lunedì 24 novembre 2025

“Davanti a ogni insulto, a ogni spinta, a ogni ‘sei esagerata’, c’è una sola risposta possibile: **STOP. La violenza non è amore.**”

 Fermarsi, oggi, è già scegliere da che parte stare.


25 novembre: non una ricorrenza, ma un alt

Ogni 25 novembre il mondo ricorda la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999. (Wikipedia)
È una data che nasce dal sangue delle sorelle Mirabal, tre donne dominicane torturate e uccise nel 1960 per la loro opposizione alla dittatura. (Wikipedia)

Da allora sono passati decenni, ma i numeri continuano a dirci che la violenza non è un’emergenza: è un fenomeno strutturale.
In Italia, solo nel 2024 sono state uccise oltre cento donne, e nella grande maggioranza dei casi a farlo è stato un partner o un ex. (Comunicazione Italiana)

In questo scenario, il verbo più rivoluzionario che possiamo usare è uno: fermarsi.


Fermarsi non è restare fermi

Fermarsi non significa essere passivi. Significa:

  • Fermarsi a guardare
    Non voltare più lo sguardo dall’altra parte. La violenza non è solo il femminicidio che finisce in prima pagina: è insulti quotidiani, controllo, isolamento, svalutazione, ricatto economico, stalking. (EpiCentro)

  • Fermarsi a nominare le cose
    Dire “violenza” quando è violenza. Non “gelosia”, non “raptus”, non “è fatto così”. Le parole non sono un dettaglio: sono il primo argine culturale.

  • Fermarsi prima che sia troppo tardi
    La maggior parte delle donne uccise aveva alle spalle una storia di violenze pregresse e segnali ignorati. (Polizia di Stato)
    Fermarsi significa prendere sul serio quei segnali già al primo episodio.


Fermarsi è un gesto quotidiano (che riguarda tutti)

Questa giornata non appartiene solo alle donne. È una chiamata collettiva a rallentare l’autopilota con cui viviamo e a chiederci: cosa sto normalizzando?

Ecco alcuni modi concreti di “fermarsi” nella vita di ogni giorno:

  • Nel linguaggio

    • Non ridere a una battuta sessista.

    • Non dire “sono cose di coppia” se davanti hai controllo o umiliazione.

    • Correggere, con calma ma con fermezza, chi giustifica o minimizza.

  • Nelle relazioni

    • Chiedersi: “Se fosse mia sorella, mia figlia, la mia migliore amica, lo considererei accettabile?”

    • Non usare il silenzio o il ricatto emotivo come arma.

    • Ricordare che l’amore non chiede mai prove che passano da paura, rinuncia, isolamento.

  • Nelle situazioni di possibile pericolo

    • Se senti urla, richieste di aiuto, litigi che degenerano, non archiviarli come “fatti loro”.

    • Puoi chiamare le forze dell’ordine. Anche un dubbio, a volte, salva una vita.


Fermarsi per ascoltare chi non riesce più a parlare

Per molte donne la violenza è una prigione fatta di vergogna, paura e senso di colpa. Fermarsi significa diventare un orecchio affidabile:

  • Creare spazio perché possano parlare senza essere giudicate (“Perché non te ne sei andata?” è una domanda che ferisce due volte).

  • Non improvvisarsi “salvatori”, ma accompagnarle verso chi ha competenze:

    • centri antiviolenza

    • sportelli ascolto

    • numeri di emergenza nazionali e locali

Se chi legge è una donna che vive violenza, il messaggio è uno:
non è colpa tua, non sei esagerata, non stai “provocando”. Hai diritto a essere creduta e a essere al sicuro.


Fermarsi anche come istituzioni e media

Fermarsi è un dovere anche per chi ha voce pubblica:

  • Nelle istituzioni, ogni 25 novembre dovrebbe essere un checkpoint: quali fondi sono stati davvero destinati ai centri antiviolenza? Quali percorsi di uscita sono concretamente accessibili? (Interno)

  • Nei media, raccontare la violenza senza spettacolarizzarla, senza trasformare le vittime in titoli morbosi o i carnefici in “bravi ragazzi che hanno perso la testa”.

Perché ogni numero è una storia, una vita, un nome che non verrà più chiamato.


Un invito semplice e radicale

In questa Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’invito è semplice e radicale:

  • Fermati un minuto prima di condividere l’ennesimo contenuto senza pensarci.

  • Fermati un minuto se un’amica ti sembra spenta, ritirata, diversa.

  • Fermati un minuto davanti a una panchina rossa o a una fila di scarpe vuote in piazza, e chiediti cosa puoi fare tu, concretamente, perché restino solo simboli e non anticipazioni di cronaca. (Wikipedia)

Non cambieremo il mondo in un giorno.
Ma ogni volta che ci fermiamo, smettiamo di far finta di non vedere.
Ed è da lì che comincia ogni vero cambiamento.



grande illusione” con un contrasto netto: un interno caldo e rassicurante, dove un uomo legge tranquillo accanto al fuoco, mentre fuori dalla finestra la città brucia e un tornado devasta il paesaggio. È la metafora visiva del sentirsi al sicuro dentro una bolla fragile, mentre il mondo intorno è in pieno mutamento.

 La comfort zone non è più “comfort”: perché oggi ci sta facendo male (soprattutto al lavoro)


Per anni abbiamo pensato alla comfort zone come a uno spazio sicuro: routine conosciute, mansioni ripetitive, dinamiche con colleghi prevedibili, poche sorprese.
Oggi, però, questa zona di “comfort” sta diventando sempre più spesso una gabbia invisibile – e nel mondo del lavoro l’effetto è devastante.

Non si tratta solo di “paura del cambiamento”: la comfort zone sta causando problemi concreti alla carriera, alla salute mentale e persino alle relazioni professionali.

Vediamo perché.


1. La grande illusione: sentirsi al sicuro mentre tutto intorno cambia

La comfort zone è, di fatto, un meccanismo di risparmio energetico: faccio ciò che conosco, seguo schemi abituali, evito il rischio. Il cervello è felice: niente stress da novità, niente fatica cognitiva.

Il problema è che il mondo del lavoro non è statico.
Mentre noi restiamo fermi in ciò che conosciamo:

  • cambiano strumenti, software, linguaggi, processi;

  • cambiano i modelli di business e le richieste del mercato;

  • cambiano i ruoli professionali e le competenze chiave.

La comfort zone crea un’illusione: “Se continuo a fare bene quello che so fare, sarò al sicuro”.
Ma nel lavoro di oggi, fare bene una cosa che non è più richiesta non è sicurezza: è vulnerabilità.


2. Gli effetti sul lavoro: come la comfort zone si traduce in problemi seri

2.1 Obsolescenza professionale

La prima conseguenza è la più evidente:
chi rimane nella propria comfort zone troppo a lungo smette di aggiornarsi.

  • Rifiuta nuovi strumenti (“Non ho tempo di imparare questo software, mi trovo bene con Excel”).

  • Resiste ai cambiamenti di processo (“Abbiamo sempre fatto così”).

  • Evita ruoli o progetti nuovi (“Non è il mio campo, datelo a qualcun altro”).

Risultato?
Nel giro di qualche anno, la persona diventa professionalmente obsoleta. Non perché sia incapace, ma perché ha difeso la propria routine come se fosse un diritto acquisito.

In un mercato del lavoro fluido, questo è un lusso che non possiamo più permetterci.


2.2 Calo di motivazione e senso di vuoto

Paradossalmente, la comfort zone non porta solo immobilismo, ma anche demotivazione.

Quando ogni giornata di lavoro è una copia della precedente:

  • diminuisce la sensazione di crescita;

  • cala il senso di sfida;

  • il lavoro diventa puro automatismo.

L’essere umano, però, ha bisogno di percepire progresso.
Quando questo non accade, si insinua quella sensazione sottile di:

“Sto sprecando tempo”
“Non sto andando da nessuna parte”
“Potrei fare molto di più, ma non succede mai niente di nuovo”

E qui la comfort zone, che doveva proteggerci, diventa una zona di anestesia: facciamo il necessario, spegniamo il pilota automatico e sopravviviamo alle giornate.


2.3 Ansia e paura del cambiamento (che peggiorano nel tempo)

Più restiamo nella comfort zone, più ogni cambiamento ci appare gigantesco.

È come stare sempre in una stanza chiusa:
quando finalmente apri la porta, la luce di fuori ti acceca, i rumori sembrano enormi, ogni passo è insicuro.

Nel lavoro succede lo stesso:

  • un nuovo collega ti scombina gli equilibri;

  • un nuovo responsabile ti mette in crisi;

  • una ristrutturazione aziendale diventa una minaccia totale;

  • una semplice richiesta extra (“Puoi presentare tu al cliente?”) ti sembra una montagna.

La verità è dura: la comfort zone allena la fragilità, non la sicurezza.
Più resti nel conosciuto, più ti indebolisci fuori da esso.


2.4 Relazioni professionali superficiali e ripetitive

C’è anche un impatto sociale.
Restare nella comfort zone significa spesso:

  • parlare sempre con le stesse persone;

  • evitare confronto con colleghi di altri reparti;

  • non chiedere feedback per paura di critiche;

  • non proporre idee per paura di giudizi.

Questo porta a relazioni:

  • prevedibili ma poco autentiche;

  • rispettose in apparenza, ma povere di crescita;

  • incapaci di generare innovazione.

Chi vive così finisce per sentirsi isolato pur stando in mezzo alla gente.
Lavora con gli altri, ma non cresce con gli altri.


3. Perché oggi la comfort zone è un problema più serio di ieri

Qualcuno potrebbe pensare: “Ma è sempre stato così, anche 30 anni fa c’erano le persone abitudinarie”.

Sì, ma il contesto è radicalmente cambiato.

3.1 I cicli di cambiamento sono più veloci

Un tempo, un mestiere potevi farlo allo stesso modo per 20 anni.
Oggi, in 5 anni:

  • cambiano piattaforme;

  • cambiano strumenti di comunicazione;

  • cambiano strategie di marketing;

  • cambiano persino i modelli di leadership.

Ciò che ieri era “una sana stabilità” oggi rischia di diventare blocco di carriera.


3.2 La competizione è globale, non più solo locale

Molte aziende non competono più solo col vicino di città, ma con realtà di altri Paesi, con team distribuiti, con freelance ultra specializzati.

Questo significa che:

  • la persona che “non ha voglia di imparare cose nuove” viene facilmente sostituita;

  • il dipendente che si irrigidisce nel suo ruolo diventa un costo, non un valore;

  • chi non è disposto ad ampliare la propria zona di competenza perde opportunità.


3.3 Il lavoro richiede sempre più “soft skill dinamiche”

Non basta più saper fare bene una mansione tecnica. Oggi contano:

  • capacità di adattamento;

  • gestione dell’incertezza;

  • comunicazione efficace in contesti nuovi;

  • flessibilità nel cambiare ruolo, mansioni, approccio.

La comfort zone è l’esatto contrario di tutto questo.


4. Il lato nascosto: quando la comfort zone diventa auto-sabotaggio

Molte persone non si accorgono di sabotarsi da sole.
Non dicono: “Non voglio crescere”.
Dicono:

  • “Non è il momento giusto”

  • “Quando avrò più tempo”

  • “Non sono portato per queste cose”

  • “Alla mia età è tardi per cambiare”

  • “Mi va bene così, non voglio complicarmi la vita”

Sono frasi rassicuranti, ma hanno un effetto che raramente ammettiamo:

trasformano la paura in razionalità.

Non dico più “Ho paura di espormi”, ma “Non è necessario espormi”.
Non dico “Ho paura di imparare qualcosa di nuovo”, ma “Non fa per me”.

È un modo elegante e auto-ingannevole per restare immobili.


5. Uscire dalla comfort zone senza distruggersi: la zona di “sfida sostenibile”

Attenzione: nessuno sta dicendo che dobbiamo vivere in uno stress continuo, buttandoci nel vuoto ogni giorno.

Tra comfort zone e panico esiste una zona intermedia: la zona di sfida sostenibile.

È quello spazio in cui:

  • non ti senti al sicuro al 100%, ma neanche completamente travolto;

  • fai cose nuove, ma in modo graduale;

  • ti esponi, ma con un margine di protezione.

Per costruirla, servono azioni piccole ma costanti.


6. Esercizi pratici (da applicare davvero al lavoro)

6.1 Una micro-azione “scomoda” al giorno

Scegli ogni giorno un gesto minimo che ti sposti di pochi centimetri fuori dalla comfort zone:

  • fare una domanda in riunione;

  • chiedere feedback sincero al tuo responsabile o a un collega;

  • proporre un’idea anche se non è perfetta;

  • offrire il tuo aiuto su un progetto diverso dal tuo solito.

Non stai rivoluzionando la tua vita, ma alleni il tuo sistema nervoso all’idea che “fare qualcosa di nuovo non è per forza pericoloso”.


6.2 Impara una competenza extra rispetto al tuo ruolo

Chiediti: “Quale competenza, se la sviluppassi nei prossimi 12 mesi, renderebbe il mio lavoro più interessante e il mio profilo più forte?”

Può essere:

  • parlare in pubblico;

  • scrivere meglio (report, email, presentazioni);

  • usare uno strumento digitale nuovo;

  • capire i numeri (KPI, dati, analisi);

  • gestire un piccolo team o un progetto.

L’obiettivo non è diventare esperto in tutto, ma smontare l’idea di essere limitato a un’unica dimensione.


6.3 Cambia cornice mentale: da “rischio” a “allenamento”

Ogni volta che senti resistenza, prova a cambiare domanda interna:

  • invece di: “E se sbaglio?”
    “Cosa imparo, anche se sbaglio?”

  • invece di: “E se faccio una brutta figura?”
    “Che tipo di coraggio sto allenando adesso?”

  • invece di: “Non sono capace”
    “Sto imparando, quindi è normale non essere fluido”

Il problema non è il disagio, ma il significato che gli dai.
Se lo interpreti come minaccia, ti chiudi.
Se lo interpreti come allenamento, cresci.


6.4 Chiedi di partecipare a qualcosa che non ti sceglierebbero “in automatico”

Nel lavoro siamo spesso incasellati. “Tu sei quello tecnico”, “Tu sei quello creativo”, “Tu sei quello organizzativo”.

Prova a rompere l’etichetta:

  • chiedi di poter seguire un cliente;

  • chiedi di partecipare a una riunione strategica;

  • proponiti per presentare una parte di un progetto;

  • chiedi di affiancare un collega in un’area nuova.

Non devi essere già “bravo” in quella cosa.
Devi far capire – prima di tutto a te stesso – che non sei definito solo da ciò che già fai bene.


7. Per le aziende e i leader: se incentivi solo la comfort zone, stai costruendo fragilità

C’è anche un livello organizzativo.
Molte aziende, senza accorgersene, alimentano la comfort zone:

  • premiano chi non sbaglia mai, invece di chi sperimenta;

  • puniscono ogni errore, generando paura;

  • non formano, non accompagnano, non danno spazi di test;

  • mantengono le persone sempre nello stesso ruolo per anni “perché funzionano”.

Risultato:

  • team rigidi;

  • innovazione inesistente o finta;

  • persone che stanno “bene” solo finché nulla cambia.

Il vero compito di una leadership matura oggi non è “proteggere tutti da ogni cambiamento”, ma creare condizioni per uscire dalla comfort zone in modo guidato e umano.


8. La domanda finale (scomoda ma necessaria)

Se sei arrivato fin qui, ti lascio con una domanda semplice e diretta:

In quale area della tua vita lavorativa stai fingendo che la tua comfort zone sia sicurezza,
quando in realtà è una gabbia che ti sta rimpicciolendo?

Non serve una rivoluzione domani mattina.
Serve il primo passo consapevole.

Uno solo. Ma fuori.



Roberto Fico ce l’ha fatta.



1. Che cosa è successo: lo scenario generale

Alle regionali del 23–24 novembre 2025 si è votato in Campania, Puglia e Veneto.
Il quadro uscito dalle urne è questo:

  • Campania – Vittoria del centrosinistra (coalizione “campo largo”) con Roberto Fico nuovo presidente regionale, intorno al 59–60% dei voti; il candidato del centrodestra Edmondo Cirielli si ferma intorno al 35–36%. Affluenza in calo intorno al 44%. (Fanpage)

  • Puglia – Anche qui vince il centrosinistra con Antonio Decaro, che supera di molto il 60% (circa il 69%), mentre la candidata del centrodestra si ferma sotto il 30%. (ANSA.it)

  • Veneto – La regione resta al centrodestra: vince Alberto Stefani attorno al 60%, mentre il candidato di centrosinistra Arturo Manildo si colloca poco sopra il 30%. (RaiNews)

Nel complesso, su questo turno di regionali il centrosinistra porta a casa Campania e Puglia, il centrodestra si conferma in Veneto. A livello nazionale, considerando anche le altre regionali dell’anno (Calabria, Marche e Toscana), il bilancio complessivo è di fatto in equilibrio tra le due coalizioni: tre regioni a testa (o 4–3 per il centrodestra se si considera la Val d’Aosta come caso a parte). (ANSA.it)



  • “Campania al centrosinistra: cosa significa la vittoria di Fico (e il 2–1 di questo turno di regionali)”

  • oppure: “Dal Sud il segnale al Paese: Campania e Puglia al centrosinistra, Veneto al centrodestra”

Attacco (introduzione)

Nell’intro puoi:

  • Contestualizzare: “weekend di voto in Campania, Puglia e Veneto”.

  • Dire subito il risultato politico: centrosinistra vince al Sud (Campania e Puglia), centrodestra tiene il Veneto. (Corriere della Sera)

  • Accennare al tema affluenza in calo e al “test nazionale” per il governo.


Paragrafo 1 – La vittoria in Campania

Elementi da toccare:

  • I protagonisti: Roberto Fico per il campo largo di centrosinistra (M5S, PD e altre liste) vs Edmondo Cirielli per il centrodestra. (Wikipedia)

  • Il risultato: Fico oltre il 59–60%, Cirielli intorno al 35–36%, distacco netto. (Fanpage)

  • Affluenza: poco più del 44%, in calo di vari punti rispetto al 2020. (Wikipedia)

  • Cambio di fase: Fico succede a Vincenzo De Luca (centrosinistra), che non poteva ricandidarsi per il limite dei mandati; puoi sottolineare passaggio di testimone dentro lo stesso campo politico. (Wikipedia)

  • Le prime dichiarazioni: Fico parla di “giunta di persone competenti” e di un cambio di stile nei toni politici; Cirielli riconosce la sconfitta e fa gli auguri. (Fanpage)

Nel tuo testo puoi trasformare questi punti in un racconto: “chi è Fico”, com’è costruita la coalizione, che tipo di messaggio ha premiato gli elettori campani.


Paragrafo 2 – Puglia, l’altra grande vittoria del centrosinistra

Qui puoi:

  • Presentare Antonio Decaro, ex sindaco di Bari, figura molto radicata sul territorio.

  • Riportare i dati indicativi: Decaro intorno al 69%, la candidata di centrodestra sotto il 30%: vittoria larghissima. (ANSA.it)

  • Parlare della continuità con la stagione di Michele Emiliano, altro presidente di centrosinistra. (Il Fatto Quotidiano)

  • Evidenziare il “modello Puglia”: amministrazione locale forte, rete di sindaci, peso delle liste civiche.


Paragrafo 3 – Il Veneto che resta al centrodestra

Per completare il quadro:

  • Presentare Alberto Stefani, candidato del centrodestra, e il fatto che conquista la regione con circa il 60% dei voti. (RaiNews)

  • Sottolineare la continuità con il lungo ciclo di governo di Luca Zaia, sempre area centrodestra. (RaiNews)

  • Accennare al dato politico: il centrosinistra, pur vincendo al Sud, non sfonda nel Nord storico roccaforte del centrodestra.


Paragrafo 4 – Lettura politica nazionale

In un paragrafo di analisi puoi:

  • Ricordare che, considerando le regionali 2025 nel complesso, il bilancio tra centrodestra e centrosinistra è sostanzialmente in equilibrio. (ANSA.it)

  • Mettere in evidenza il “fattore Sud”: il centrosinistra governa Campania, Puglia e Toscana, mentre il centrodestra mantiene aree chiave come Veneto, Marche, Calabria. (ANSA.it)

  • Citare le reazioni dei leader nazionali: per esempio, le dichiarazioni di Elly Schlein e Giuseppe Conte che leggono le vittorie del Sud come segnale per il governo, e quelle del centrodestra che sottolineano la tenuta nelle proprie roccaforti. (Corriere Napoli)


Paragrafo 5 – Conclusione: domande aperte

Nella chiusura puoi:

  • Porre domande sul futuro:

    • Che tipo di rapporto ci sarà tra i nuovi presidenti e il governo centrale?

    • Il centrosinistra riuscirà a trasformare il “fattore Sud” in un progetto nazionale?

    • Come reagirà il centrodestra dopo aver perso due regioni ma conservato il Nord?

  • Collegare questo voto ai grandi temi: sanità, fondi europei, lavoro giovanile, PNRR.


Se vuoi, in un secondo passo posso aiutarti a riscrivere una tua bozza, rendendola più scorrevole e coerente, rimanendo sempre entro un registro informativo e non propagandistico.

domenica 23 novembre 2025

“Dalle catene nei campi alle cure sotto chiave negli ospedali: cambia la scena, ma la stessa economia continua a decidere chi merita libertà e chi può guarire.”

 Una delle menzogne più potenti della storia non è solo quella che viene raccontata… ma quella che viene taciuta.

Schiavitù, malattie, accesso alle cure: cambiano le forme, restano le logiche di fondo. In questo articolo ti propongo un’analisi “scomoda” ma lucida: niente complotti magici, solo il modo in cui potere, denaro e narrazioni ufficiali si intrecciano.


1. La grande bugia: “il progresso è per tutti”

La promessa dominante dell’ultimo secolo è chiara:

“La scienza avanza, il capitalismo innova, e alla fine il benessere arriverà per tutti.”

Ma la realtà è molto più selettiva.

  • La schiavitù è stata raccontata per decenni come un capitolo chiuso, mentre molte economie occidentali si sono costruite proprio su quel crimine di massa: dal cotone americano alle rotte atlantiche, buona parte della ricchezza accumulata in Europa e negli USA passa da lì. (National Geographic)

  • Oggi una parte della popolazione mondiale viene esclusa dall’accesso alle cure essenziali non perché i farmaci non esistano… ma perché costano troppo, sono protetti da brevetti o non conviene produrli per i poveri. (IJHPM)

La grande bugia è questa: non siamo davanti a una mancanza di mezzi, ma a una scelta di priorità.


2. Dalla schiavitù “di piantagione” alla schiavitù “di sistema”

Storicamente, la schiavitù atlantica non è stata un incidente laterale, ma un motore del capitalismo globale: milioni di persone deportate dall’Africa alle Americhe, forza lavoro gratuita o quasi, profitti enormi per piantatori, mercanti, assicurazioni, banche. (Wikipedia)

Qual è la bugia qui?

  • La bugia morale: si è cercato per secoli di giustificare l’ingiustificabile – con teorie razziste, religiose, pseudoscientifiche.

  • La bugia storica: nella narrazione comune, si parla più degli “eroi abolizionisti” che dei secoli di sfruttamento che hanno reso possibili intere fortune familiari, infrastrutture, città, istituzioni culturali. (The Guardian)

Oggi quella forma brutale di schiavitù è illegale, ma restano:

  • Lavoro minorile e semi-schiavile nelle filiere globali.

  • Debiti a vita.

  • Contratti precari che legano le persone a condizioni vicine alla sopravvivenza.

Non è più la catena di ferro, è la catena economica.


3. La nuova frontiera del controllo: la salute

Qui arriviamo al tema più delicato: “la chiusura delle cure”.

3.1. Cura come bene comune vs cura come prodotto di lusso

In teoria, la salute è un diritto umano.
In pratica, viene spesso gestita come una linea di business.

Tre fatti difficili da ignorare:

  • Il sistema dei brevetti farmaceutici (TRIPS, WTO) concede a chi detiene il brevetto un monopolio temporaneo, permettendo prezzi molto alti anche su farmaci sviluppati grazie a ingenti fondi pubblici e universitari. (UNDP)

  • Più volte nella storia recente l’accesso a medicine salvavita è stato limitato dai prezzi: basti pensare agli antiretrovirali per l’HIV, al costo di molti farmaci oncologici, ai nuovi farmaci per l’epatite C. (Ciao)

  • Durante la pandemia da Covid-19, il tema dei brevetti sui vaccini e dell’accesso equo tra Nord e Sud del mondo ha mostrato chiaramente come, nei momenti critici, gli interessi economici e geopolitici abbiano spesso avuto la precedenza sull’idea di “bene pubblico globale”. (Council on Foreign Relations)

3.2. La bugia moderna: “Si fa il possibile”

La narrativa ufficiale suona più o meno così:

“Fare di meglio è impossibile, i costi di ricerca sono altissimi, i brevetti sono indispensabili, è il prezzo del progresso.”

La realtà è molto più sfumata:

  • Molte ricerche mediche sono co-finanziate da fondi pubblici, università, enti no profit. (UNDP)

  • In diversi casi, quando si è aperto il mercato ai generici o si sono usate le flessibilità del TRIPS (licenze obbligatorie), i prezzi di farmaci cruciali sono crollati di decine di volte, pur restando economicamente sostenibili per i produttori. (PMC)

Non significa che “esistono cure nascoste per tutte le malattie e qualcuno le tiene chiuse in cassaforte”.
Questa è una semplificazione complottista.

Ma significa che il modo in cui regoliamo brevetti, prezzi e accesso è una scelta politica ed economica, non una legge di natura.


4. Schiavitù ieri, disuguaglianze sanitarie oggi: stesso copione

Se guardiamo oltre i dettagli, il copione è simile:

  1. Creare dipendenza

    • Ieri: persone ridotte a proprietà, senza via d’uscita.

    • Oggi: Paesi interi dipendenti da pochi fornitori di farmaci, tecnologie, know-how.

  2. Controllare la narrazione

    • Ieri: la schiavitù presentata come “necessaria per l’economia”, “voluta da Dio”, “naturale”.

    • Oggi: prezzi esorbitanti presentati come inevitabili, brevettazione estrema come unica via all’innovazione, chi critica viene etichettato come “naif” o “nemico del progresso”.

  3. Spacchettare la responsabilità

    • Nessuno è mai “colpevole da solo”: è il mercato, sono le regole, è il sistema.

    • Il risultato è che l’ingiustizia appare neutrale, quasi tecnica.


5. Dove finisce l’analisi e dove inizia la teoria del complotto?

Qui è importante essere onesti.

  • Fatto: esistono interessi economici giganteschi legati alla salute e alle malattie. Non è un segreto, è il funzionamento del mercato globale. (IJHPM)

  • Fatto: le regole brevettuali e commerciali possono limitare fortemente l’accesso alle cure in Paesi poveri, anche quando i farmaci sono tecnicamente disponibili. (wto.org)

  • Fatto: ci sono casi documentati in cui aziende hanno difeso prezzi o monopoli anche di fronte a emergenze umanitarie, venendo fermate solo da pressioni internazionali, ONG e opinione pubblica. (web.peacelink.it)

Ma:

  • Non abbiamo prove serie che esistano cure complete e definitive per tutte le grandi malattie già pronte e “nascoste” deliberatamente al mondo.

  • Quello che abbiamo è un sistema che sceglie costantemente chi può accedere prima, meglio e a che prezzo.

La bugia non è una cospirazione cinematografica.
La bugia è una normalità costruita, una rassegnazione presentata come inevitabile.


6. Svelare la bugia: cosa possiamo fare davvero

Smontare queste narrazioni non significa solo indignarsi: significa agire su più livelli.

6.1. A livello di consapevolezza

  • Raccontare il legame tra storia della ricchezza occidentale e schiavitù, senza edulcorare.

  • Parlare dell’accesso alle cure come tema di giustizia globale, non solo di tecnologia medica.

6.2. A livello politico e normativo

  • Sostenere campagne per l’uso delle flessibilità TRIPS (licenze obbligatorie, eccezioni in caso di emergenza sanitaria). (PMC)

  • Appoggiare modelli di ricerca pubblica e open source per alcuni farmaci strategici.

  • Chiedere trasparenza su finanziamenti pubblici alla ricerca e su come ciò influisce sui prezzi finali.

6.3. A livello culturale

  • Uscire dalla logica “se costa tanto, vale tanto”: nella salute, questa mentalità è letale.

  • Rimettere al centro un principio semplice: il sapere che salva la vita non può essere trattato come un qualsiasi lusso di mercato.


7. Conclusione: la vera rivoluzione è smettere di credere che “non ci sia alternativa”

Schiavitù e chiusura delle cure non sono incidenti di percorso: sono prodotti di un certo modo di organizzare il mondo, le economie, le gerarchie di valore.

La grande bugia è questa voce che ripete:

“È brutto, ma è necessario. È ingiusto, ma non si può fare altrimenti.”

La verità scomoda è che si potrebbe fare altrimenti, ma cambierebbero equilibri di potere e flussi di capitali.
E questo – ieri con la schiavitù, oggi con la salute – è sempre il punto dove il sistema resiste di più.




**“Il nostro vero problema, da italiani, non è il talento che abbiamo, ma una programmazione di Stato che resta ferma in stazione mentre il resto del mondo è già sul treno del futuro.”**

Ti propongo un vero “spazio fisso” di analisi sul blog: un articolo–manifesto da cui far partire una serie di pezzi sulla programmazione dello Stato (italiano) e sul perché sembra arrancare rispetto ad altri Paesi.


Titolo proposto

“Programmazione di Stato: perché l’Italia è rimasta indietro (e come può recuperare)”


Introduzione: un Paese “reattivo”, mai davvero “proattivo”

L’Italia non è un Paese fermo: spende molto, legifera continuamente, annuncia piani, riforme, strategie. Eppure la sensazione diffusa – nei cittadini, nelle imprese e persino negli osservatori internazionali – è che la programmazione di lungo periodo non tenga il passo di quella di altri Stati.

Lo vediamo nella transizione digitale, nella capacità di fare ricerca, nell’uso dell’intelligenza artificiale, nella gestione di scuola, sanità, infrastrutture. Non è tanto un problema di singoli governi, ma di cultura della programmazione: cicli politici brevi, orizzonte corto, progetti spezzettati, poca valutazione dei risultati.

In questo articolo apro uno spazio dedicato proprio a questo: capire come programma lo Stato italiano, in che cosa è rimasto a terra e cosa possiamo imparare da chi oggi corre più veloce.


1. Digitale: quando il futuro arriva e noi siamo ancora in coda

Partiamo dal digitale, perché è il terreno dove il ritardo si vede meglio.

  • Nei rapporti europei sulla digitalizzazione, per anni l’Italia è stata nella parte bassa della classifica UE, soprattutto sul fronte delle competenze digitali dei cittadini e dell’uso avanzato del digitale da parte della PA.(Astrid)

  • Nel Digital Decade Report 2024 la Commissione rileva che i servizi pubblici digitali italiani per i cittadini restano sotto la media UE (68,3 contro 79,4), così come quelli per le imprese (76,3 contro 85,4).(img.corrierecomunicazioni.it)

  • Secondo ISTAT, nel 2024 solo l’8% delle imprese italiane utilizza l’intelligenza artificiale, contro il 20% della Germania, e appena il 45,8% della popolazione adulta possiede competenze digitali di base (media UE: 55,5%; obiettivo UE 2030: 80%).(Reuters)

Qui il punto non è solo “usiamo poco l’AI”, ma come siamo arrivati fin qui:

  • incentivi a pioggia e bandi difficili da interpretare,

  • progetti nazionali che cambiano nome e struttura a ogni governo,

  • scarso coordinamento tra livelli di governo (Stato–Regioni–Comuni).

Altri Paesi hanno fatto il contrario: pochi piani, molto chiari, stabili nel tempo, forti investimenti in competenze digitali a partire dalla scuola, e una narrativa pubblica che fa della trasformazione digitale un obiettivo condiviso, non una moda del momento.


2. Ricerca, innovazione, cervelli: la programmazione che spinge a partire

La programmazione di uno Stato si misura anche da quanto investe sul futuro, non solo su stipendi, pensioni e spesa corrente.

  • In Italia, l’intensità di ricerca (spesa in R&S sul PIL) si è attestata intorno all’1,5%, a fronte di una media UE che supera il 2,2%.(European Commission)

  • Questo gap si traduce in meno brevetti, minore innovazione e, soprattutto, meno opportunità di lavoro qualificato per i giovani.

Non stupisce che, secondo ISTAT, migliaia di laureati giovani continuino a lasciare il Paese ogni anno: solo nel 2023 sono emigrati circa 21.000 laureati tra i 25 e i 34 anni, con una perdita netta di quasi 100.000 giovani professionisti in un decennio.(Reuters)

Qui la programmazione dello Stato mostra tre limiti strutturali:

  1. Visione corta
    I fondi per ricerca e innovazione spesso dipendono da finestre temporali (fondi europei, PNRR, progetti straordinari) senza una traiettoria decennale chiara.

  2. Frammentazione estrema
    Bandi con criteri diversi, scadenze non coordinate, regole che cambiano in corsa. Per un giovane ricercatore o per una PMI innovativa, partecipare diventa un lavoro a tempo pieno.

  3. Assenza di un “patto generazionale”
    Altri Paesi legano le politiche di ricerca a una visione: tenere i talenti, attrarne di nuovi, creare ecosistemi (università–impresa–startup). In Italia, la percezione diffusa è che lo Stato arrivi in ritardo e con strumenti spesso poco adatti alla realtà di chi fa innovazione.


3. Scuola e competenze: se programmi male l’educazione, programmi male il futuro

Le scelte sulla scuola sono forse l’ambito di programmazione più delicato.

I dati PISA 2022 ci dicono che gli studenti italiani:

  • vanno vicino alla media OCSE in matematica,

  • risultano sopra la media in lettura,

  • ma sotto la media in scienze.(GPS dell'Educazione OECD)

La fotografia non è drammatica, ma il problema è altrove:

  • riforme scolastiche continue, poco coordinate, raramente accompagnate da seri investimenti sull’aggiornamento dei docenti;

  • tempi lunghi tra l’annuncio e la reale implementazione delle riforme;

  • collegamento spesso debole tra scuola, università e mondo del lavoro.

In sintesi: programmiamo la scuola per l’oggi, non per il mondo che arriva.

Nel frattempo, Paesi come Finlandia, Estonia, Singapore – ma anche alcune realtà europee più vicine a noi – lavorano su curricoli che integrano:

  • pensiero critico,

  • competenze digitali e scientifiche avanzate,

  • educazione civica e alla cittadinanza digitale,

  • orientamento già nei primi anni delle superiori.

Il risultato è che chi cresce lì entra in un mondo del lavoro preparato alla complessità. Chi cresce qui spesso è costretto ad aggiornarsi da solo, a proprie spese, dopo il percorso di studi.


4. Stato che spende tanto, ma programma come?

Un paradosso: l’Italia non è uno Stato che spende poco.
Secondo i dati OCSE, nel 2023 la spesa pubblica italiana ha toccato il 54% del PIL, ben oltre la media OCSE del 42,6%.(OECD)

Il problema quindi non è solo “quanti soldi”, ma come questi soldi vengono programmati e allocati:

  • molte risorse asservite a spesa corrente,

  • margini stretti per gli investimenti di lungo periodo,

  • progetti pluriennali che cambiano forma e priorità a ogni manovra,

  • poca trasparenza e monitoraggio dei risultati.

Anche sul fronte della finanza pubblica, i recenti miglioramenti nel deficit – con un calo dal 7,2% del PIL nel 2023 al 3,4% nel 2024 – sono stati letti da diversi analisti come successi più contabili che strutturali, legati soprattutto ai fondi europei post-pandemia e non a una reale modernizzazione del Paese.(Reuters)

Questo è il cuore del problema: programmazione statale spesso orientata alle scadenze europee, ai vincoli di bilancio, alla gestione dell’emergenza, più che alla costruzione paziente di un modello di sviluppo.


5. Perché altri Stati corrono (e noi inciampiamo)

Quando confrontiamo l’Italia con altri Paesi, vediamo alcuni elementi ricorrenti che altrove funzionano meglio:

  1. Stabilità degli obiettivi

    • Pochi target, chiari, condivisi a livello politico e sociale.

    • Maggiore continuità tra governi su alcuni dossier strategici (digitale, scuola, energia).

  2. Politiche basate sui dati

    • Monitoraggio sistematico dei risultati.

    • Correzione delle politiche in base a evidenze, e non solo a slogan o equilibri di maggioranza.

  3. Semplificazione vera

    • Meno livelli decisionali, meno burocrazia, timeline chiare per autorizzazioni e bandi.

    • PA digitali non solo come vetrina, ma come infrastruttura logica che rende più facile agire.

  4. Centralità delle competenze

    • Investimenti massicci in formazione continua (non solo scuola e università, ma anche adulti).

    • Incentivi a trattenere e attrarre talenti, invece che costringerli all’export forzato.

L’Italia, al contrario, appare spesso brava nei documenti programmatici, nelle linee guida, nei piani nazionali, ma molto meno nella traduzione operativa.


6. Uno spazio fisso nel blog: “Laboratorio di Programmazione Pubblica”

Per trasformare questo articolo in un vero punto di partenza, puoi aprire sul blog una rubrica dedicata, ad esempio:

Rubrica: Laboratorio di Programmazione Pubblica

In questo spazio puoi:

  • Scomporre i grandi piani dello Stato (PNRR, piani digitali, riforme scuola, sanità, ecc.) in articoli chiari e leggibili.

  • Mettere a confronto l’Italia con altri Paesi su singoli temi:

    • competenze digitali,

    • ricerca e università,

    • politiche giovanili,

    • gestione delle città e dei territori.

  • Raccontare storie concrete:

    • un ricercatore che parte,

    • un imprenditore che rinuncia a un bando,

    • un docente che prova a innovare nella scuola.

Ogni articolo può seguire uno schema fisso:

  1. Il tema (es. “AI nelle imprese italiane”).

  2. Cosa dicono i dati.

  3. Cosa fanno gli altri Paesi.

  4. Dove si inceppa la programmazione dello Stato.

  5. Tre leve realistiche di cambiamento.


7. Conclusione: dallo Stato che insegue allo Stato che prepara

Dire che “la programmazione dello Stato è rimasta a terra” non significa rassegnarsi a un’Italia irrimediabilmente in ritardo. Vuol dire, al contrario, riconoscere che:

  • senza una cultura della programmazione di lungo periodo, nessuna riforma regge;

  • senza dati, trasparenza e valutazione, la politica resta ostaggio dell’annuncio;

  • senza investimenti seri in competenze, ricerca e innovazione, il Paese si consuma nel mantenere l’esistente.

Questo spazio sul blog può diventare un piccolo osservatorio indipendente: non per demolire tutto, ma per analizzare, confrontare, spiegare – e ricordare che la vera modernità non è avere l’ultima app sul telefono, ma uno Stato che programmi davvero il futuro dei suoi cittadini.




A Poggiomarino, tra case popolari consumate e terreni invisibili, lo sfratto non è solo un atto burocratico: è una ferita aperta nel diritto di esistere dignitosamente.

 Poggiomarino

Ti faccio un quadro generale, poi se vuoi andiamo a stringere su un taglio più “narrativo” o politico.


1. Cosa sta succedendo (e cosa è successo) a Poggiomarino

A Poggiomarino la questione case popolari è esplosa già nel 2021, quando l’opposizione in Consiglio comunale ha interrogato l’amministrazione sul rischio sgombero degli inquilini degli alloggi popolari ERP in via Carlo Alberto Dalla Chiesa, legato all’aggiornamento delle graduatorie di assegnazione.(Obiettivo Notizie)

Il nodo è sempre lo stesso, in tutta la provincia di Napoli:

  • famiglie che vivono da anni in alloggi ERP in situazioni “non perfettamente regolari” (subentri non riconosciuti, occupazioni senza titolo, eredità di fatto dell’alloggio),

  • enti gestori e Comuni che, sotto pressione (Corte dei Conti, Procure, Acer ecc.), iniziano a stringere le maglie: controlli, diffide al rilascio, avvii di procedure di sgombero,

  • sullo sfondo, una emergenza abitativa strutturale: troppi pochi alloggi, pochissima manutenzione, bandi scarsi e lentissimi.(unioneinquilinicampania.it)

La conseguenza: la parola “sfratto” entra nella vita quotidiana di chi, paradossalmente, vive in case nate per garantire un diritto.


2. Sfratto, sgombero, “abusivo”: cosa significa davvero

Nell’edilizia residenziale pubblica (ERP) in Campania, le situazioni tipiche sono:

  • Morosità: chi ha un regolare contratto ma non riesce più a pagare il canone (spesso non altissimo, ma legato a situazioni di lavoro nero, precario, disoccupazione).

  • Occupazione senza titolo: subentri non autorizzati (figli, parenti che restano nell’alloggio dopo la morte dell’assegnatario), o vere e proprie occupazioni di alloggi vuoti.

  • Fine del titolo legittimo: revoca dell’assegnazione per reddito troppo alto, perdita dei requisiti, irregolarità documentali.

Le ultime sentenze in Campania confermano che, nelle occupazioni senza titolo, lo sgombero dell’alloggio ERP rientra in pieno nella giurisdizione del giudice ordinario e può essere portato avanti anche con forza pubblica, se necessario.(EIUS)

Tradotto: chi è dentro senza un titolo riconosciuto rischia davvero di essere buttato fuori, non è solo una “minaccia politica”.


3. Il contesto: provincia di Napoli, case popolari e degrado

Le associazioni inquilini in Campania parlano di:

  • alloggi al limite dell’abitabilità (infiltrazioni, impianti vecchi, barriere architettoniche),

  • assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria,

  • bandi nuovi quasi inesistenti, con liste d’attesa infinite,

  • interi rioni popolari vissuti come “zone a parte”, quasi fuori dalla città.(unioneinquilinicampania.it)

In parallelo, ACER e Comuni rivendicano la necessità di:

  • recuperare alloggi occupati senza titolo,

  • liberare spazi per nuovi interventi di edilizia sociale,

  • rientrare nei canoni di legge sulla gestione del patrimonio pubblico.(acercampania.it)

È un conflitto strutturale: diritto alla casa vs. gestione rigidamente contabile del patrimonio pubblico.


4. “Terreni invisibili”: come leggerla

Il termine “terreni invisibili” non è una categoria giuridica: è più un’immagine, ma secondo me azzeccatissima per descrivere almeno tre livelli:

  1. Terreni esistenti ma fuori dallo sguardo pubblico

    • Lotti agricoli o non edificabili, magari intorno al paese, che restano anni in uno stato di sospensione: né parco, né edilizia sociale, né vera campagna.

    • Terreni all’asta, non venduti, o frammentati in micro-quote, che non diventano mai progetti concreti (case, servizi, verde).(Immobiliare)

  2. Terreni “bloccati” da vincoli, abusi, incertezze catastali

    • aree potenzialmente utili per nuova edilizia sociale, ma con vincoli idrogeologici, archeologici (Poggiomarino ha il sito di Longola, con un’area archeologica importante), di rischio Vesuvio;(longola.it)

    • porzioni di territorio dove regole, condoni, abusi edilizi e interessi diversi si intrecciano, rendendo di fatto impossibile qualsiasi progettualità trasparente.

  3. Terreni invisibili come metafora sociale

    • I “terreni invisibili” sono anche le persone che vivono in case popolari come fossero in una zona grigia:

      • non pienamente legittimate,

      • non pienamente protette,

      • mai davvero rappresentate.

    • Esistono, ma non contano nei processi decisionali: non vengono coinvolte nei piani urbani, nei progetti di rigenerazione, nelle scelte su sgomberi e demolizioni.


5. Il paradosso: case che ci sono, terreni che ci sono… ma mancano le soluzioni

In tutta la provincia di Napoli hai, contemporaneamente:

  • case popolari occupate “irregolarmente” ma abitate da famiglie con redditi bassissimi;

  • alloggi vuoti o non assegnati per anni, per burocrazia o contenziosi;

  • terreni pubblici o para-pubblici che potrebbero essere usati per edilizia sociale, servizi, verde;

  • mercato privato che spinge su affitti brevi, speculazione, trasformazione turistica delle zone appetibili.

Risultato: invece di una politica che aumenta e qualifica l’offerta di casa, si scarica sul singolo inquilino il peso dell’irregolarità:
“Non hai titolo? Fuori.”
Ma spesso quell’irregolarità è il prodotto di decenni di mancate politiche, favoritismi, pratiche clientelari, silenzi.


6. Se vuoi farne un approfondimento (da blogger)

Se ti interessa svilupparlo in chiave editoriale, potresti strutturare così:

  1. Incipt umano

    • Una scena di sfratto o di pre-sfratto: la lettera, il citofono, la paura di dover lasciare l’alloggio popolare “che è casa da sempre”.

  2. Zoom locale: Poggiomarino come caso-studio

    • Rischio sgombero alloggi popolari nel 2021, aggiornamento graduatorie, paura nelle famiglie.(Obiettivo Notizie)

  3. Cornice regionale: Campania, Acer, degrado e assenza di manutenzione

  4. Capitolo “terreni invisibili”

    • Mappe mancate, aree a vocazione abitativa mai sviluppate, terreni all’asta che non diventano progetti.

    • La metafora: persone come “terreni invisibili” nel discorso pubblico.

  5. Domande aperte, non solo denuncia

    • Che cosa significherebbe una vera politica della casa?

    • Cosa potrebbero fare Comuni, Regione, Acer se davvero scegliessero di vedere questi “terreni invisibili” e queste persone invisibili?



venerdì 21 novembre 2025

Essere uomini di una volta oggi significa camminare disarmati in un mondo armato di indifferenza, scegliendo comunque di guardare negli occhi chiunque ci passa accanto.

 

Essere “uomini di una volta” in un mondo che non sa più guardare negli occhi

Viviamo in una società che ti dice che puoi avere tutto: successo, riconoscimento, oggetti, distrazioni infinite.
Ma c’è una cosa che sembra non rientrare più nel “pacchetto”: il rispetto per chi abbiamo di fronte, soprattutto quando quella persona non è considerata “importante” dal punto di vista sociale.

E in mezzo a questo scenario, chi cerca ancora di vivere con valori “di una volta” – rispetto, parola data, empatia, onestà – spesso si sente fuori posto, quasi sbagliato.
Eppure, è proprio qui che inizia la vera forza.


1. L’uomo che non urla più forte, ma sente di più

Oggi sembra che venga ascoltato solo chi urla, chi ostenta, chi si impone.
Se non sei aggressivo, se non sgomiti, sembra che tu venga automaticamente messo ai margini.

L’“uomo di una volta”, invece, è quello che:

  • non ha bisogno di umiliare qualcuno per sentirsi più grande;

  • non misura il suo valore in base ai numeri, ma in base alla coerenza;

  • non cerca lo scontro, ma il dialogo, anche quando costa fatica.

Questo modo di essere oggi viene frainteso come debolezza. Ma è esattamente il contrario: ci vuole molto più coraggio a rimanere gentili in un mondo che ti spinge a indurirti.


2. L’illusione di avere tutto: la grande bugia contemporanea

La società di oggi ci bombarda con un messaggio semplice e tossico:
“Puoi avere tutto. E se non ce la fai, è colpa tua”.

Così inseguendo il tutto, perdiamo il vero:

  • rincorriamo oggetti, e smettiamo di vedere le persone;

  • collezioniamo esperienze, ma non ci fermiamo abbastanza per viverle davvero;

  • riempiamo la vita di cose, ma lasciamo vuoti i rapporti.

L’illusione non è solo quella di “avere tutto nella vita”, ma quella ancora più sottile di bastare a se stessi, senza aver bisogno dell’altro.
È una bugia comoda, ma ci rende soli, cinici, sospettosi.


3. Dare importanza a chi abbiamo di fronte: una rivoluzione silenziosa

In un mondo che valuta gli esseri umani a seconda di:

  • quanto guadagnano

  • quanto appaiono

  • cosa possiedono

scegliere di dare importanza a qualcuno che non viene valutato, che non ha titoli, potere o visibilità… è un atto rivoluzionario.

Significa affermare una verità scomoda:

“Tu sei importante non per quello che hai, ma per quello che sei.”

Dare importanza a chi abbiamo di fronte vuol dire:

  • ascoltare davvero, non solo aspettare il nostro turno per parlare;

  • riconoscere la fatica degli altri, anche se non è spettacolare;

  • avere rispetto per il cammino di chi incrocia il nostro, anche solo per un attimo.

È facile essere gentili con chi ammiriamo.
La vera prova comincia quando davanti a noi c’è qualcuno che il mondo considera “nessuno”.


4. Essere non valutati, ma restare dignitosi

Una delle esperienze più dolorose è sentirsi invisibili.
Essere presi per scontati. Fare il proprio dovere, dare il massimo, e non ricevere né riconoscimento né rispetto.

Qui succede qualcosa di delicato dentro di noi: abbiamo una scelta.

  • O diventiamo come il mondo che ci ha ferito: cinici, arrabbiati, pronti a restituire la stessa indifferenza.

  • Oppure decidiamo di non farci modellare dal peggio che vediamo.

Essere “uomini di una volta” non significa vivere nel passato, ma proteggere una certa idea di dignità interiore:

  • continuare a salutare anche chi non risponde;

  • continuare a essere onesti anche se la scorciatoia sarebbe più conveniente;

  • continuare a rispettare gli altri, anche quando non veniamo rispettati.

Non è masochismo. È una scelta identitaria:

“Io non divento come ciò che mi ferisce.”


5. Orgogliosi di accettare il prossimo

“Accettare il prossimo” oggi viene spesso confuso con una frase da poster motivazionale.
In realtà è uno dei gesti più difficili che esistano.

Accettare il prossimo significa:

  • capire che non tutti hanno la nostra storia, e quindi non possono avere le nostre reazioni;

  • smettere di pretendere perfezione dagli altri, sapendo che nemmeno noi siamo perfetti;

  • riconoscere che anche chi sbaglia è spesso il risultato di ferite, paure, mancanze.

Essere orgogliosi di questo non vuol dire sentirsi moralmente superiori, ma sapere che stiamo scegliendo coscientemente un modo di stare al mondo:

  • un modo che non alimenta l’odio;

  • che non aggiunge altra violenza alla violenza;

  • che non risponde alla superficialità con altra superficialità.

È una forma di orgoglio diversa:
non è quello che gonfia il petto, ma quello che tiene dritta la schiena, anche quando nessuno ti applaude.


6. La fatica di restare buoni (quando nessuno ti vede)

La bontà oggi è spesso spettacolarizzata: gesti buoni, ma solo se fotografabili, condivisibili, esibibili.
La vera bontà, però, accade quasi sempre lontano dai riflettori.

Resta “uomo di una volta” chi:

  • aiuta senza scriverlo sui social;

  • chiede scusa anche se nessuno lo obbliga;

  • tiene la porta aperta – in senso letterale e metaforico – a chi arriva dopo.

Questa fatica è reale, logora, a volte fa pensare: “Ma chi me lo fa fare?”
Eppure, ogni volta che scegliamo di comportarci così, stiamo affermando un principio fondamentale:

L’essere umano conta. Sempre. Anche quando il mondo se ne dimentica.


7. Non adattarsi al peggio: il vero atto di coraggio

L’aggressività sociale di oggi ha un effetto pericoloso:
ti spinge a adattarti, a uniformarti, a diventare “duro” per sopravvivere.

Il rischio è che, per non soffrire, smettiamo di sentire.

Essere “uomini di una volta” in questo clima significa:

  • proteggere la propria sensibilità come un valore, non come un difetto;

  • non vergognarsi di provare empatia, commozione, tenerezza;

  • non lasciarsi trascinare dalla corrente del cinismo.

Non è questione di essere ingenui.
Si può essere lucidi, consapevoli, perfino disincantati…
ma scegliere comunque di non rinunciare al rispetto, alla gentilezza, alla capacità di vedere l’altro come un essere umano e non come un ostacolo.


8. Il principio più vero: l’altro come specchio della nostra umanità

Alla fine, tutto si riduce a una domanda:
Come tratto chi ho davanti?

Non chi mi può essere utile. Non chi mi può aprire una porta.
Proprio chi ho davanti, qui, ora.

Perché in quella relazione minuscola, quotidiana, apparentemente insignificante, si vede chi siamo davvero:

  • come parliamo a chi è stanco;

  • come ci comportiamo con chi non può ricambiarci;

  • come reagiamo di fronte alla fragilità altrui.

Essere “uomini di una volta” oggi significa questo:

  • mettere al centro la persona, non il ruolo;

  • ricordarsi che anche chi non è “valutato” da nessuno ha una storia, un cuore, un valore;

  • capire che ogni sguardo che incontriamo è un’occasione per scegliere che tipo di esseri umani vogliamo essere.


Conclusione: Tenersi stretti i propri valori è un atto di resistenza

In una società aggressiva e piena di illusioni, rimanere fedeli a certi valori non è nostalgia del passato:
è resistenza morale.

Essere orgogliosi di accettare il prossimo, dare importanza a chi ci sta di fronte, restare gentili anche quando non conviene… tutto questo non è debolezza.

È una dichiarazione potente:

“Io scelgo di rimanere umano, anche quando il mondo sembra averlo dimenticato.”

E forse, senza fare rumore,
sono proprio queste persone – gli “uomini di una volta” – a tenere ancora in piedi ciò che di più prezioso abbiamo:
la capacità di riconoscerci negli occhi dell’altro.



Mediaset non è stata solo televisione, ma una leva di potere capace di trasformare la visibilità in fiducia, le aziende in marchi e il lavoro invisibile dietro le quinte in un’influenza che ha segnato un’epoca.

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