU e aumento dei contributi ai fondi ONU. (Nel post, metti un template.)

  5. Apri competenze: traduzione, logistica, marketing, IT per ONG—la skills-based volunteering è aiuto ad alto ROI.

  6. Ospitalità responsabile: informati su programmi locali per l’accoglienza (anche temporanea) o il tutoring scolastico.

  7. Dona sangue: infrastruttura sanitaria sotto stress = bisogno costante.

  8. Riduci il rumore: applica la regola 3-link prima di condividere qualunque notizia di guerra. (Nazioni Unite)

  9. Investi nell’attenzione: segui due fonti affidabili e newsletter umanitarie; disiscriviti da canali che alimentano disinformazione. (Nazioni Unite)

  10. Traccia il tuo impatto: un foglio pubblico con “euro → risultati” (es. 50€ → 1 kit scolastico, 30€ → 1 consulto medico). La trasparenza ispira emulazione.


Etica dell’aiuto: tre bussole per non perdersi

  • Umanitario, non partigiano: metti al centro i civili e il diritto internazionale umanitario—sempre.

  • Prossimità e agency: privilegia partner locali e soluzioni che non “sostituiscano” le comunità, ma le rafforzino.

  • Lungo periodo: dall’emergenza alla ricostruzione (acqua, salute mentale, istruzione, lavoro). Gli appelli globali nascono esattamente per questo: programmare risposte multidimensionali e sostenute nel tempo. (OCHA)


Schema finale “ready-to-post”

  • Titolo: Un pensiero che gira può salvare vite (se lo facciamo girare bene)

  • Sottotitolo: Dati chiave, storie verificabili, e una checklist di 10 minuti per trasformare l’attenzione in aiuto.

  • Hero paragraph: i tre numeri (61 / 117,3M / >45 mld $) + gancio emotivo. (Uppsala Universitet)

  • Corpo: 4 sezioni come sopra, con box laterali “Come leggere le crisi” e “Toolkit anti-disinformazione”.

  • CTA: pulsante “Dona ora”, “Condividi con caption”, “Iscriviti a aggiornamenti mensili sull’impatto”.

  • Footer di trasparenza: link a fonti ONU/ONG, data dell’ultimo aggiornamento numeri, disclaimer anti-disinformazione.


Perché pubblicarlo adesso

Perché i numeri non sono solo record statistici: raccontano un sistema umanitario che ha bisogno di noi, ora. Ogni lettore può diventare nodo attivo di una rete che dona, verifica, propone, segnala e tiene accesi i riflettori sulle persone più esposte. In un mondo saturo di parole, un pensiero che gira—chiaro, verificato e orientato all’azione—può davvero cambiare le cose. E moltiplicarsi.


Fonti essenziali

  • UCDP/Uppsala: record di conflitti statali attivi nel 2024. (Uppsala Universitet)

  • UNHCR, Mid-Year Trends 2025: 117,3 milioni di persone in fuga (giugno 2025). (UNHCR)

  • OCHA, Global Humanitarian Overview 2025 (aggiornamenti 2025): requisiti >45 miliardi $ e sottofinanziamento. (OCHA)

  • Identifiable victim effect: rassegna e studi recenti. (Taylor & Francis Online)

  • Contromisure alla disinformazione: ONU/UNESCO. (Nazioni Unite)




mercoledì 12 novembre 2025

Quando si Giocava con Mani e Gambe — Il Tempo in cui Bastava un Cortile per Essere Felici

 Titolo: Quando si Giocava con Mani e Gambe — Il Tempo in cui Bastava un Cortile per Essere Felici

C’erano giorni in cui la parola “gioco” non aveva bisogno di batterie, schermi o connessioni. Bastavano due mani, due gambe e un po’ di fantasia. I bambini uscivano in strada, nei cortili, nei campi, e il mondo diventava subito un grande campo da gioco senza limiti né istruzioni. Ogni pietra era un tesoro, ogni corda una frontiera, ogni tocco una regola inventata sul momento.
Era l’epoca dei giochi che nascevano dal corpo, dal ritmo e dal respiro.


Le mani che parlavano

Le mani avevano una lingua segreta.
Con un battito di palmi, uno schiocco di dita o un intreccio di dita si costruivano universi.
C’erano “Patty Cake”, “Batti le mani”, “Regina reginella” e mille altre varianti locali.
Ogni colpo di mano seguiva una melodia, un piccolo rituale tra amicizia e competizione. Era un modo per dirsi: “Io ci sono, tu ci sei, giochiamo insieme.”
Le mani diventavano tamburi, strumenti, e anche piccoli strumenti di magia: con esse si disegnavano confini invisibili, si contavano punti, si sfidava il destino di una risata.

E poi c’erano i giochi con la corda, in cui le mani roteavano il filo mentre le gambe saltavano a ritmo perfetto. Un movimento che univa coordinazione e musica. Si cantavano filastrocche antiche, tramandate di bocca in bocca, con parole che nessuno sapeva davvero da dove venissero, ma che suonavano come formule incantate: “Ambarabà ciccì coccò…”, “Giro giro tondo…”, “Campana campanella…”


Le gambe che correvano, saltavano, danzavano

Le gambe erano ali.
Ci si rincorreva fino a perdere il fiato: acchiapparella, nascondino, uno due tre stella, bandiera, campana.
Ogni corsa era una piccola sfida con se stessi e con il vento.
I muscoli imparavano la gioia della fatica, e il cuore batteva forte — non per l’ansia, ma per la vita che traboccava.

Nel gioco della campana, bastava un gessetto e un sasso per tracciare la mappa di un regno personale. Ogni salto era un passo verso l’equilibrio, un piccolo atto di concentrazione che allenava corpo e mente.
Nel salto alla corda o nei salti a elastico, si imparava la grazia del movimento: non serviva essere atleti, ma sapersi muovere al ritmo della terra.

E poi c’erano le sfide d’agilità come lo “strega comanda color” o “un due tre stella”, dove la velocità si mescolava alla prontezza mentale. Si imparava a osservare, a capire i tempi, a improvvisare.


Il corpo come linguaggio

Nei giochi antichi, il corpo non era solo uno strumento, era un linguaggio.
Si comunicava correndo, si rideva rotolandosi sull’erba, si imparava la forza attraverso le cadute.
Ogni ginocchio sbucciato era una medaglia.
Ogni graffio raccontava una giornata piena di vita.

C’era qualcosa di profondamente educativo in quei giochi: un’educazione naturale all’equilibrio, al coraggio, al rispetto delle regole (e alla loro continua invenzione). Si imparava che il corpo non era un limite, ma una possibilità.


La fantasia come tecnologia

Oggi si parla di realtà aumentata, ma allora bastava chiudere gli occhi e immaginare.
Un bastone diventava una spada, una scatola un castello, una pozzanghera un oceano.
Le mani e le gambe erano i primi joystick dell’infanzia, mossi da pura immaginazione.
Non servivano filtri, solo sguardi.
La mente si allenava a creare, il corpo a seguire il ritmo dell’invenzione.


Giocare oggi come allora

Recuperare quei giochi non significa tornare indietro, ma riconnettersi al ritmo naturale dell’essere umano.
Nel movimento libero c’è libertà mentale.
Nel gioco collettivo c’è socialità vera, fatta di sguardi, contatti e risate reali.
E nel gesto semplice delle mani che si incontrano, c’è ancora tutto il senso antico del “noi”.

Portare quei giochi nelle scuole, nei parchi, nei laboratori creativi è un atto poetico e terapeutico.
È ricordare che il corpo pensa, parla e sogna, e che ogni movimento può essere un dialogo con la vita.


Conclusione:
I giochi di una volta non erano solo passatempo, erano filosofia quotidiana.
Ci insegnavano la resilienza, la solidarietà, la leggerezza.
E forse, se chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il suono delle nostre mani che battono ancora una volta insieme, potremo risentire il ritmo autentico dell’infanzia: quello in cui ogni passo, ogni corsa, ogni caduta era un piccolo atto d’amore verso la vita.




Pensare o perdersi nei pensieri? La sottile linea tra chiarezza e smarrimento interiore

 Titolo: Pensare o perdersi nei pensieri? La sottile linea tra chiarezza e smarrimento interiore


Ci sono momenti in cui pensiamo, e momenti in cui veniamo pensati. La differenza può sembrare sottile, quasi invisibile, ma dentro quella sfumatura si gioca la libertà della mente umana.

Pensare è come osservare le nuvole che scorrono nel cielo: un atto consapevole, scelto, lucido.
Perdersi nei pensieri, invece, è dimenticare di essere il cielo stesso. È confondere ciò che passa con ciò che è.

Il pensiero come strumento, non come padrone

Il pensare nasce da un movimento consapevole: l’attenzione sceglie un tema, un’idea, una riflessione, e vi si posa come un pittore che prepara il colore sulla tela. In quel gesto c’è ordine, presenza, direzione.

Ma quando la mente inizia a generare pensieri in automatico — catene di immagini, ricordi, ipotesi, paure — e noi li seguiamo senza accorgercene, allora non stiamo più pensando: siamo pensati.
È come se una corrente invisibile ci trascinasse lontano da noi, mentre la consapevolezza si dissolve sullo sfondo.

La mente che usa te

Quando ti perdi nei pensieri, non sei più l’osservatore ma il protagonista del film mentale. Ti identifichi con ciò che pensi, reagisci, giudichi, soffri o ti esalti per ciò che accade nella mente.
In quel momento, la mente usa te: ti prende come materia, come carburante per continuare a generare contenuti, storie, ansie, desideri.

Pensare, invece, è usare la mente come strumento di chiarezza. È fermarsi, ascoltare, scegliere con quale nuvola danzare e quale lasciar scorrere.

La consapevolezza come spazio del pensiero limpido

La consapevolezza non è un pensiero, è il luogo in cui i pensieri appaiono e scompaiono. Quando rimani testimone — presente, vigile, stabile — i pensieri non ti dominano: scorrono, ma non ti trascinano.
È in questo spazio che la mente diventa trasparente, che il pensiero si illumina di lucidità.

Quando la consapevolezza si perde, invece, il cielo si vela. Il pensiero diventa tempesta, vortice, rumore.
Non sei più nel presente, ma disperso in mille “altrove”.

Tornare al testimone

Tornare al testimone significa ricordarsi di essere il cielo.
Non serve combattere i pensieri o cercare di fermarli — basta vedere che ci sono.
In quell’atto di vedere, senza giudicare, si dissolve l’identificazione.
Il cielo torna visibile dietro le nuvole.

Puoi esercitarti così:

  • Quando ti accorgi di essere perso nei pensieri, non giudicarti.

  • Fai un respiro profondo e chiediti: “Chi sta pensando in questo momento?”

  • Non cercare una risposta mentale: ascolta il silenzio che segue.

In quel silenzio, la mente si placa. Il cielo della consapevolezza si apre.
E da lì, il pensare torna a essere un atto di libertà, non di prigionia.


In sintesi:

  • Pensare è un atto consapevole, direzionato, limpido.

  • Perdersi nei pensieri è un movimento automatico, in cui la mente prende il controllo.

  • La consapevolezza è il cielo che rimane immutabile dietro ogni nuvola.

Sii il cielo, non la tempesta.
Guarda i pensieri, ma non diventare i pensieri.
È lì, in quello spazio di quiete, che nasce la vera chiarezza.




Quando l’Io si Scioglie: il Cielo che Rimane dopo le Nuvole del Pensiero

 Titolo: Quando l’Io si Scioglie: il Cielo che Rimane dopo le Nuvole del Pensiero

Ci sono tradizioni spirituali, filosofie e vie contemplative che, pur provenendo da culture lontane, si incontrano in un punto essenziale: l’idea che l’“io” sia un’illusione. Dal buddhismo zen all’advaita vedānta, fino a certi approcci moderni della psicologia contemplativa, la consapevolezza viene vista come uno spazio senza centro personale, un campo in cui i pensieri sorgono e svaniscono come onde su un mare che non si muove mai davvero.

Eppure, anche dopo aver compreso questa prospettiva — anche dopo aver “visto” che l’io non è un’entità reale — i pensieri egocentrici continuano a sorgere. “Io voglio”, “Io temo”, “Io ricordo”. Come spiegare questa persistenza?

L’eco di un sogno

Le scuole non-duali risponderebbero che l’illusione dell’io è un’abitudine millenaria. Non è una costruzione mentale che svanisce con una singola intuizione, ma un pattern, un solco inciso nel sistema nervoso, nella memoria, nel linguaggio.
Vedere l’illusione è come svegliarsi da un sogno molto vivido: anche una volta svegli, per qualche istante, il corpo reagisce ancora alle emozioni del sogno. Il battito resta accelerato, il respiro corto. Così i pensieri egocentrici persistono come residui di energia psichica, echi di una storia che la mente ha raccontato per anni.

Il corpo come radice dell’illusione

Le tradizioni contemplative spesso ricordano che il senso dell’io personale è radicato nella percezione del corpo. Finché c’è respiro, finché il cuore batte e gli organi inviano segnali al cervello, l’esperienza sensoriale mantiene una continuità narrativa. Il corpo diventa la pagina su cui la storia dell’“io” continua a scriversi, anche quando si è già compreso che l’autore è immaginario.

Non si tratta di un fallimento dell’illuminazione, ma di una naturale coesistenza tra due livelli: la visione e la condizione. La visione è chiara, la condizione è umana.

L’osservatore che non cade nella trappola

Chi ha visto l’illusione non smette di avere pensieri egocentrici — semplicemente, non li crede più. La differenza è sottile ma radicale. Il pensiero “io voglio essere riconosciuto” può ancora sorgere, ma non trova più un centro a cui aggrapparsi. È un movimento, non un fatto.
In questa libertà, la mente diventa come un cielo che non si identifica con le nuvole. I pensieri passano, si dissolvono, e il cielo resta intatto: vasto, silenzioso, senza proprietario.

La dissoluzione graduale

Molti maestri descrivono questo processo non come un’illuminazione istantanea, ma come una dissoluzione graduale. Ogni volta che un pensiero egocentrico sorge e viene visto per quello che è, l’illusione perde forza. Ogni riconoscimento è come una piccola fiamma che consuma la nebbia.

Nel tempo, ciò che resta non è un “nuovo io”, ma una presenza trasparente, consapevole del gioco, libera dalla necessità di possedere ogni esperienza.

Il cielo non ha bisogno di riposo

Alla fine, la mente smette di lottare contro i propri pensieri. Non cerca più di eliminarli, perché ha capito che non possono contaminare ciò che realmente è. Il cielo non teme le nuvole.
Quando l’“io” viene visto come un miraggio, ciò che rimane non è il nulla, ma la realtà nuda e viva di ogni istante. Una consapevolezza che osserva il mondo danzare — e non chiede più di essere qualcun altro.


Conclusione:
L’illusione dell’io non svanisce come una fiamma spenta, ma come il fumo che lentamente si dissolve nel vento. Finché il corpo respira, l’eco della storia personale continuerà a suonare, ma chi ascolta non è più catturato dalla melodia.
E in quel silenzio, sotto il rumore dei pensieri, si apre l’immenso cielo della presenza: ciò che non è mai nato, e che perciò non può morire.




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