domenica 23 novembre 2025

“Dalle catene nei campi alle cure sotto chiave negli ospedali: cambia la scena, ma la stessa economia continua a decidere chi merita libertà e chi può guarire.”

 Una delle menzogne più potenti della storia non è solo quella che viene raccontata… ma quella che viene taciuta.

Schiavitù, malattie, accesso alle cure: cambiano le forme, restano le logiche di fondo. In questo articolo ti propongo un’analisi “scomoda” ma lucida: niente complotti magici, solo il modo in cui potere, denaro e narrazioni ufficiali si intrecciano.


1. La grande bugia: “il progresso è per tutti”

La promessa dominante dell’ultimo secolo è chiara:

“La scienza avanza, il capitalismo innova, e alla fine il benessere arriverà per tutti.”

Ma la realtà è molto più selettiva.

  • La schiavitù è stata raccontata per decenni come un capitolo chiuso, mentre molte economie occidentali si sono costruite proprio su quel crimine di massa: dal cotone americano alle rotte atlantiche, buona parte della ricchezza accumulata in Europa e negli USA passa da lì. (National Geographic)

  • Oggi una parte della popolazione mondiale viene esclusa dall’accesso alle cure essenziali non perché i farmaci non esistano… ma perché costano troppo, sono protetti da brevetti o non conviene produrli per i poveri. (IJHPM)

La grande bugia è questa: non siamo davanti a una mancanza di mezzi, ma a una scelta di priorità.


2. Dalla schiavitù “di piantagione” alla schiavitù “di sistema”

Storicamente, la schiavitù atlantica non è stata un incidente laterale, ma un motore del capitalismo globale: milioni di persone deportate dall’Africa alle Americhe, forza lavoro gratuita o quasi, profitti enormi per piantatori, mercanti, assicurazioni, banche. (Wikipedia)

Qual è la bugia qui?

  • La bugia morale: si è cercato per secoli di giustificare l’ingiustificabile – con teorie razziste, religiose, pseudoscientifiche.

  • La bugia storica: nella narrazione comune, si parla più degli “eroi abolizionisti” che dei secoli di sfruttamento che hanno reso possibili intere fortune familiari, infrastrutture, città, istituzioni culturali. (The Guardian)

Oggi quella forma brutale di schiavitù è illegale, ma restano:

  • Lavoro minorile e semi-schiavile nelle filiere globali.

  • Debiti a vita.

  • Contratti precari che legano le persone a condizioni vicine alla sopravvivenza.

Non è più la catena di ferro, è la catena economica.


3. La nuova frontiera del controllo: la salute

Qui arriviamo al tema più delicato: “la chiusura delle cure”.

3.1. Cura come bene comune vs cura come prodotto di lusso

In teoria, la salute è un diritto umano.
In pratica, viene spesso gestita come una linea di business.

Tre fatti difficili da ignorare:

  • Il sistema dei brevetti farmaceutici (TRIPS, WTO) concede a chi detiene il brevetto un monopolio temporaneo, permettendo prezzi molto alti anche su farmaci sviluppati grazie a ingenti fondi pubblici e universitari. (UNDP)

  • Più volte nella storia recente l’accesso a medicine salvavita è stato limitato dai prezzi: basti pensare agli antiretrovirali per l’HIV, al costo di molti farmaci oncologici, ai nuovi farmaci per l’epatite C. (Ciao)

  • Durante la pandemia da Covid-19, il tema dei brevetti sui vaccini e dell’accesso equo tra Nord e Sud del mondo ha mostrato chiaramente come, nei momenti critici, gli interessi economici e geopolitici abbiano spesso avuto la precedenza sull’idea di “bene pubblico globale”. (Council on Foreign Relations)

3.2. La bugia moderna: “Si fa il possibile”

La narrativa ufficiale suona più o meno così:

“Fare di meglio è impossibile, i costi di ricerca sono altissimi, i brevetti sono indispensabili, è il prezzo del progresso.”

La realtà è molto più sfumata:

  • Molte ricerche mediche sono co-finanziate da fondi pubblici, università, enti no profit. (UNDP)

  • In diversi casi, quando si è aperto il mercato ai generici o si sono usate le flessibilità del TRIPS (licenze obbligatorie), i prezzi di farmaci cruciali sono crollati di decine di volte, pur restando economicamente sostenibili per i produttori. (PMC)

Non significa che “esistono cure nascoste per tutte le malattie e qualcuno le tiene chiuse in cassaforte”.
Questa è una semplificazione complottista.

Ma significa che il modo in cui regoliamo brevetti, prezzi e accesso è una scelta politica ed economica, non una legge di natura.


4. Schiavitù ieri, disuguaglianze sanitarie oggi: stesso copione

Se guardiamo oltre i dettagli, il copione è simile:

  1. Creare dipendenza

    • Ieri: persone ridotte a proprietà, senza via d’uscita.

    • Oggi: Paesi interi dipendenti da pochi fornitori di farmaci, tecnologie, know-how.

  2. Controllare la narrazione

    • Ieri: la schiavitù presentata come “necessaria per l’economia”, “voluta da Dio”, “naturale”.

    • Oggi: prezzi esorbitanti presentati come inevitabili, brevettazione estrema come unica via all’innovazione, chi critica viene etichettato come “naif” o “nemico del progresso”.

  3. Spacchettare la responsabilità

    • Nessuno è mai “colpevole da solo”: è il mercato, sono le regole, è il sistema.

    • Il risultato è che l’ingiustizia appare neutrale, quasi tecnica.


5. Dove finisce l’analisi e dove inizia la teoria del complotto?

Qui è importante essere onesti.

  • Fatto: esistono interessi economici giganteschi legati alla salute e alle malattie. Non è un segreto, è il funzionamento del mercato globale. (IJHPM)

  • Fatto: le regole brevettuali e commerciali possono limitare fortemente l’accesso alle cure in Paesi poveri, anche quando i farmaci sono tecnicamente disponibili. (wto.org)

  • Fatto: ci sono casi documentati in cui aziende hanno difeso prezzi o monopoli anche di fronte a emergenze umanitarie, venendo fermate solo da pressioni internazionali, ONG e opinione pubblica. (web.peacelink.it)

Ma:

  • Non abbiamo prove serie che esistano cure complete e definitive per tutte le grandi malattie già pronte e “nascoste” deliberatamente al mondo.

  • Quello che abbiamo è un sistema che sceglie costantemente chi può accedere prima, meglio e a che prezzo.

La bugia non è una cospirazione cinematografica.
La bugia è una normalità costruita, una rassegnazione presentata come inevitabile.


6. Svelare la bugia: cosa possiamo fare davvero

Smontare queste narrazioni non significa solo indignarsi: significa agire su più livelli.

6.1. A livello di consapevolezza

  • Raccontare il legame tra storia della ricchezza occidentale e schiavitù, senza edulcorare.

  • Parlare dell’accesso alle cure come tema di giustizia globale, non solo di tecnologia medica.

6.2. A livello politico e normativo

  • Sostenere campagne per l’uso delle flessibilità TRIPS (licenze obbligatorie, eccezioni in caso di emergenza sanitaria). (PMC)

  • Appoggiare modelli di ricerca pubblica e open source per alcuni farmaci strategici.

  • Chiedere trasparenza su finanziamenti pubblici alla ricerca e su come ciò influisce sui prezzi finali.

6.3. A livello culturale

  • Uscire dalla logica “se costa tanto, vale tanto”: nella salute, questa mentalità è letale.

  • Rimettere al centro un principio semplice: il sapere che salva la vita non può essere trattato come un qualsiasi lusso di mercato.


7. Conclusione: la vera rivoluzione è smettere di credere che “non ci sia alternativa”

Schiavitù e chiusura delle cure non sono incidenti di percorso: sono prodotti di un certo modo di organizzare il mondo, le economie, le gerarchie di valore.

La grande bugia è questa voce che ripete:

“È brutto, ma è necessario. È ingiusto, ma non si può fare altrimenti.”

La verità scomoda è che si potrebbe fare altrimenti, ma cambierebbero equilibri di potere e flussi di capitali.
E questo – ieri con la schiavitù, oggi con la salute – è sempre il punto dove il sistema resiste di più.




**“Il nostro vero problema, da italiani, non è il talento che abbiamo, ma una programmazione di Stato che resta ferma in stazione mentre il resto del mondo è già sul treno del futuro.”**

Ti propongo un vero “spazio fisso” di analisi sul blog: un articolo–manifesto da cui far partire una serie di pezzi sulla programmazione dello Stato (italiano) e sul perché sembra arrancare rispetto ad altri Paesi.


Titolo proposto

“Programmazione di Stato: perché l’Italia è rimasta indietro (e come può recuperare)”


Introduzione: un Paese “reattivo”, mai davvero “proattivo”

L’Italia non è un Paese fermo: spende molto, legifera continuamente, annuncia piani, riforme, strategie. Eppure la sensazione diffusa – nei cittadini, nelle imprese e persino negli osservatori internazionali – è che la programmazione di lungo periodo non tenga il passo di quella di altri Stati.

Lo vediamo nella transizione digitale, nella capacità di fare ricerca, nell’uso dell’intelligenza artificiale, nella gestione di scuola, sanità, infrastrutture. Non è tanto un problema di singoli governi, ma di cultura della programmazione: cicli politici brevi, orizzonte corto, progetti spezzettati, poca valutazione dei risultati.

In questo articolo apro uno spazio dedicato proprio a questo: capire come programma lo Stato italiano, in che cosa è rimasto a terra e cosa possiamo imparare da chi oggi corre più veloce.


1. Digitale: quando il futuro arriva e noi siamo ancora in coda

Partiamo dal digitale, perché è il terreno dove il ritardo si vede meglio.

  • Nei rapporti europei sulla digitalizzazione, per anni l’Italia è stata nella parte bassa della classifica UE, soprattutto sul fronte delle competenze digitali dei cittadini e dell’uso avanzato del digitale da parte della PA.(Astrid)

  • Nel Digital Decade Report 2024 la Commissione rileva che i servizi pubblici digitali italiani per i cittadini restano sotto la media UE (68,3 contro 79,4), così come quelli per le imprese (76,3 contro 85,4).(img.corrierecomunicazioni.it)

  • Secondo ISTAT, nel 2024 solo l’8% delle imprese italiane utilizza l’intelligenza artificiale, contro il 20% della Germania, e appena il 45,8% della popolazione adulta possiede competenze digitali di base (media UE: 55,5%; obiettivo UE 2030: 80%).(Reuters)

Qui il punto non è solo “usiamo poco l’AI”, ma come siamo arrivati fin qui:

  • incentivi a pioggia e bandi difficili da interpretare,

  • progetti nazionali che cambiano nome e struttura a ogni governo,

  • scarso coordinamento tra livelli di governo (Stato–Regioni–Comuni).

Altri Paesi hanno fatto il contrario: pochi piani, molto chiari, stabili nel tempo, forti investimenti in competenze digitali a partire dalla scuola, e una narrativa pubblica che fa della trasformazione digitale un obiettivo condiviso, non una moda del momento.


2. Ricerca, innovazione, cervelli: la programmazione che spinge a partire

La programmazione di uno Stato si misura anche da quanto investe sul futuro, non solo su stipendi, pensioni e spesa corrente.

  • In Italia, l’intensità di ricerca (spesa in R&S sul PIL) si è attestata intorno all’1,5%, a fronte di una media UE che supera il 2,2%.(European Commission)

  • Questo gap si traduce in meno brevetti, minore innovazione e, soprattutto, meno opportunità di lavoro qualificato per i giovani.

Non stupisce che, secondo ISTAT, migliaia di laureati giovani continuino a lasciare il Paese ogni anno: solo nel 2023 sono emigrati circa 21.000 laureati tra i 25 e i 34 anni, con una perdita netta di quasi 100.000 giovani professionisti in un decennio.(Reuters)

Qui la programmazione dello Stato mostra tre limiti strutturali:

  1. Visione corta
    I fondi per ricerca e innovazione spesso dipendono da finestre temporali (fondi europei, PNRR, progetti straordinari) senza una traiettoria decennale chiara.

  2. Frammentazione estrema
    Bandi con criteri diversi, scadenze non coordinate, regole che cambiano in corsa. Per un giovane ricercatore o per una PMI innovativa, partecipare diventa un lavoro a tempo pieno.

  3. Assenza di un “patto generazionale”
    Altri Paesi legano le politiche di ricerca a una visione: tenere i talenti, attrarne di nuovi, creare ecosistemi (università–impresa–startup). In Italia, la percezione diffusa è che lo Stato arrivi in ritardo e con strumenti spesso poco adatti alla realtà di chi fa innovazione.


3. Scuola e competenze: se programmi male l’educazione, programmi male il futuro

Le scelte sulla scuola sono forse l’ambito di programmazione più delicato.

I dati PISA 2022 ci dicono che gli studenti italiani:

  • vanno vicino alla media OCSE in matematica,

  • risultano sopra la media in lettura,

  • ma sotto la media in scienze.(GPS dell'Educazione OECD)

La fotografia non è drammatica, ma il problema è altrove:

  • riforme scolastiche continue, poco coordinate, raramente accompagnate da seri investimenti sull’aggiornamento dei docenti;

  • tempi lunghi tra l’annuncio e la reale implementazione delle riforme;

  • collegamento spesso debole tra scuola, università e mondo del lavoro.

In sintesi: programmiamo la scuola per l’oggi, non per il mondo che arriva.

Nel frattempo, Paesi come Finlandia, Estonia, Singapore – ma anche alcune realtà europee più vicine a noi – lavorano su curricoli che integrano:

  • pensiero critico,

  • competenze digitali e scientifiche avanzate,

  • educazione civica e alla cittadinanza digitale,

  • orientamento già nei primi anni delle superiori.

Il risultato è che chi cresce lì entra in un mondo del lavoro preparato alla complessità. Chi cresce qui spesso è costretto ad aggiornarsi da solo, a proprie spese, dopo il percorso di studi.


4. Stato che spende tanto, ma programma come?

Un paradosso: l’Italia non è uno Stato che spende poco.
Secondo i dati OCSE, nel 2023 la spesa pubblica italiana ha toccato il 54% del PIL, ben oltre la media OCSE del 42,6%.(OECD)

Il problema quindi non è solo “quanti soldi”, ma come questi soldi vengono programmati e allocati:

  • molte risorse asservite a spesa corrente,

  • margini stretti per gli investimenti di lungo periodo,

  • progetti pluriennali che cambiano forma e priorità a ogni manovra,

  • poca trasparenza e monitoraggio dei risultati.

Anche sul fronte della finanza pubblica, i recenti miglioramenti nel deficit – con un calo dal 7,2% del PIL nel 2023 al 3,4% nel 2024 – sono stati letti da diversi analisti come successi più contabili che strutturali, legati soprattutto ai fondi europei post-pandemia e non a una reale modernizzazione del Paese.(Reuters)

Questo è il cuore del problema: programmazione statale spesso orientata alle scadenze europee, ai vincoli di bilancio, alla gestione dell’emergenza, più che alla costruzione paziente di un modello di sviluppo.


5. Perché altri Stati corrono (e noi inciampiamo)

Quando confrontiamo l’Italia con altri Paesi, vediamo alcuni elementi ricorrenti che altrove funzionano meglio:

  1. Stabilità degli obiettivi

    • Pochi target, chiari, condivisi a livello politico e sociale.

    • Maggiore continuità tra governi su alcuni dossier strategici (digitale, scuola, energia).

  2. Politiche basate sui dati

    • Monitoraggio sistematico dei risultati.

    • Correzione delle politiche in base a evidenze, e non solo a slogan o equilibri di maggioranza.

  3. Semplificazione vera

    • Meno livelli decisionali, meno burocrazia, timeline chiare per autorizzazioni e bandi.

    • PA digitali non solo come vetrina, ma come infrastruttura logica che rende più facile agire.

  4. Centralità delle competenze

    • Investimenti massicci in formazione continua (non solo scuola e università, ma anche adulti).

    • Incentivi a trattenere e attrarre talenti, invece che costringerli all’export forzato.

L’Italia, al contrario, appare spesso brava nei documenti programmatici, nelle linee guida, nei piani nazionali, ma molto meno nella traduzione operativa.


6. Uno spazio fisso nel blog: “Laboratorio di Programmazione Pubblica”

Per trasformare questo articolo in un vero punto di partenza, puoi aprire sul blog una rubrica dedicata, ad esempio:

Rubrica: Laboratorio di Programmazione Pubblica

In questo spazio puoi:

  • Scomporre i grandi piani dello Stato (PNRR, piani digitali, riforme scuola, sanità, ecc.) in articoli chiari e leggibili.

  • Mettere a confronto l’Italia con altri Paesi su singoli temi:

    • competenze digitali,

    • ricerca e università,

    • politiche giovanili,

    • gestione delle città e dei territori.

  • Raccontare storie concrete:

    • un ricercatore che parte,

    • un imprenditore che rinuncia a un bando,

    • un docente che prova a innovare nella scuola.

Ogni articolo può seguire uno schema fisso:

  1. Il tema (es. “AI nelle imprese italiane”).

  2. Cosa dicono i dati.

  3. Cosa fanno gli altri Paesi.

  4. Dove si inceppa la programmazione dello Stato.

  5. Tre leve realistiche di cambiamento.


7. Conclusione: dallo Stato che insegue allo Stato che prepara

Dire che “la programmazione dello Stato è rimasta a terra” non significa rassegnarsi a un’Italia irrimediabilmente in ritardo. Vuol dire, al contrario, riconoscere che:

  • senza una cultura della programmazione di lungo periodo, nessuna riforma regge;

  • senza dati, trasparenza e valutazione, la politica resta ostaggio dell’annuncio;

  • senza investimenti seri in competenze, ricerca e innovazione, il Paese si consuma nel mantenere l’esistente.

Questo spazio sul blog può diventare un piccolo osservatorio indipendente: non per demolire tutto, ma per analizzare, confrontare, spiegare – e ricordare che la vera modernità non è avere l’ultima app sul telefono, ma uno Stato che programmi davvero il futuro dei suoi cittadini.




A Poggiomarino, tra case popolari consumate e terreni invisibili, lo sfratto non è solo un atto burocratico: è una ferita aperta nel diritto di esistere dignitosamente.

 Poggiomarino

Ti faccio un quadro generale, poi se vuoi andiamo a stringere su un taglio più “narrativo” o politico.


1. Cosa sta succedendo (e cosa è successo) a Poggiomarino

A Poggiomarino la questione case popolari è esplosa già nel 2021, quando l’opposizione in Consiglio comunale ha interrogato l’amministrazione sul rischio sgombero degli inquilini degli alloggi popolari ERP in via Carlo Alberto Dalla Chiesa, legato all’aggiornamento delle graduatorie di assegnazione.(Obiettivo Notizie)

Il nodo è sempre lo stesso, in tutta la provincia di Napoli:

  • famiglie che vivono da anni in alloggi ERP in situazioni “non perfettamente regolari” (subentri non riconosciuti, occupazioni senza titolo, eredità di fatto dell’alloggio),

  • enti gestori e Comuni che, sotto pressione (Corte dei Conti, Procure, Acer ecc.), iniziano a stringere le maglie: controlli, diffide al rilascio, avvii di procedure di sgombero,

  • sullo sfondo, una emergenza abitativa strutturale: troppi pochi alloggi, pochissima manutenzione, bandi scarsi e lentissimi.(unioneinquilinicampania.it)

La conseguenza: la parola “sfratto” entra nella vita quotidiana di chi, paradossalmente, vive in case nate per garantire un diritto.


2. Sfratto, sgombero, “abusivo”: cosa significa davvero

Nell’edilizia residenziale pubblica (ERP) in Campania, le situazioni tipiche sono:

  • Morosità: chi ha un regolare contratto ma non riesce più a pagare il canone (spesso non altissimo, ma legato a situazioni di lavoro nero, precario, disoccupazione).

  • Occupazione senza titolo: subentri non autorizzati (figli, parenti che restano nell’alloggio dopo la morte dell’assegnatario), o vere e proprie occupazioni di alloggi vuoti.

  • Fine del titolo legittimo: revoca dell’assegnazione per reddito troppo alto, perdita dei requisiti, irregolarità documentali.

Le ultime sentenze in Campania confermano che, nelle occupazioni senza titolo, lo sgombero dell’alloggio ERP rientra in pieno nella giurisdizione del giudice ordinario e può essere portato avanti anche con forza pubblica, se necessario.(EIUS)

Tradotto: chi è dentro senza un titolo riconosciuto rischia davvero di essere buttato fuori, non è solo una “minaccia politica”.


3. Il contesto: provincia di Napoli, case popolari e degrado

Le associazioni inquilini in Campania parlano di:

  • alloggi al limite dell’abitabilità (infiltrazioni, impianti vecchi, barriere architettoniche),

  • assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria,

  • bandi nuovi quasi inesistenti, con liste d’attesa infinite,

  • interi rioni popolari vissuti come “zone a parte”, quasi fuori dalla città.(unioneinquilinicampania.it)

In parallelo, ACER e Comuni rivendicano la necessità di:

  • recuperare alloggi occupati senza titolo,

  • liberare spazi per nuovi interventi di edilizia sociale,

  • rientrare nei canoni di legge sulla gestione del patrimonio pubblico.(acercampania.it)

È un conflitto strutturale: diritto alla casa vs. gestione rigidamente contabile del patrimonio pubblico.


4. “Terreni invisibili”: come leggerla

Il termine “terreni invisibili” non è una categoria giuridica: è più un’immagine, ma secondo me azzeccatissima per descrivere almeno tre livelli:

  1. Terreni esistenti ma fuori dallo sguardo pubblico

    • Lotti agricoli o non edificabili, magari intorno al paese, che restano anni in uno stato di sospensione: né parco, né edilizia sociale, né vera campagna.

    • Terreni all’asta, non venduti, o frammentati in micro-quote, che non diventano mai progetti concreti (case, servizi, verde).(Immobiliare)

  2. Terreni “bloccati” da vincoli, abusi, incertezze catastali

    • aree potenzialmente utili per nuova edilizia sociale, ma con vincoli idrogeologici, archeologici (Poggiomarino ha il sito di Longola, con un’area archeologica importante), di rischio Vesuvio;(longola.it)

    • porzioni di territorio dove regole, condoni, abusi edilizi e interessi diversi si intrecciano, rendendo di fatto impossibile qualsiasi progettualità trasparente.

  3. Terreni invisibili come metafora sociale

    • I “terreni invisibili” sono anche le persone che vivono in case popolari come fossero in una zona grigia:

      • non pienamente legittimate,

      • non pienamente protette,

      • mai davvero rappresentate.

    • Esistono, ma non contano nei processi decisionali: non vengono coinvolte nei piani urbani, nei progetti di rigenerazione, nelle scelte su sgomberi e demolizioni.


5. Il paradosso: case che ci sono, terreni che ci sono… ma mancano le soluzioni

In tutta la provincia di Napoli hai, contemporaneamente:

  • case popolari occupate “irregolarmente” ma abitate da famiglie con redditi bassissimi;

  • alloggi vuoti o non assegnati per anni, per burocrazia o contenziosi;

  • terreni pubblici o para-pubblici che potrebbero essere usati per edilizia sociale, servizi, verde;

  • mercato privato che spinge su affitti brevi, speculazione, trasformazione turistica delle zone appetibili.

Risultato: invece di una politica che aumenta e qualifica l’offerta di casa, si scarica sul singolo inquilino il peso dell’irregolarità:
“Non hai titolo? Fuori.”
Ma spesso quell’irregolarità è il prodotto di decenni di mancate politiche, favoritismi, pratiche clientelari, silenzi.


6. Se vuoi farne un approfondimento (da blogger)

Se ti interessa svilupparlo in chiave editoriale, potresti strutturare così:

  1. Incipt umano

    • Una scena di sfratto o di pre-sfratto: la lettera, il citofono, la paura di dover lasciare l’alloggio popolare “che è casa da sempre”.

  2. Zoom locale: Poggiomarino come caso-studio

    • Rischio sgombero alloggi popolari nel 2021, aggiornamento graduatorie, paura nelle famiglie.(Obiettivo Notizie)

  3. Cornice regionale: Campania, Acer, degrado e assenza di manutenzione

  4. Capitolo “terreni invisibili”

    • Mappe mancate, aree a vocazione abitativa mai sviluppate, terreni all’asta che non diventano progetti.

    • La metafora: persone come “terreni invisibili” nel discorso pubblico.

  5. Domande aperte, non solo denuncia

    • Che cosa significherebbe una vera politica della casa?

    • Cosa potrebbero fare Comuni, Regione, Acer se davvero scegliessero di vedere questi “terreni invisibili” e queste persone invisibili?



venerdì 21 novembre 2025

Essere uomini di una volta oggi significa camminare disarmati in un mondo armato di indifferenza, scegliendo comunque di guardare negli occhi chiunque ci passa accanto.

 

Essere “uomini di una volta” in un mondo che non sa più guardare negli occhi

Viviamo in una società che ti dice che puoi avere tutto: successo, riconoscimento, oggetti, distrazioni infinite.
Ma c’è una cosa che sembra non rientrare più nel “pacchetto”: il rispetto per chi abbiamo di fronte, soprattutto quando quella persona non è considerata “importante” dal punto di vista sociale.

E in mezzo a questo scenario, chi cerca ancora di vivere con valori “di una volta” – rispetto, parola data, empatia, onestà – spesso si sente fuori posto, quasi sbagliato.
Eppure, è proprio qui che inizia la vera forza.


1. L’uomo che non urla più forte, ma sente di più

Oggi sembra che venga ascoltato solo chi urla, chi ostenta, chi si impone.
Se non sei aggressivo, se non sgomiti, sembra che tu venga automaticamente messo ai margini.

L’“uomo di una volta”, invece, è quello che:

  • non ha bisogno di umiliare qualcuno per sentirsi più grande;

  • non misura il suo valore in base ai numeri, ma in base alla coerenza;

  • non cerca lo scontro, ma il dialogo, anche quando costa fatica.

Questo modo di essere oggi viene frainteso come debolezza. Ma è esattamente il contrario: ci vuole molto più coraggio a rimanere gentili in un mondo che ti spinge a indurirti.


2. L’illusione di avere tutto: la grande bugia contemporanea

La società di oggi ci bombarda con un messaggio semplice e tossico:
“Puoi avere tutto. E se non ce la fai, è colpa tua”.

Così inseguendo il tutto, perdiamo il vero:

  • rincorriamo oggetti, e smettiamo di vedere le persone;

  • collezioniamo esperienze, ma non ci fermiamo abbastanza per viverle davvero;

  • riempiamo la vita di cose, ma lasciamo vuoti i rapporti.

L’illusione non è solo quella di “avere tutto nella vita”, ma quella ancora più sottile di bastare a se stessi, senza aver bisogno dell’altro.
È una bugia comoda, ma ci rende soli, cinici, sospettosi.


3. Dare importanza a chi abbiamo di fronte: una rivoluzione silenziosa

In un mondo che valuta gli esseri umani a seconda di:

  • quanto guadagnano

  • quanto appaiono

  • cosa possiedono

scegliere di dare importanza a qualcuno che non viene valutato, che non ha titoli, potere o visibilità… è un atto rivoluzionario.

Significa affermare una verità scomoda:

“Tu sei importante non per quello che hai, ma per quello che sei.”

Dare importanza a chi abbiamo di fronte vuol dire:

  • ascoltare davvero, non solo aspettare il nostro turno per parlare;

  • riconoscere la fatica degli altri, anche se non è spettacolare;

  • avere rispetto per il cammino di chi incrocia il nostro, anche solo per un attimo.

È facile essere gentili con chi ammiriamo.
La vera prova comincia quando davanti a noi c’è qualcuno che il mondo considera “nessuno”.


4. Essere non valutati, ma restare dignitosi

Una delle esperienze più dolorose è sentirsi invisibili.
Essere presi per scontati. Fare il proprio dovere, dare il massimo, e non ricevere né riconoscimento né rispetto.

Qui succede qualcosa di delicato dentro di noi: abbiamo una scelta.

  • O diventiamo come il mondo che ci ha ferito: cinici, arrabbiati, pronti a restituire la stessa indifferenza.

  • Oppure decidiamo di non farci modellare dal peggio che vediamo.

Essere “uomini di una volta” non significa vivere nel passato, ma proteggere una certa idea di dignità interiore:

  • continuare a salutare anche chi non risponde;

  • continuare a essere onesti anche se la scorciatoia sarebbe più conveniente;

  • continuare a rispettare gli altri, anche quando non veniamo rispettati.

Non è masochismo. È una scelta identitaria:

“Io non divento come ciò che mi ferisce.”


5. Orgogliosi di accettare il prossimo

“Accettare il prossimo” oggi viene spesso confuso con una frase da poster motivazionale.
In realtà è uno dei gesti più difficili che esistano.

Accettare il prossimo significa:

  • capire che non tutti hanno la nostra storia, e quindi non possono avere le nostre reazioni;

  • smettere di pretendere perfezione dagli altri, sapendo che nemmeno noi siamo perfetti;

  • riconoscere che anche chi sbaglia è spesso il risultato di ferite, paure, mancanze.

Essere orgogliosi di questo non vuol dire sentirsi moralmente superiori, ma sapere che stiamo scegliendo coscientemente un modo di stare al mondo:

  • un modo che non alimenta l’odio;

  • che non aggiunge altra violenza alla violenza;

  • che non risponde alla superficialità con altra superficialità.

È una forma di orgoglio diversa:
non è quello che gonfia il petto, ma quello che tiene dritta la schiena, anche quando nessuno ti applaude.


6. La fatica di restare buoni (quando nessuno ti vede)

La bontà oggi è spesso spettacolarizzata: gesti buoni, ma solo se fotografabili, condivisibili, esibibili.
La vera bontà, però, accade quasi sempre lontano dai riflettori.

Resta “uomo di una volta” chi:

  • aiuta senza scriverlo sui social;

  • chiede scusa anche se nessuno lo obbliga;

  • tiene la porta aperta – in senso letterale e metaforico – a chi arriva dopo.

Questa fatica è reale, logora, a volte fa pensare: “Ma chi me lo fa fare?”
Eppure, ogni volta che scegliamo di comportarci così, stiamo affermando un principio fondamentale:

L’essere umano conta. Sempre. Anche quando il mondo se ne dimentica.


7. Non adattarsi al peggio: il vero atto di coraggio

L’aggressività sociale di oggi ha un effetto pericoloso:
ti spinge a adattarti, a uniformarti, a diventare “duro” per sopravvivere.

Il rischio è che, per non soffrire, smettiamo di sentire.

Essere “uomini di una volta” in questo clima significa:

  • proteggere la propria sensibilità come un valore, non come un difetto;

  • non vergognarsi di provare empatia, commozione, tenerezza;

  • non lasciarsi trascinare dalla corrente del cinismo.

Non è questione di essere ingenui.
Si può essere lucidi, consapevoli, perfino disincantati…
ma scegliere comunque di non rinunciare al rispetto, alla gentilezza, alla capacità di vedere l’altro come un essere umano e non come un ostacolo.


8. Il principio più vero: l’altro come specchio della nostra umanità

Alla fine, tutto si riduce a una domanda:
Come tratto chi ho davanti?

Non chi mi può essere utile. Non chi mi può aprire una porta.
Proprio chi ho davanti, qui, ora.

Perché in quella relazione minuscola, quotidiana, apparentemente insignificante, si vede chi siamo davvero:

  • come parliamo a chi è stanco;

  • come ci comportiamo con chi non può ricambiarci;

  • come reagiamo di fronte alla fragilità altrui.

Essere “uomini di una volta” oggi significa questo:

  • mettere al centro la persona, non il ruolo;

  • ricordarsi che anche chi non è “valutato” da nessuno ha una storia, un cuore, un valore;

  • capire che ogni sguardo che incontriamo è un’occasione per scegliere che tipo di esseri umani vogliamo essere.


Conclusione: Tenersi stretti i propri valori è un atto di resistenza

In una società aggressiva e piena di illusioni, rimanere fedeli a certi valori non è nostalgia del passato:
è resistenza morale.

Essere orgogliosi di accettare il prossimo, dare importanza a chi ci sta di fronte, restare gentili anche quando non conviene… tutto questo non è debolezza.

È una dichiarazione potente:

“Io scelgo di rimanere umano, anche quando il mondo sembra averlo dimenticato.”

E forse, senza fare rumore,
sono proprio queste persone – gli “uomini di una volta” – a tenere ancora in piedi ciò che di più prezioso abbiamo:
la capacità di riconoscerci negli occhi dell’altro.



1. **“Se il crimine diventa autonomo e muto, non spariscono i colpevoli: si addormenta la società.”** 2. **“Quando le macchine del crimine agiscono da sole, il vero bersaglio siamo noi che facciamo finta di niente.”** 3. **“Se il mezzo è autonomo e nessuno è da arrestare, allora è la nostra coscienza che è sotto processo.”**

 Il crimine sta usando l’intelligenza artificiale in un modo incredibile.

E purtroppo… molto concreto.

Non è solo questione di testi scritti da ChatGPT o di immagini generate. Il salto vero è che l’IA è uscita dallo schermo: comanda droni, sommergibili, infrastrutture digitali, botnet che si muovono e agiscono da sole.

Ed è qui il punto che nessuno sta spiegando davvero:

se il mezzo è autonomo, non c’è nessuno da arrestare, nessuno da interrogare, nessuno che tradisce.
È un vettore muto.

Questo cambia tutto: investigazioni, responsabilità penale, persino il concetto stesso di “criminale”.

In questo articolo vediamo come ci siamo arrivati, cosa sta già succedendo nel mondo fisico e digitale e perché la nostra idea di sicurezza è rimasta ferma a un mondo che non esiste più.


Dal digitale al fisico: l’IA esce di casa

Per anni abbiamo pensato all’IA come a qualcosa di astratto: algoritmi che classificano immagini, chatbot che rispondono, sistemi che suggeriscono video.

Nel frattempo, fuori dai riflettori:

  • i cartelli della droga hanno iniziato a usare droni per trasportare carichi oltre i confini, in voli notturni a bassa quota difficili da individuare.(ResearchGate)

  • in vari Paesi, droni telecomandati consegnano droga e oggetti di contrabbando direttamente dentro le carceri, sfruttando coordinate GPS e app di geolocalizzazione.(The Times)

  • al largo della Colombia è stato intercettato un narco-sommergibile semisommergibile autonomo, senza equipaggio, dotato di antenne, modem satellitare e telecamere, probabilmente in fase di test per trasportare fino a una tonnellata e mezza di cocaina in modo completamente uncrewed.(The Guardian)

Questo è già il presente. Ma è solo il livello “beta”.

Organizzazioni internazionali e centri di ricerca stanno documentando come i gruppi criminali stiano integrando l’IA per automatizzare intere fasi delle loro operazioni: logistica, riciclaggio, comunicazioni, persino la scelta dei bersagli.(Reuters)

Il risultato è un ecosistema in cui il “lavoro sporco” viene spostato su mezzi autonomi, mentre gli esseri umani si nascondono sempre più lontano.


Il concetto chiave: il “vettore muto”

Chi fa investigazione è abituato a partire dal vettore:
la macchina, il telefono, il furgone, il corriere, il bonifico.

Dietro un mezzo c’è sempre un autore: un autista, un intestatario, un proprietario, un contatto. Qualcuno da fermare e interrogare.

Con l’IA e l’automazione spinta, il vettore può diventare muto:

  • un drone programmato per decollare, sganciare un pacco e rientrare;

  • un sommergibile autonomo che segue una rotta predefinita, controllato da remoto via satellite;

  • un software che muove denaro in modo frammentato, passando da wallet a wallet, scegliendo automaticamente i percorsi meno tracciabili;

  • una botnet che scansiona vulnerabilità, sceglie gli obiettivi e lancia attacchi senza nessun “hacker” collegato in tempo reale.(UNODC)

Se intercetti il mezzo, intercetti solo il mezzo.
Nessun guidatore, nessun passeggero, nessuno “sotto pressione” che in interrogatorio inizi a parlare.

È questo il cuore del problema: l’IA non è solo uno strumento “più potente”, è un cuscinetto di distanza tra il crimine e chi lo compie.


Tre tipi di mezzi autonomi che il crimine sta già usando (o testando)

1. Veicoli e droni nel mondo reale

Qui parliamo di hardware: qualcosa che occupa spazio, vola, naviga o si muove su ruote.

Esempi concreti:

  • Droni da contrabbando
    Usati per trasportare droga e merci illegali sopra confini terrestri o barriere fisiche. Volano di notte, a bassa quota, sganciano il carico e tornano indietro.(ResearchGate)

  • Droni nelle carceri
    In Regno Unito sono stati segnalati droni che consegnano cannabis, cocaina, ketamina, ma anche farmaci, steroidi e altri prodotti direttamente dietro le mura dei penitenziari, con un livello di organizzazione degno di una logistica e-commerce.(The Times)

  • Sommergibili autonomi (narco-sub)
    La Marina colombiana ha intercettato un semisommergibile senza equipaggio, probabilmente progettato per viaggiare in modo autonomo con carichi enormi di droga. Antenne, modem satellitare, telecamere: un laboratorio galleggiante di autonomia criminale.(The Guardian)

  • Self-driving car come “muli” della droga (scenario realistico)
    Analisti e studiosi hanno già descritto il rischio che i futuri veicoli autonomi diventino “narco car” prive di guidatore: l’auto parte, consegna, torna, e se viene beccata… dentro non c’è nessuno.(Forbes)

In tutti questi casi, il vettore trasporta rischio e valore, ma non trasporta persone.


2. Botnet e agenti software autonomi

Nel mondo digitale, il concetto di mezzo autonomo è ancora più radicale.

I nuovi botnet abilitati dall’IA sono in grado di:

  • trovare da soli le vulnerabilità più profittevoli;

  • scegliere il tipo di attacco (ransomware, phishing mirato, furto di dati);

  • adattarsi alle difese in tempo reale, senza intervento umano costante.(UNODC)

Nel frattempo, l’IA viene usata per:

  • generare malware sempre più sofisticato;

  • creare deepfake vocali e video credibili per truffe, estorsioni e manipolazioni politiche;(Europol)

  • orchestrare campagne di disinformazione e attacchi informatici in collaborazione con attori statali ostili.(Financial Times)

Qui il “vettore muto” è un agente software: instabile, replicabile, diffuso ovunque. Se lo spegni in un server, può riapparire altrove.


3. L’impresa criminale-as-a-service

Un’altra trasformazione, meno visibile ma devastante, è la nascita del crime-as-a-service potenziato dall’IA:

  • generatori di phishing in qualunque lingua, ottimizzati per il tasso di risposta;(Europol)

  • strumenti automatizzati per la creazione di deepfake, usati per frodi finanziarie, ricatti, campagne di odio;(Europol)

  • servizi che vendono modelli e tool pre-allenati per attacchi informatici o campagne di truffa mirata.(trmlabs.com)

In pratica, una parte del crimine organizzato sta diventando una piattaforma tecnologica: non serve più essere hacker o trafficante esperto, basta pagare per usare strumenti automatizzati.


La legge rincorre: responsabilità senza corpo

Qui arriviamo allo scontro frontale tra diritto penale analogico e crimine autonomo digitale/fisico.

I problemi principali:

  1. Chi è penalmente responsabile del vettore muto?

    • Chi progetta l’algoritmo?

    • Chi lo addestra?

    • Chi lo lancia?

    • Chi ne trae profitto?

    Studi recenti sottolineano come l’IA permetta a reti criminali di operare “faceless, bodiless”, senza gerarchie visibili e con autori difficilmente individuabili.(capacity4dev.europa.eu)

  2. Distanza geografica e giurisdizione
    Un cartello in un Paese può:

    • far partire un drone da un secondo Stato,

    • farlo volare sopra un terzo,

    • consegnare droga in un quarto.

    A chi compete? Dove si configura il reato principale?

  3. Prova e attribuzione
    Anche quando intercetti il sommergibile o il drone:

    • la catena di controllo può passare da VPN, server compromessi, botnet;

    • i log possono essere manipolati o cifrati;

    • l’IA può aver preso decisioni “intermedie” non direttamente riconducibili a singole persone.

  4. Norme pensate per chi impugna un’arma, non per chi la automatizza
    Molte norme penali si basano sull’idea di un soggetto che “porta”, “conduce”, “impugna” o “aziona” un mezzo.
    Ma se il mezzo:

    • è stato programmato mesi prima,

    • non richiede più controllo umano,

    • agisce in modo adattivo…

    allora su quale azione concreta si costruisce il reato?


Scenari che potrebbero arrivare prima di quanto pensiamo

Guardando i trend attuali, organizzazioni come Europol e think tank internazionali ipotizzano scenari di reti criminali quasi interamente automatizzate, dove l’IA pianifica e coordina attività con intervento umano minimo.(Reuters)

Alcuni esempi realistici:

  1. Filiera logistica del narcotraffico quasi autonoma

    • modelli predittivi che individuano le rotte meno rischiose via mare, aria e terra;

    • droni, sommergibili e mezzi autonomi che eseguono il trasporto;

    • algoritmi che riprogettano in tempo reale la rotta in base alle intercettazioni e ai controlli.

  2. Attacchi coordinati a infrastrutture critiche

    • agenti software che attaccano reti elettriche, ospedali, porti;

    • campagne di disinformazione e panico coordinate da bot;

    • richiesta di riscatti in criptovalute, con riciclaggio automatizzato.(AP News)

  3. Mercati neri “self-running”

    • piattaforme nel dark web gestite da agenti IA che verificano identità, calcolano reputazione, gestiscono escrow, tracciano consegne, tutto senza uno staff umano evidente.

In tutti questi scenari, torniamo al punto iniziale: si colpisce il vettore, non il soggetto. E il vettore è muto.


Possibili contromisure: cosa può fare la società (non solo la polizia)

Non siamo condannati a subire passivamente. Ma le risposte devono essere sistemiche, non cosmetiche.

1. Usare l’IA contro l’IA

Le stesse tecniche che potenziano il crimine possono:

  • aiutare a rilevare schemi di riciclaggio e frodi in tempo reale;(Arva)

  • identificare comportamenti anomali di droni e mezzi autonomi in certe aree;

  • analizzare enormi quantità di dati (finanziari, logistici, comunicativi) per scovare reti nascoste.(Europol)

Qui la vera sfida è di governance: chi accede ai dati, con quali limiti, quali garanzie di diritti fondamentali?


2. Ripensare la responsabilità legale

Il diritto dovrà fare un salto concettuale:

  • introdurre forme di responsabilità estesa per chi progetta, distribuisce e utilizza sistemi autonomi a rischio elevato, soprattutto nel contesto dell’AI Act europeo;(Europol)

  • prevedere reati specifici legati all’uso criminale di sistemi autonomi (non solo “uso di arma” o “traffico di droga”, ma anche “impiego di mezzo autonomo per attività illecita”);

  • armonizzare norme tra Stati, perché questi vettori sono, per definizione, transnazionali.


3. Regolare infrastrutture e hardware

  • droni con identità digitale obbligatoria oltre determinate dimensioni/pesi;

  • geofencing in aree sensibili (porti, carceri, centrali, confini);

  • obblighi di log non manipolabili per certi tipi di mezzi autonomi (come le “scatole nere” sugli aerei).

Queste misure non bloccano il crimine (chi vuole violare la legge lo farà comunque), ma alzano il costo dell’anonimato.


4. Cultura digitale per chiunque

La parte più sottovalutata è la società civile:

  • capire che una voce al telefono può essere clonata;

  • sapere che un video può essere deepfake;

  • riconoscere segnali tipici di truffe “assistite dall’IA” (urgenza emotiva, richieste di pagamenti non tracciabili, incoerenze nei dettagli).(AP News)

Educazione digitale non è più un “optional tecnico”, ma una forma di igiene sociale.


Conclusione: quando non c’è più nessuno al volante

La vera frattura non è tra “IA buona” e “IA cattiva”, ma tra sistemi con un umano al centro e sistemi in cui l’umano scompare dietro strati di automazione.

Nel momento in cui il mezzo diventa autonomo:

  • la polizia trova mezzi, non persone;

  • i giudici devono decidere responsabilità in assenza di “mani sporche” dirette;

  • i cittadini si confrontano con fenomeni difficili persino da immaginare, figuriamoci da riconoscere e denunciare.

Il crimine l’ha capito in fretta:
più il vettore è muto, più la filiera criminale resta intoccabile.

La domanda, ora, è se Stati, istituzioni e società civile riusciranno a muoversi con la stessa velocità. Non per fermare la tecnologia – impossibile – ma per evitare che l’autonomia diventi il nuovo rifugio sicuro dell’illegalità.



martedì 18 novembre 2025

«Stato, ti presenti alla nostra porta con lo sfratto dopo trent’anni, ma la verità è che l’abbandono lo hai firmato tu: hai lasciato interi quartieri senza lavoro, servizi e diritti, e ora chiedi a chi non hai mai guardato in faccia di pagare il conto di una società che non hai mai costruito davvero.»

 Quando lo Stato ti bussa alla porta dopo trent’anni non è solo uno sfratto: è come se ti dicesse

“tu qui non sei mai davvero esistito”.

Ti propongo di guardare questa cosa su tre livelli: struttura (come funziona il sistema casa), corpo (cosa succede alla famiglia dopo 30 anni in un alloggio popolare), sguardo (il problema di una società che non ti ha mai visto e adesso ti chiede di “integrarti”).


1. Il contesto: Napoli, le case popolari e l’emergenza permanente

In Italia solo circa il 2,5% delle abitazioni è edilizia residenziale pubblica (ERP), mentre quasi il 30% delle case di proprietà resta sfitto. Intanto si registrano in media oltre 130 sfratti eseguiti al giorno. (Vita.it)

Napoli è dentro questa frattura in modo ancora più duro:

  • nelle graduatorie per le case popolari, per anni ci sono state circa 17.000 famiglie in attesa, con liste praticamente ferme dalla fine degli anni ’90; in più di vent’anni, meno di 2.000 assegnazioni. (UniURB Open Journals)

  • a livello nazionale si parla di oltre 3 milioni di persone in emergenza abitativa, mentre nel Paese ci sono più di 7 milioni di case vuote. (Usb Pubblico Impiego)

Il Comune di Napoli, negli ultimi anni, sta pubblicando avvisi per reperire alloggi da destinare all’emergenza abitativa e contributi straordinari per chi è senza casa. (www.comune.napoli.it)
Questo però dimostra una cosa: non esiste un piano strutturale, solo bandi “tappabuchi” di fronte a un problema storico.

In mezzo ci sono le famiglie che vivono da decenni nelle case comunali, spesso in situazioni grigie:
assegnazioni vecchie, subentri mai regolarizzati, occupazioni “tollerate” che per anni hanno fatto comodo a tutti – finché qualcuno decide che il regolamento, all’improvviso, va applicato alla lettera.


2. Cosa significa essere sfrattati dopo 30 anni

Prova a immaginare una famiglia che vive da tre decenni in una casa popolare:

  • lì sono cresciuti i figli, lì hai curato i genitori anziani, lì conosci ogni voce del pianerottolo

  • la casa non è solo “un tetto”, è memoria, rete sociale, punti di riferimento (la scuola, il medico, il bar, la fermata dell’autobus)

  • spesso non hai mai potuto permetterti di “scegliere”: non è che confrontavi annunci immobiliari, quello era l’unico posto dove vivere

Quando arriva lo sfratto, non è solo:

“Devi lasciare l’alloggio”

ma è, sotto traccia:

  • “non sei in regola”

  • “sei un abusivo”

  • “sei tu il problema”

Questo dopo che, per anni, lo stesso sistema ti ha usato come tampone sociale: invece di creare nuove politiche abitative, si è limitato a lasciarti lì, senza però riconoscerti pienamente.

Dal punto di vista psicologico succede spesso:

  • senso di colpa (“forse abbiamo sbagliato qualcosa noi”)

  • umiliazione pubblica (i carabinieri, l’ufficiale giudiziario, i vicini che guardano)

  • paura del dopo (dove vado? chi mi affitta una casa se ho poco reddito, un lavoro precario e magari figli piccoli?)

E poi c’è un’altra ferita: dopo 30 anni lo Stato ti tratta come se fossi arrivato ieri.


3. “Vita nuova in una società che non è mai esistita”

Quando ti dicono:
“Adesso dovete ricominciare da capo, integrarvi, cercare un’altra casa, un altro quartiere, un’altra vita”
ti stanno chiedendo di entrare in una “società” che, nei fatti, non ha mai fatto spazio per te.

Per molte famiglie delle case popolari di Napoli la realtà è stata:

  • quartieri stigmatizzati come “ghetti”

  • scuole dove mancano risorse, attività, continuità

  • lavoro quasi sempre precario, in nero, intermittente

  • servizi sociali presenti a intermittenza, spesso solo quando c’è emergenza (sgombero, minori a rischio, conflitti)

Lo Stato e le istituzioni li hanno visti quasi sempre come problema, raramente come cittadini con diritti pieni:

  • quando serve il consenso: promesse di sanatorie, graduatorie, piani casa

  • quando serve “ordine”: sfratti, sgomberi, controlli

Nel mezzo, nessuna costruzione di legami sociali veri: nessun investimento serio su:

  • doposcuola, centri di quartiere, biblioteche di prossimità

  • percorsi di lavoro stabile legati alla rigenerazione urbana

  • servizi di salute mentale di comunità (importantissimi dove c’è stress abitativo cronico)

Chiedere a una famiglia sfrattata di “rifarsi una vita” è facile.
Il difficile sarebbe costruire, intorno, una società che la voglia davvero quella famiglia, non solo che la tolleri.


4. Il paradosso: tra case vuote, canoni, ISEE e sanatorie mancate

Negli ultimi anni la Regione Campania e i Comuni hanno modificato regole e canoni ERP, legandoli ancora di più all’ISEE e chiedendo documentazione puntuale: chi non presenta i documenti rischia aumenti spropositati, morosità e quindi sfratto. (Uniat Campania APS)

Allo stesso tempo:

  • ci sono alloggi popolari vuoti o inutilizzati, in attesa di manutenzione o di riassegnazione

  • ci sono state sanatorie parziali per alcune occupazioni storiche, che hanno regolarizzato qualcuno lasciando fuori altri per pochi giorni o cavilli burocratici (Open Migration)

Quindi:

  • chi ha vissuto per anni nel grigio tra legalità e necessità

  • oggi viene giudicato solo sul piano burocratico,

  • senza tenere conto che è stato proprio il sistema pubblico a produrre quell’area grigia.

È come se lo Stato dicesse:
“Per trent’anni non ti ho dato risposte, ma oggi ti chiedo di essere perfettamente in regola. Se non lo sei, fuori.”


5. Cosa servirebbe davvero per “uscire” dopo 30 anni

Se parliamo seriamente di famiglie che devono lasciare una casa popolare dopo decenni, non basta:

  • un contributo una tantum

  • un posto letto in un residence o in una struttura temporanea

Una vita nuova richiederebbe almeno:

  1. Soluzioni abitative reali, non parcheggi

    • alloggi a canone sociale nello stesso territorio, per non spezzare le reti di cura

    • progetti di cohousing popolare, dove casa e servizi di quartiere vadano insieme

  2. Accompagnamento sociale lungo, non solo il giorno dello sfratto

    • mediatori, educatori, psicologi di comunità

    • percorsi personalizzati per anziani, persone con disabilità, famiglie monoreddito

  3. Lavoro e reddito, non solo assistenza

    • impiegare le persone nei progetti di riqualificazione degli stessi quartieri popolari (manutenzione, verde, servizi)

    • formazione mirata legata ai bisogni reali della città (cura, turismo, artigianato, digitale)

  4. Uno sguardo diverso

    • smettere di raccontare chi vive nelle case popolari solo come “abusivo” o “problema di ordine pubblico”

    • riconoscere che per anni queste famiglie hanno tenuto insieme pezzi di città che altrimenti sarebbero crollati socialmente


Se vuoi, nel prossimo passo possiamo trasformare tutto questo in:

  • un pezzo narrativo con la storia di una famiglia-tipo che dopo 30 anni si ritrova con lo sfratto in mano

  • oppure in una inchiesta-blog strutturata (dati, testimonianze, analisi) su cosa significa, a Napoli, essere sfrattati dallo Stato dopo una vita passata nelle sue case popolari.



lunedì 17 novembre 2025

L’intimità è quel luogo silenzioso in cui ti senti visto, ascoltato e accolto, anche quando i corpi stanno fermi e a parlare sono solo i cuori.

 L’intimità: la forza silenziosa che va oltre il sesso


Quando parliamo di “intimità”, quasi tutti pensano subito al sesso.
Ma l’intimità è un universo molto più vasto: è la qualità di come ci incontriamo, non solo cosa facciamo insieme.

In questo articolo proviamo a ribaltare una convinzione diffusa: non è il sesso a creare intimità, è l’intimità che può rendere il sesso (quando c’è) profondamente trasformativo. E può esistere anche dove il sesso non c’è affatto.


1. Perché confondiamo intimità e sesso

Ci sono almeno tre motivi principali:

  1. Cultura e media
    Film, serie e pubblicità ci mostrano corpi nudi molto più spesso di cuori aperti. La nudità viene venduta come “intimità”, ma spesso è solo esposizione fisica, non incontro autentico.

  2. Velocità delle relazioni
    Viviamo relazioni veloci: ci si conosce, ci si “piace”, si passa subito al letto. Il corpo diventa il canale più immediato, mentre la confidenza emotiva richiede tempo, ascolto, delicatezza.

  3. Paura di mostrare davvero chi siamo
    È paradossale, ma per molte persone è più facile spogliarsi fisicamente che emotivamente. Fare sesso può sembrare meno rischioso che dire:
    “Ho paura di perderti”,
    “Mi sento insicuro”,
    “Ho bisogno di essere rassicurato”.

Il risultato? Sesso presente, intimità assente. E quella sensazione di vuoto che arriva “dopo”, anche quando “sulla carta” è andato tutto bene.


2. Che cos’è davvero l’intimità

L’intimità non è un gesto, non è una posizione, non è una performance.
L’intimità è qualità di presenza.

Possiamo riassumerla così:

  • Essere visti davvero, non solo guardati.

  • Sentirsi al sicuro, non perfetti.

  • Potersi mostrare fragili, senza paura di essere giudicati o abbandonati.

È quel momento in cui puoi dire una verità scomoda su di te e l’altra persona resta lì. Non scappa, non minimizza, non ride di te. Ti accoglie.

L’intimità è fatta di:

  • silenzi che non mettono a disagio

  • piccoli gesti di cura non richiesti

  • sguardi che ascoltano

  • domande autentiche, senza curiosità morbosa

È vicinanza, non invasione.


3. Il sesso senza intimità: cosa lascia davvero

Il sesso, di per sé, è un linguaggio del corpo. Può essere:

  • gioco,

  • sfogo,

  • esplorazione,

  • anestetico emotivo.

Quando manca l’intimità, spesso:

  • il corpo c’è, il cuore no;

  • il piacere c’è, ma è come un picco isolato, non inserito in un paesaggio più ampio di fiducia e connessione;

  • dopo, torna un silenzio freddo, non un silenzio pieno.

Quante volte dopo il sesso ci si sente:

  • usati,

  • non compresi,

  • emotivamente soli?

Non perché il sesso sia “sbagliato”, ma perché è stato usato come sostituto dell’intimità, non come espressione di una vicinanza già presente.


4. L’intimità che include (o meno) il sesso

L’intimità può:

  • Esistere senza sesso
    In un’amicizia profonda, tra fratelli, genitori e figli, colleghi che vivono un percorso intenso insieme. Ci si può sentire intimi senza mai sfiorare la dimensione erotica.

  • Rendere il sesso un atto sacro (anche nel quotidiano)
    In una relazione di coppia, l’intimità emotiva fa sì che il sesso non sia solo una “cosa da fare”, ma un momento in cui:

    • mi sento scelto e non solo desiderato;

    • posso dire cosa mi piace e cosa no;

    • posso fermarmi se qualcosa mi mette a disagio, sapendo che verrò ascoltato.

La forza dell’intimità sta proprio qui:
dà profondità sia alla vicinanza corporea, sia a quella relazionale dove il corpo non è protagonista.


5. I diversi livelli dell’intimità

Per capire quanto sia potente, possiamo immaginare l’intimità come fatta di livelli che si intrecciano.

5.1 Intimità verbale

È la capacità di dire cose vere.
Non solo parlare del meteo o del lavoro, ma aprire finestre su:

  • paure,

  • desideri,

  • dubbi,

  • ferite.

Frasi come:

  • “Mi sento geloso e non vorrei”

  • “Questa tua reazione mi fa male”

  • “Ho bisogno di più rassicurazioni da parte tua”

sono atti di intimità molto più di un corpo nudo.

5.2 Intimità emotiva

Qui non si tratta solo di raccontare, ma di sentire insieme.

  • L’altro non cerca di aggiustarti a tutti i costi.

  • Non ti dà consigli su tutto.

  • Sta con te in ciò che provi. Ti fa spazio.

Quando qualcuno sostiene il peso delle tue emozioni senza ritrarsi, l’intimità si radica.

5.3 Intimità corporea (che non è solo sesso)

Intimità corporea non significa soltanto rapporto sessuale. È fatta di:

  • abbracci lunghi,

  • mani intrecciate,

  • appoggiare la testa sulla spalla di qualcuno,

  • stare vicini sul divano senza dover parlare.

La pelle, in questi casi, diventa un luogo di sicurezza, non solo di eccitazione.

5.4 Intimità di visione

È forse il livello più profondo: condividere una direzione.

  • Sogni,

  • progetti,

  • valori,

  • cosa voglio imparare, cosa voglio lasciare nel mondo.

Quando due persone sentono di guardare, se non nella stessa direzione, almeno nello stesso orizzonte, l’intimità assume una dimensione quasi “spirituale”.


6. Dove il sesso si ferma e l’intimità continua

Il sesso ha dei limiti strutturali: dura un tempo, ha un inizio e una fine.
L’intimità, invece, può attraversare:

  • malattia,

  • distanza,

  • cambiamento,

  • invecchiamento,

  • periodi in cui il desiderio cala o è assente.

La forza vera dell’intimità è proprio questa:
sopravvive dove il sesso non può arrivare.

Quando una coppia attraversa un periodo di difficoltà sessuale ma riesce a restare intima:

  • parlando senza distruggersi,

  • sostenendosi a vicenda,

  • cercando magari aiuto insieme,

dimostra che il legame non è fondato solo sulla prestazione, ma su qualcosa di molto più robusto.


7. Perché l’intimità fa più paura del sesso

Molte persone temono più l’intimità del sesso, anche se non lo dicono apertamente.

L’intimità spaventa perché:

  • Ti rende visibile
    Se mi mostro davvero, posso essere rifiutato per chi sono, non solo per cosa faccio. È un rischio enorme.

  • Ti rende “dipendente”
    Quando sento di potermi appoggiare all’altro, temo: “E se un giorno non ci sarà più?”.
    L’intimità apre alla vera perdita, non solo alla rottura di un’abitudine.

  • Ti costringe a guardarti dentro
    Per essere intimo con qualcuno, devo fare i conti con ciò che provo, con le mie reazioni, con la mia storia.
    Non posso usare l’altro solo per distrarmi da me stesso.

Il sesso può essere usato per:

  • anestetizzare la solitudine,

  • gonfiare l’ego,

  • confermare di “valere qualcosa”.

L’intimità, invece, ti mette davanti una domanda molto più radicale:
“Hai il coraggio di farti conoscere?”


8. Come coltivare la vera intimità (anche se ti hanno insegnato solo il sesso)

Qualche spunto pratico:

  1. Rallenta
    Non correre subito alla dimensione fisica. Dai tempo alle conversazioni di scendere più in profondità. Non è moralismo, è ecologia emotiva.

  2. Fai domande vere
    Non solo: “Che lavoro fai?”.
    Ma anche:

    • “Cosa ti ha insegnato il tuo ultimo fallimento?”

    • “Cosa ti fa sentire davvero al sicuro con una persona?”

    • “Cosa temi di più in una relazione?”

  3. Impara a dire “mi dispiace” e “ho sbagliato”
    Non c’è intimità senza la possibilità di riparare. Il chiedere scusa sincero crea più intimità di mille notti perfette.

  4. Stai anche quando è scomodo
    La vera intimità si misura quando emergono:

    • conflitti,

    • fraintendimenti,

    • giornate storte.

    Restare in ascolto, invece di chiudersi o attaccare, costruisce un legame resistente.

  5. Dai valore ai piccoli rituali

    • Un messaggio la mattina,

    • un momento fisso alla settimana per parlare davvero,

    • un gesto di cura ripetuto nel tempo.

    Questi dettagli creano un tessuto di intimità molto più forte dei soli momenti “speciali”.


9. L’intimità come forza rivoluzionaria

In una società che premia:

  • la performance,

  • l’immagine,

  • la velocità,

l’intimità è un atto quasi rivoluzionario.

È dire:

  • “Scelgo di vederti oltre il tuo profilo”.

  • “Scelgo di farmi vedere oltre la mia maschera”.

  • “Scelgo una qualità di relazione che non si misura in like, ma in respiri condivisi”.

Il sesso può unire due corpi per qualche ora.
L’intimità può unire due universi interiori per un pezzo di vita, che sia lungo o breve.


In sintesi

  • Il sesso è un linguaggio potente, ma non è l’unico, né il più profondo.

  • L’intimità è la vera forza: quella che resiste, che cura, che trasforma.

  • Quando il sesso nasce dall’intimità, non è solo “fare l’amore”: è diventare, per un momento, casa l’uno per l’altro.

  • E anche dove non c’è sesso, l’intimità può comunque cambiare il modo in cui ci sentiamo al mondo: meno soli, più veri, più vivi.



Mediaset non è stata solo televisione, ma una leva di potere capace di trasformare la visibilità in fiducia, le aziende in marchi e il lavoro invisibile dietro le quinte in un’influenza che ha segnato un’epoca.

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